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Gabriela Gheorghișor, dall’autorità critica alla forza della poesia
A vent’anni dal suo debutto nella critica letteraria romena, Gabriela Gheorghișor è oggi un nome affermato anche nella poesia.
Nel campo critico si è imposta grazie a una presenza costante e solida nelle principali riviste letterarie, România literară, Luceafărul de dimineață, Dilemateca, Observator Cultural, nonché nelle riviste craiovene Mozaicul, dove si è formata, e Ramuri, con la quale il suo nome è ormai associato all’intero panorama letterario romeno. È inoltre autrice di volumi importanti dedicati a figure fondamentali con della cultura contemporanea, come Mircea Horia Simionescu e Cristian Popescu. È una critica molto stimata nell’ambiente letterario, in particolare da esegeti di massimo prestigio, come Paul Cornea, Nicolae Manolescu ed Eugen Negrici, che le ha riconosciuto con maggiore fermezza le qualità: «maturità intellettuale, intelligenza interpretativa ed equilibrio situazionale».
Il riconoscimento del valore dei suoi contributi ha preso la forma di numerosi premi letterari e persino della «Medaglia al Merito Culturale», conferita dal Presidente della Romania nel 2019.
Critica premiata Gabriela Gheorghișor ha a sua volta assegnato numerosi riconoscimenti come membro di diverse giurie, molte appartenenti all’Unione degli Scrittori di Romania. Tutto ciò lascia intuire che il passaggio alla poesia fosse un’evoluzione naturale.
Il suo potente esordio poetico avviene con il volume La vedova paga il doppio, pubblicato alla fine del 2024 da Editura Cartea Românească e sostenuto, in quarta di copertina, da Mircea Mihăieș e Vasile Spiridon. Răzvan Voncu, in una recensione su România literară, ha definito il libro un esempio di «ego-lirica». Ma non è solo questo. Così come l’autrice afferma di aver ereditato le malattie delle donne della sua famiglia, ha ereditato anche un patrimonio di valori culturali ai quali rapporta la propria esistenza e che filtra attraverso la propria sensibilità.
Ne scaturisce una gamma di toni e ritmi, da Led Zeppelin a Beethoven, un intreccio di esperienze, fiabe, vita quotidiana nei condomini, tristezze, speranze, ricordi e ironia. Non è, come lei stessa precisa, una poesia femminista né concettuale; sfugge a qualsiasi etichetta, pur accogliendo liberamente riferimenti e associazioni tra i più diversi. È una poesia di forza, audace, che la colloca chiaramente tra le voci importanti della lirica romena contemporanea della generazione giovane e ancora giovane.
Va aggiunto che il volume La vedova paga il doppio ha goduto di un’eccellente accoglienza critica. Le numerose risonanze nelle riviste culturali hanno confermato la maturità e l’originalità del suo discorso lirico. Il riconoscimento ufficiale è arrivato anche attraverso il Premio dell’Unione degli Scrittori di Romania per la Poesia (2025), che ha collocato il volume tra le opere poetiche più rilevanti.
Con questa doppia identità, critica e poetessa, Gabriela Gheorghișor occupa una posizione rara nel panorama contemporaneo. Analizza la letteratura e, allo stesso tempo, crea letteratura.
Le poesie qui tradotte anticipano un volume in preparazione, nel quale l’autrice proseguirà i temi dei testi precedenti, l’autofinzione poetica, l’introspezione, l’attenzione al trauma identitario, la solitudine, la memoria familiare e la corporeità.
I nostri cuori
Il mio cuore è un animale morto
come dopo l’esplosione di Cernobîl.
Il mio corpo è una rete di tunnel
in cui l’oscurità rotola senza sosta.
Cerco di parlarti con le parole della notte,
forse così mi capirai.
Il tuo cuore grande raccoglie le fotografie.
Una rete nera mi copre gli occhi.
Nelle tue vene scorrono fiumi di cannella,
ma la coppa di vino è evaporata
dal mio cuore.
Ti ho cucinato uno stufato di cuori di pollo,
una delicatezza dell’infanzia.
Quando moriva un pulcino, gli facevamo la croce
con due bastoncini legati.
Il mio cuore è un cimitero senza tombe,
solo croci semplici
come quelle dei soldati perduti in guerra.
I nostri cuori sono gli specchi di Fresnel.
Una fetta di carne
Entro nella macelleria e l’odore di sangue fresco
risveglia il riccio che ho nello stomaco,
comincio ad avere crampi, gli aculei salgono lentamente lungo l’esofago.
Quando arriva in faringe, mi trasformo anch’io
in una fetta di carne sanguinante.
L’Inquisizione ha voluto fare dell’uomo una carne d’angelo,
ma l’uomo ha ricevuto due costole di maiale
al posto delle ali.
La medicina estetica inietta le masse di carne
con botox e acido ialuronico.
L’uomo è diventato una bambola di plastica,
un’icona da Instagram in una tomba virtuale.
Il tecnofuturismo sogna l’uomo-macchina,
la civiltà postumana, efficiente e fredda.
I robot ci daranno la caccia ovunque.
Dio sarà una fetta di carne,
supererò la nausea e l’abbraccerò
come l’unico fratello, come l’ultimo uomo.
Il mio sangue e il suo riempiranno la macelleria,
la nostra chiesa di carne.
Qui ci inginocchieremo, baceremo la costola di maiale,
una reliquia su cui morirà anche il riccio.
Una madeleine
Accendo una candela e l’odore della cera fusa
mi rinvigorisce. La sua luce mi cola nel cervello.
Mi intravedo accanto alla caldaia con i resti di candele,
piccola apprendista di mago che aggiunge legna al fuoco.
Dal liquido bruno si coagula, entro il giorno dopo,
una ruota di colore giallo-sporco
che mio nonno porterà al vescovado.
Da bambina andavo così spesso in chiesa
che non potrò mai liberarmi
del profumo d’incenso sollevato dall’incensiere del prete
e dell’odore delle candele consumate.
Tè di zucchero caramellato
Quand’ero bambina, mi ammalavo spesso
di tonsillite.
Dopo avermi rimpinzata di pastiglie, senza alcun effetto,
mio nonno mi ricoverava in ospedale,
dove mi facevano iniezioni di penicillina.
Piangevo senza sosta, come una bambina abbandonata
in un mondo estraneo.
L’unica gioia era il tè di zucchero caramellato
della colazione.
A casa bevevo tisane,
e quel liquido dolce dal sentore di caramello
mi sembrava qualcosa di insolito.
Oggi, la malattia non ha nome,
ma prolifera come un’infezione.
Tu sei il vecchio tè di zucchero caramellato
delle mattine rabbrividite.
Epitafio
Un giorno di questi scriverò su Facebook
che sono morta,
nel virtuale tanto stiamo tutti insieme,
spettro accanto a spettro,
i vivi con i morti o i morti con i vivi.
Gabriela si è spenta da questa vita stretta come una bara,
i rimpianti scorreranno nei commenti
come olio d’oliva,
carnosi e fluidi allo stesso tempo.
L’olio, si sa, lenisce una ferita
come una carezza liquida.
Su Facebook, la vita o la morte è infinita,
e non importa quale vita o quale morte,
questa o l’altra.
Nessuno vede il dolore in profondità,
così come scomporresti una lacrima
in acqua, glucosio, sodio, omega-3,
calcio, cloruro, potassio, manganese,
acido folico, lisozima, prolattina,
se davvero volessi distinguere
le lacrime dell’emozione
da quelle riflesse.
La morte, su Facebook, è solo un epitafio.
Di qua, in questa vita angusta come una bara,
tu sei lo shock elettrico sul mio petto
mentre guardo il monitor
con la linea dritta della fine.
La Via della Seta
A scuola allevavano bachi da seta
nella palestra,
e noi dovevamo portare foglie di gelso.
Con le mani impiastrate di verde dopo la raccolta,
entravamo nel santuario brulicante.
Mi faceva ribrezzo e iniziavo a sognare:
avevo letto in un libro di storia
della Via della Seta,
da cui erano arrivati anche questi bachi
nell’Impero Cinese,
nascosti in un bastone di bambù,
insieme alla peste bubbonica,
ma non pensavo ai bachi,
pensavo ai sacchetti di spezie,
all’anice e al cardamomo,
al coriandolo e al cumino,
al sommacco e al dragoncello,
al fieno greco e allo zafferano,
al finocchio e all’alloro,
alla vaniglia e al pimento,
al rosmarino e al ginepro,
ai chiodi di garofano e alla noce moscata,
alla curcuma e alla cannella.
Un impero di aromi
che non conoscevo,
solo due o tre si trovavano
nella cucina dei nonni.
Le ripetevo nella mente come un incantesimo,
senza sapere che la poesia è una carovana senza fine
sulla strada della morte.
Il baule
Sono un baule logoro
dimenticato in una pasticceria.
Un bambino di nessuno entra in fretta,
ruba un vassoio di choux à la crème
e la rovescia dentro il baule.
Su una panchina, nel parco, mangia poi
il mio cuore alla vaniglia.
A cura e traduzione di Carmen Teodora Făgețeanu
(n. 12, dicembre 2025, anno XV)
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