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 |  | «Tradire la propria lingua»: un inedito Cioran al Salone di Torino 
 
  Non si arresta la caccia all’inedito cioraniano: E.  M. Cioran, Tradire la propria  lingua. Intervista con Philippe D. Dracodaïdis (a cura di Antonio Di Gennaro,  traduzione di Massimo Carloni, La scuola di Pitagora Editrice, Napoli 2015), è  un libretto prezioso che ci aiuterà a ricostruire il puzzle di quell’«apostolo  dell’impasse», come viene definito  Cioran nella nota introduttiva firmata dal giornalista greco.
      Nell’autunno  1985, Cioran concedeva questa intervista a Philippe D. Dracodaïdis, presso l’Istituto Francese di Atene; un suo estratto fu pubblicato in lingua italiana  con il titolo Parola di Emile Cioran,  ne «l’Unità» di martedì 28 gennaio 1986.
      Tanti sono i temi affrontati dal filosofo di Răşinari in questo entretien, ricamati con insuperabile  eleganza stilistica attorno al distillato di considerazioni sull’argomento  centrale, che rimane quello della lingua. L’intervista è condita anche da esilaranti  episodi aneddotici, da consigli agli scrittori in erba e da intimi retroscena biografici, come accade quando cerca di spiegare più a se stesso che al suo interlocutore la ragione per cui  sua madre abbia sposato un pope ortodosso: «Il padre di mia madre era un barone. Pertanto, una figlia  di barone che sposa un prete, un “pope”, rappresenta una decadenza inaudita. Ma  la spiegazione è molto semplice. Il barone voleva avere un maschio. Aveva avuto  sette figlie. Era ricco, desiderava lasciare in eredità la sua fortuna e finalmente  l’ottavo fu un maschio. Cosi, lasciò tutte le figlie al primo venuto, a un  “pope”, a chiunque. Si sbarazzò di loro. Tutta la sua fortuna è passata al  figlio. (Non ricordo più perché sto raccontando tutto questo!)» (p. 44).
 
 L’elemento autobiografico non manca mai quando Cioran  (si) racconta e sarà interessante notare come lo stesso Dracodaïdis inviti i lettori alla scoperta del lato balcanico di Cioran, appello che si  unisce al coro di quanti, anche in Italia, sono ormai impazienti di penetrare  nella fucina di sofferenza e di creazione degli anni giovanili del filosofo,  del suo periodo di formazione umana e intellettuale in Romania. D’altronde,  quando racconta del suo primo libro, scritto a 21-22 anni, Al culmine della disperazione, Cioran è molto chiaro in questo  senso: «Non voglio rinnegare quel libro perché contiene tutto quanto ho scritto in seguito. (…) Voglio dire che  non ho fatto alcun progresso riguardo al pensiero, alla vita, all’azione,  perché quell’intuizione, per così dire primordiale, si è rivelata per me  pressoché esatta. In seguito, non ho fatto che giocare d’astuzia. Passando al  francese, in ogni caso, ho dato una sorta di dignità all’espressione, evolvendo  quindi sul piano dello stile, ma non su quello del pensiero» (pp. 16-17). Ma  Cioran va addirittura oltre, in questa intervista-anamnesi autobiografica,  confessando di aver praticato una vera e propria terapia su se stesso grazie  alla sua prima opera, nata da «un  radicalismo feroce con la più bestiale vena pessimistica» (come la descriveva  all’epoca, in una missiva spedita all’amico, Petre Comarnescu [1]). La terapia,  quel famoso «effetto Cioran», produce esiti benefici non solo sul suo  ideatore/autore ma anche su quanti gli stanno intorno. Gli amici, come l’armeno  Arşavir Acterian o il drammaturgo e  saggista francese di origini romene Eugène Ionesco, attingeranno a piene mani  dalla riserva di corroborante vitalismo di questo «dandy du vide». Ad Arşavir, che a ottant’anni aveva deciso di farla finita ed era  alla ricerca di un lasciapassare per il suicidio, Cioran dice di aspettare: «Finché puoi ridere, aspetta; perché il riso salva la vita, la rende  sopportabile» (p. 18). Ionesco, da parte sua, telefonava a Cioran anche 12  volte al giorno, in preda alla più atroce depressione per ricevere da lui  sollievo e comprensione (è un esterrefatto Wolfgang Kraus a ricordarlo nel suo  diario). Il capitolo delle virtù terapeutiche dell’opera cioraniana rimane  dunque tutto da esplorare, e questa intervista costituisce uno stimolo  importante in tale direzione.
 
 Cioran terapeuta,  Cioran moralista «ossessionato dall’uomo, (…) dal suo lato mostruoso, che è il  più interessante» (p. 13), Cioran che preferisce «una divagazione ad un  ragionamento sostenuto» e per il quale «un Dostoevskij è più grande di  qualsiasi filosofo» (p. 19), Cioran «ossessionato» da autori che dichiara di  leggere poco, come Pascal e Baudelaire, ma che «sono figure che vivono in me»  (p. 20), Cioran profondamente segnato dall’idea del peccato originale, che  raccomanda la lettura del primo capitolo della Bibbia, il Genesi, Cioran lettore di Gregorio Palamàs ed estimatore della Filocalia: è questo il Cioran che si  racconta a Philipp D. Dracodaïdis.
 Non mancano, come sempre,  anche gli aspetti comici nel racconto del griot-balcanico Cioran: si prenda, a titolo d’esempio quello delle sue  rocambolesche avventure per procurarsi le due lettere di raccomandazione  firmate da altrettanto insigni docenti universitari francesi, indispensabili  per il prolungamento della borsa di studio rilasciatagli dall’Istituto Francese  di Bucarest. Oppure, il racconto pieno di humour autodistruttivo della  traiettoria destinale  del suo libro, Sillogismi dell’amarezza: «Tutti mi dissero: “Come hai osato scrivere un libro così superficiale,  così disonorevole?”. Mi ricordo di persone molto serie che hanno detto: “Non è  possibile, sei finito”. Dalla casa editrice tedesca mi dissero: “Non si  pubblicherà più niente di lei perché tutto ciò non è serio”» (p. 23). A  vent’anni di distanza dall’iniziale smacco editoriale, il libro sarebbe  diventato «una sorta di breviario» dei giovani in Francia e in Germania. Morale  della favola, nelle parole di Cioran: «Ecco perché cito quest’esempio. È molto  importante per i giovani: quando si pubblica un libro che poi fallisce, non  bisogna mai disperare» (p. 24). Ad ogni modo, questo episodio è rivelatore di  quel tratto distintivo del pensatore, sottolineato anche dall’autore  dell’intervista, quando nella nota introduttiva richiamava l’attenzione su quell’aspetto  di Cioran che a suo (e nostro) avviso, «non è stato messo in luce e che resta  da scoprire» (p. 8): il suo lato balcanico. Sì, perché, anche quando parla di  un libro, per Cioran, il protagonista rimane sempre il concetto di destino, questo Urgrund ineludibile, questa «grande idea» che «possedeva» i  suoi antenati. «Occorre attendere – incoraggia Cioran con paterna sollecitudine  i giovani – perché, a mio parere, è più difficile prevedere il destino di un  libro che quello di un individuo. È tutto qui l’interesse di pubblicare libri.  Non si può sapere ciò che un libro diventerà. (…) Il libro stesso è un destino.  Se il libro non è un destino, non esiste. È questa la verità. Non importa che  esso sia buono o cattivo, ma unicamente il suo essere un destino» (pp. 24-25).
 La lingua, tema principale dell’intervista Passando al tema principale  dell’intervista, quello della lingua, numerose e singolari sono le  considerazioni di Cioran. Essenziale in questa direzione appare il concetto di  «probità», termine utilizzato da Rivarol per spiegare il genio della lingua  francese, e che, per Cioran, è legato non tanto a una caratteristica morale,  quanto alla valenza d’intelligibilità dell’idioma: «La lingua possiede un rigore,  l’ho sperimentato nel romeno dove avevo l’impressione di poter dire qualsiasi cosa.  In francese no, perché, innanzitutto, bisogna che un testo sia intelligibile.  (…) Tuttavia, non si deve barare sulle parole. Per esempio, quando leggiamo il  tedesco, perfino l’inglese, si ha l’impressione di qualcosa di arbitrario, soprattutto  in prosa. In francese no. Se leggiamo un testo francese, si vede subito se  qualcuno vuole qualcosa o meno. Ciò non accade quando si legge un libro di filosofia  in tedesco. In inglese è uguale. L’inglese non ha lo stesso rigore del  francese» (p. 28). D’altronde, l’ethos di un popolo è immancabilmente legato  alla propria lingua. L’aver letto in gioventù un autore come Montaigne in  tedesco è stata una vera e propria «delusione» per Cioran, perché «era pesante,  sapeva di dimostrazione, di filosofia tedesca appunto» (p.20). Pur continuando  a rimpiangere «l’odore di freschezza e di marciume, il miscuglio di sole e di  sterco, la bruttezza nostalgica, la superba compostezza» [2] dell’idioma  materno, Cioran non vi farà mai più ritorno, optando definitivamente per la  Francia dell’«insulto raffinato» che mal sopporta «l’aspetto balcanico delle  espressioni» (p. 46). Per di più, sentenzia Cioran, «ritengo una calamità il  fatto che l’inglese sia diventato lingua universale. (…) Penso che il francese  sia la lingua ideale per la prosa, ma non per la poesia. La poesia inglese è  senza dubbio superiore, è un dato incontestabile. Gli Inglesi sono grandi  poeti. Tuttavia, riguardo alla prosa, lo strumento ideale è la lingua francese»  (pp. 28-29).
 Infine,  forte come sempre della convinzione di essere capito meglio in Germania e in  Spagna, piuttosto che in Francia, la sua terra d’adozione, Cioran rincara la  dose in tal senso anche in questa intervista: «Sono stato molto influenzato  dagli Spagnoli, dalle loro ossessioni e dal nulla che fa parte della loro vita  quotidiana», dichiarando che la Spagna «è stata una delle ossessioni della mia vita»  (pp. 33-34). E ancora: «…il Francese non è un essere tragico. Può essere  triste, ma non tragico. Lo Spagnolo è un essere tragico» (ibid.) ed è questa sua  refrattarietà al tragico, questa incapacità a cogliere la fatalità del processo  storico e della sua decadenza, a capire che l’uomo in fin dei conti «è un  essere condannato, una creatura votata allo scacco, ad un destino tragico»,  «intaccato» com’è «alla radice» (p. 51), è questa inappetenza del Francese per  la catastrofe a segnare agli occhi di Cioran la sua definitiva mancanza di  profondità. A Wolfgang Kraus farà la seguente osservazione: «Cosa sia un conflitto interiore, i francesi lo sanno solo  esteriormente» [3] e in una  lettera spedita a Renzo Rubinelli il 19 settembre 1987, sarà ancora più  incisivo: «La  mia visione del mondo non è parigina, è balcanica» [4] non lasciando più  alcun dubbio circa l’inscindibile, viscerale e onnipotente legame con le sue  origini.
 Ma, al di là di tutto, come osserva Ion Dur: «Cioran è uno  dei grandi privilegiati della parola (…), da lungo tempo ormai ha valicato  la stretta soglia dell’eternità nel calesse di due idiomi, diventando  contemporaneamente filosofo francese di origine romena e pensatore romeno di  espressione francese» [5].
 
 
 
  Amelia Natalia Bulboacă(n. 5,  maggio 2015, anno V)
 NOTE
 1. Emil Cioran, Lettere al culmine della disperazione  (1930-1934), Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2013, p. 61.2. Id., Storia e utopia, [Histoire et utopie, 1960], a cura di M. A. Rigoni,  Adelphi, Milano 1982, p. 12.
 3. Id., L'agonia dell'Occidente. Lettere a  Wolfgang Kraus (1971-1990), ed. it. a cura di M. Carloni, trad. P.  Trillini, Bietti, Milano, 2014, p. 52
 4. Renzo Rubinelli, Tempo e destino nel pensiero di E. M. Cioran, Aracne editrice,  Roma, 2014, p. 29.
 5. Ion Dur, Hîrtia de turnesol. Emil Cioran – inedit. Teme pentru  acasă, Sæculum, Sibiu, 2000, p. 205.
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