Il motivo del ritorno nella letteratura di immigrazione italofona

Il desiderio dell’uomo di lasciare la propria casa e di spostarsi verso nuove terre, forse proprio per questo motivo viste più attraenti, è esistito da sempre, dato che l’emigrazione affonda le sue radici in una latinità di tipo nomade. Ogni partenza presuppone un viaggio nel quale colui che sceglie di fare questa esperienza potrebbe alla fine realizzare o no il suo sogno progettato prima di mettersi in cammino. Il mito del viaggio, così spesso messo in discussione in letteratura, nell’Odissea  o nell'Eneide, si ritrova anche nella letteratura d’immigrazione contemporanea, dando origine agli stessi temi e motivi ricorrenti vissuti nell’ottica delle due dimensioni: partenza e ritorno. Questa volta non ci proponiamo di parlare del viaggio in sé, della sua prima azione – la «partenza», dei motivi, dei sensi e dei significati che l’hanno determinato. Ci riferiremo solo al ritorno, visto come un viaggio in senso contrario, come ri-venire o come ritorno alle origini. Il prefisso «ri» indica la direzione del viaggio, la rotta di colui che lo intraprende verso il luogo di destinazione e che rappresenta senza dubbio il ritorno, il cammino «all’indietro». Ogni partenza, oppure quasi ogni partenza ha sempre anche un ritorno; certo, ci sono anche partenze senza ritorno come nel caso di coloro che scelgono fatalmente questa strada per motivi solo a loro noti oppure nel caso della morte che cambia inevitabilmente la traiettoria del destino. Però, sia in un caso sia nell’altro, c’è sempre un ritorno, anche se solo a livello metafisico.

Ritorno a casa, antologia bilingue italo-romena
   
Così come si affermava in precedenza, il mito del viaggio non ha perso i suoi sensi e significati nella letteratura d’immigrazione attuale, anzi si è arricchito attraverso nuove manifestazioni espressive. Oggigiorno l’uomo porta dentro di sé questo mito. Lo aveva ereditato dai suoi antenati e lo perpetua con la stessa determinazione in forme evolute. Il viaggio ha prodotto in sé un cambiamento, una alienazione con dissipazione dell’ego-nomade nel mondo e il ritorno – un vero ritrovamento di esso, tramite il recupero del senso primordiale. Ci proponiamo qui di parlare del «ritorno a casa» così come si manifesta negli scrittori dei due libri scelti per l’analisi: Ritorno a casa [1], antologia bilingue (italiano-romeno) a cura di Irina Ţurcanu  e L’italiana [2] di Joseph Zoderer. Abbiamo scelto i due libri per individuare il tema comune ai due scrittori: il ritorno a casa, con tutte le sue implicazioni; vivere il sentimento di ri-familiarizzare con lo spazio originario, ritrovamento o ri-conquista di esso con l’aiuto di tutti i dati affettivi, la memoria capace di restituire le sequenze del passato e di riconoscere gli elementi che sembrano estranei, anche se prima erano ben conosciuti.   
Nella stessa prospettiva si iscrive anche il significato della parola «casa», intesa come doppia appartenenza dell’individuo a due spazi diversi (quello dell’origine e quello di adozione), che recede rinunciando quasi definitivamente dal significato unico, cioè dal «topos», poiché questo è solo un elemento formale che rimanda all’idea originaria (quella della casa, del proprio paese). Tra l’individuo che ritorna e i luoghi, un tempo familiari, c’è ora uno straniamento e, di conseguenza, una rottura.
   
Nel racconto di Ruxandra Drăgoescu, Il girone [3], il ritorno è bivalente, un doppio ritorno. Potremmo considerarlo, da un lato, «ritorno» (quando la protagonista del racconto risente la nostalgia «suggerita dal Serpente Uroboro» e lascia l’Italia per andare in Romania), e dall’altro, un «altro ritorno» (quando essa rifà la strada in senso contrario verso l’altra casa, in Italia). Il ritorno a casa, nel proprio paese, ha un valore simbolico, di ricerca della verità su sé stessi, sulla propria stabilità sul piano individuale e affettivo. In questo caso, il ritorno è soltanto un ricorso all’inizio, al momento zero da cui l’emigrante dovrà ripartire, questa volta arricchita dall’esperienza acquisita durante il viaggio, ma conscia che la causa di questa «fuga» è l’amore. Il racconto diventa una metafora della ricerca dell’amore associata all’idea della casa, della famiglia, dell’affetto. Perciò, prigioniera tra due mondi, la protagonista percorre la strada andata-ritorno-rivenire; lei cerca l’amore correndo da un capo all’altro del mondo, intuendo alla fine che tutto sta dentro di sé, nel modo di percepire il luogo confortevole chiamato «casa», nella sua capacità di relazionarsi con gli elementi determinanti dello spazio, ma anche nel modo di armonizzarsi con gli esseri umani con i quali viene in contatto.
 
Il racconto Frammenta Rosa [4] di Camelia Mirescu propone un ritorno, questa volta simbolico, attraverso i ricordi che sono alla base del collegamento tra l’idea di casa e quella dell’infanzia e dell’affetto nello spazio sicuro della «stanza». Le immagini descritte sono estratte dai cassetti della memoria affettiva, evocano i ricordi di un’infanzia spensierata trascorsa nello spazio protettivo della casa di famiglia e della casa della signora e della signorina Gulan. Il primo allontanamento da casa ha luogo quando la mamma la porta per mano nella casa Gulan dove, per il fatto di essere ancora piccola, riesce ad adattarsi con facilità. Dal signor Gulan la bambina impara a conoscere la storia degli antenati del suo Paese, dei monumenti che ritroverà più tardi, con l’emigrazione in Italia. L’immagine di fiaba dell’infanzia lascia spazio libero a un altro mondo, quello dell’adulto responsabile delle sue scelte che si deve staccare dalle sue radici per iniziare il cammino di sviluppo personale. Il ritorno diventa sempre «l’arrivo delle sue partenze», perché ogni ritorno significa automaticamente una partenza che fa piangere Zia Mili e che alla protagonista fa vivere e rivivere momenti di gioia e di tristezza. Le domande alla fine del racconto diventano riflessioni sulla propria esistenza, sulla propria identità, sulla decisione di sradicare le proprie radici nel momento in cui dà forma al suo nuovo destino.  
Questa volta lo straniamento non si produce nello spazio confortevole della casa della signora e della signorina Gulan, ma nel luogo dove «non c’è né la primavera, né l’estate, né l’autunno, né l’inverno. È solo una stagione con dei profumi inconfondibili, è un passaggio del tempo della nostra anima nella magia del ritrovamento continuo». [5]
 
Benvenuto, ma arrivederci [6] è il titolo del terzo racconto dall’antologia Ritorno a casa. L’autrice Irina Şerban racconta con parecchio umorismo e spontaneità un episodio di vita di due giovani emigrati in Italia che devono tornare a casa dopo una lunga assenza. Il ritorno in sé è un evento che suppone tante azioni in vista dell’incontro con i loro cari rimasti nel Paese d’origine. I preparativi per la partenza, descritti con ironia e umorismo, offrono un quadro comico per via della montagna di bagagli, pieni di regali e pensierini per le famiglie e gli amici, ma è proprio questo il quadro che corrisponde alla realtà di una società segnata dal fenomeno migratorio contemporaneo. Il titolo Benvenuto, ma arrivederci basato sottilmente sull’ironia fa riferimento al personaggio-intruso nel testo che entra nel piccolo universo, dominato dal registro familiare, intimo, per rompere l’equilibrio, per provocare il caos. Nel mondo familiare di casa, dove tutti comunicano nella stessa lingua, il romeno, non può entrare un «estraneo» che parla italiano, lingua che loro stessi parlavano «di là». La lingua diventa un elemento definitorio nella selezione dei mondi perché designa proprio gli elementi costitutivi dei due mondi.
I giovani immigrati provano a ricostruire lo spazio con l’aiuto dei ricordi, però non ci riescono – quello che una volta era familiare adesso diventa ignoto e indifferente. È un tema ricorrente nella letteratura dell’immigrazione contemporanea.
«Siamo finalmente a casa, un po’ cambiati e un po’ noi stessi, anime sbandate all’inseguimento di ricordi ormai sbiaditi. Poco fiduciosi ci guardiamo intorno alla ricerca di un angolo che rinsaldasse la nostra memoria. Però fuori non c’è neanche un angolo». [7]
  
L’ultimo racconto, scritto da Luiza Diculescu, restringe l’intero discorso narrativo attorno alla negazione del verbo «ritornare» – «non ritornare». Queste parole sono espresse sotto l’impulso di quello che la protagonista vede a contatto con la realtà della Romania, dopo tanto tempo, con il quadro desolante scorto sulle strade di Bucarest. Sergiu, il suo amico, fa un solo viaggio; andata-ritorno (Romania-Italia e Italia-Romania). Quella che fa più viaggi è Elza. Lei tesse, come Penelope, il cammino iniziatico, alla ricerca e nel ritrovamento del senso della vita, il quale per lei è l’amore e le viene ironicamente svelato dalla Morte. L’episodio dell’incontro con essa è rivelatore perché scopre il senso delle proprie ricerche durante il viaggio. Così come per gli altri personaggi del libro, Elza cerca una sorte di terapia per il suo cuore, introvabile in questo mondo per lei, «perché in Italia il sintagma “ti amo” non significa “te iubesc”». [8]
Le parole, la lingua in cui sono espresse, hanno un ruolo demiurgico, di creatore di mondi. La lingua è espressione, soffio divino – i mondi incominciano a respirare solo se gli elementi costituenti sono espressi nella lingua della terra dove sono nati. Persino la Morte è nazionale: «puoi morire solo nella tua lingua!» Le parole-surrogato (i loro omonimi in altre lingue) creano mondi artificiali, paralleli, e ci vuole tanta pazienza e impegno per farle vivere.
 
Gli elementi che compongono lo spazio familiare, il luogo d’origine, attraversano un processo di straniamento nel momento in cui l’emigrante, tornato nel suo Paese dopo una lunga assenza, entra in contatto con la realtà. Lo spazio si trasforma insieme al tempo. Tutti e quattro i racconti promuovono questa idea, a un certo momento.
«La mia strada, adombrata di tanti alberi che ogni estate avevano i tronchi verniciati di bianco, mi sembrava molto più piccola di come la ricordavo stando di là». [9]
 «Questi palazzi sporchi e trascurati, sono i nostri? E la stradina tra i palazzi è stata sempre così ... piene di buche? E dove è finito il marciapiede? E tutto lo spazio intorno si è fatto più piccolo? E dove sono i bambini? Dove siamo noi bambini? Eppure sono trascorsi solo cinque anni!» [10]
 
Il romanzo L’italiana di Joseph Zoderer    

Sempre del ritorno si parla anche nel romanzo L’italiana, di Joseph Zoderer. Nonostante sia diverso perché si tratta di un’altra categoria di personaggi, di un altro contesto, di altre circostanze, il ritorno è lo stesso. 
Die Walsche  (L’italiana) [11] – il titolo originale del libro, inserito nella letteratura d’immigrazione dall’autore italiano di origine tedesca Joseph Zoderer – è un termine non privo di connotazioni negative con cui i tedeschi chiamavano gli italiani. Olga, protagonista del romanzo, è la Walsche [12] del libro. È una ragazza di origine tedesco-sudtirolese, nata in un paesino di montagna, duro, cresciuta in un ambiente caratterizzato fortemente dal sospetto e dalla sfiducia. Un giorno decide di lasciare il paese per andare in un altro posto, in una città dove si innamorerà di un meridionale, Silvano. La sua decisione è stata avvertita dai suoi connazionali come un tradimento che con l’andare del tempo la farà sentire colpevole. 
Il ritorno ai luoghi d’origine, il giorno dei preparativi per il funerale del padre, sveleranno la vera scelta di Olga, da sempre vissuta tra due realtà completamente diverse (quella tedesca e quella italiana) nella sua lotta interiore per scoprire la propria identità o appartenenza. Abbiamo una strana convivenza tra due comunità differenti dal punto di vista storico, linguistico e culturale, che arrivano a isolarsi in modo drammatico, staccandosi l’una dall’altra. In questa storia drammatica Olga si isola e, ancora giovanissima, non potendo più tollerare i maltrattamenti del padre, lascia insieme a sua madre la casa nelle montagne dell’Alto Adige. Le due donne tentano di rifarsi una nuova vita in una città di pianura. Olga si fidanza con un ragazzo del sud, Silvano, allontanandosi sempre di più dalle sue origini.
Il vero protagonista del romanzo diventa l’estero con il suo senso di appartenenza, con il suo isolamento spinto ai limiti dell’alienazione, specie quando si confronta con la realtà naturale, ambiente dove gli altri sembrano agire in modo normale.

Il personaggio del romanzo L’italiana vive un’esperienza inedita, di sradicamento dai luoghi ai quali non sente più di appartenere e in cui nemmeno la nostalgia può ancora stabilire rapporti emozionali. L’importanza di questo romanzo sta esattamente nel declinare il termine estero in rapporto alle difficili relazioni tra due nazioni tanto diverse sia sul piano sociale, sia su quello culturale. L’estero è l’idea centrale del romanzo e il suo risultato è un processo di alienazione di individui che vivono in una data società contemporanea. Lo sguardo dello scrittore diventa riflessivo perché il fenomeno non è individuale ma, al contrario, universale, e rileva esattamente lo stato d’animo degli esseri umani che hanno provato questa esperienza. Olga guarda il nuovo mondo incuriosita e intimorita come un bambino, perché all’inizio la nuova terra sembra imprevedibile, inconcepibile, spaventosa ma bella. Con il passare del tempo, la giovane donna scopre questo nuovo mondo e incomincia ad avvicinarsi a esso, ricorrendo a riferimenti del passato familiare, ma non si farà “conquistare” facilmente.
L’immigrante Olga si sente estranea sia nel quartiere italiano, sia con gli amici di Silvano. Questo sentimento interviene anche nel rapporto tra i due fidanzati. Però lei si sente estranea anche nei luoghi della sua infanzia. «Un’estranea, proprio un’estranea s’era sentita a volte con lui nel quartiere degli italiani, ma anche lì, nella casa dove era cresciuta, nel luogo dove era pure nata, dove tutto sarebbe dovuto esserle familiare, tutto le rovinava sul capo e sul petto con angosciante estraneità, calava in lei attraverso occhi e orecchie e scendeva giù a opprimerle il cuore». [13]
Per chi ritorna alla terra-madre, i luoghi, le cose, le persone perdono i colori di una volta, si spengono col passare del tempo, si allontanano. «Ora che non poteva più nascondersi fra quegli oggetti, essi s’erano scostati da lei e fatti estranei, e lei non aveva più voluto prenderli in mano, non più toccarli e non più odorarli, e quanto più s’era allontanata da loro…...» [14]
Olga desiderava che Silvano rimanesse uguale, ma nello stesso tempo lo voleva capace di pensare e parlare in tedesco come lei. La lingua rappresenta, oltre l’identità, un motivo d’orgoglio più che d’appartenenza. «Noi siamo noi, ecco cosa volevano tutti, anche gli altri volevano poterlo dire di se stessi, tutti, anche gli amici di Silvano non volevano altro che questo senso di appartenenza, e nelle due lingue si gonfiavano poi i bicipiti.». [15]
La lingua è il collante supremo nella comunicazione, la forza e l’espressione: «Erano tutti più forti di lei, [ … ] nelle loro possibilità d’esprimersi […] se avesse potuto disporre di altrettante parole quante gliene offriva la sua lingua…». [16]
Il sentimento della protagonista al ritorno nella cittadina tedesca di montagna è quello della liberazione, perché scopre di poter staccarsi definitivamente da quel luogo, senza rimorsi: «Dal parrucchiere aveva voluto che le tagliassero i capelli cortissimi. Aveva visuto ogni taglio della sua permanente come una liberazione, come un essere sollevata in un’altra dimensione: forse nel Tempo o nel mondo». [17].

Il ritorno a casa potrebbe rilevare un’intera serie di motivi e sensi, in funzione di quello che è successo durante il viaggio: potrebbe essere visto come la parte finale del ciclo (partenza-ritorno), con rassegnazione, nostalgia, un fiasco totale, malinconia, ricerca/ritrovamento dell’ego, successo, paura, evasione, desiderio di ristabilire il contatto con le proprie radici, ricerca dello spazio protettivo della casa ecc. Io lo chiamerei «slegare le radici», nel senso della libertà. Chi ha scelto di partire ha bisogno di libertà per spostarsi. Ecco perché questo potrebbe essere il motivo del ritorno: slegare le radici, nel caso di coloro che non sono riusciti a troncare con brutalità e in modo irreversibile con le proprie origini. Però per quelli (e penso che siano tanti) che hanno mantenuto intatte le radici, anche se ferite, il ritorno a casa diventa motivo di liberazione. I personaggi di questi libri hanno bisogno di muoversi, di conquistare lo spazio perciò hanno bisogno di essere liberi, e non di essere legati. Le radici non partono con gli uomini, esse restano ben ancorate nella terra del paese d’origine. Quelli che soffrono di più sono le persone, non le radici. Soffrono perché sono apparentemente libere, ma fili invisibili, prolungamenti delle radici, li tirano indietro. Sembra che i personaggi di questi mondi narrativi facciano proprio così: ritornano per slegare le radici per poi poter continuare il loro cammino. C’è anche chi non ce la fa e resta per sempre nel ventre della terra madre e una possibile rottura sarebbe troppo violenta, sinonimo di morte. Il ritorno potrebbe essere qualunque cosa ma non una regressione perché chi è partito non è più lo stesso – l’esperienza del viaggio l’ha cambiato per sempre. Il motivo per cui si coltiva il ritorno è il recupero delle radici e la liberazione dell’essere umano dagli schemi originari che limitano e costringono.
Il ritorno del personaggio Olga ha uno scopo terapeutico: cura delle proprie radici, liberazione dalla propria inerzia, allo scopo di creare una nuova vita, e per questo motivo l’individuo deve essere liberato. 
Esistono radici forti e radici fragili, stabili oppure con voglia d’andare via, ma indipendentemente dalla loro natura, i personaggi di questi libri ritornano quasi tutti almeno una volta «a casa». 



Ana Maria Tomaziu Pătraşcu
Traduzione dal romeno di Vivianne Gherghel
(n. 12, dicembre 2014, anno IV)



NOTE

1. Ruxandra Elena Drăgoescu, Camelia Mirescu, Irina Şerban, Luiza Diculescu, Ritorno a casa, Un’antologia bilingue a cura di Irina Ţurcanu, Ciesse Edizioni, Milano, 2013. 
2. Joseph Zoderer, L’italiana, Editoria Tascabili Bompiani, 2007, Milano (Titolo originale Die Walsche, traduzione in italiano di Umberto Gandini). 
3. Del vol. Ritorno a casa cit., Il girone di Ruxandra Elena Drăgoescu. 
4. Ibid., Frammenta Rosa di Camelia Mirescu. 
5. Ibid., p. 124.
6. Ibid., Benvenuto, ma arrivederci di Irina Şerban.
7. Ibid., p. 126.
8. Ibid., Arrivederci di Luiza Diculescu, p. 157.
9. Del vol. Ritorno a casa cit., Il girone di  Ruxandra Elena Drăgoescu, p. 104 .
10. Ibid., Arrivederci di Luiza Diculescu, p. 132.
11. Joseph Zoderer, L’italiana, Editoria Tascabili Bompiani, 2007, Milano (Titolo originale Die Walsche, traduzione italiana di Umberto Gandini).
12. Walsche, termine utilizzato in Alto Adige e in Austria dai parlanti nativi di lingua tedesca per nominare gli italiani, i latini della zona, ma anche il popolo italiano in genere, per differenziarli dai popoli di lingua tedesca (Walser) e dagli slavi (Windisch). 
13. Joseph Zoderer, L’italiana cit..
14. Ibid. 
15. Ibid.
16. Ibid.
17. Ibid.