Emil Cioran. «Il Misantropo delizioso» non c’è più

A te, caro amico,
con la gratitudine
per aver condiviso
«istanti ed eternità»
A. D.

È questa la dedica con cui Alina Diaconú apre il suo Querido Cioran, volume poliedrico che nasce dalla tentazione di raccontare, malgrado l’intervento del tempo che altera necessariamente il ricordo e l’esperienza soggettiva, l’amicizia che lega due esuli del Novecento. La stessa Diaconú – come anche Cioran – insiste più volte su questo punto: la memoria è uno specchio deformante che ci costringe a credere alla vaghezza e all’imprecisione dei ricordi, fino a scolpire in sé stessa la figura di colui che assumerà le forme del mito. Eppure lei non ha potuto resistere alla tentazione dei ricordi, «è una fatica, ma per Cioran questo ed altro…» [p. 25].

Alina Diaconú nasce a Bucarest da una famiglia benestante: il padre Vladimir è un collezionista e critico d’arte piuttosto rinomato negli ambienti artistici della capitale, mentre la madre Varinka si occupa di rilegature di libri d’arte, confeziona eleganti edizioni di manoscritti che poi vende alle più fiorenti case editrici nazionali, e alcune di esse vengono regalate al re di Romania e allo stesso Stalin, all’inizio dell’era comunista. Nonostante il prestigioso ambiente multiculturale in cui cresce – il salotto di casa è spesso teatro di cene e incontri con personalità di spicco della cultura nazionale e straniera – Alina si definisce frutto di due autoritarismi, «la “dittatura del proletariato” nella Romania di Gheorghe Gheorghiu-Dej, il predecessore di Ceaușescu e marionetta di Stalin e delle varie dittature militari argentine, con le caratteristiche e la crudeltà che tutti conosciamo» [p. 27], e figlia della sua Autogeografia, visto che la sua vita è trascorsa tra viaggi e continenti.

Ma veniamo dunque alla sua amicizia con «Monsieur Cioran», che incontra proprio in occasione di uno dei suoi molteplici viaggi a Parigi; un’amicizia che inizia per caso nel 1985, che durerà fino alla morte del filosofo, nel 1995, «e c’è da credere che duri ancora, che, benché distanti fisicamente, le due anime continuino ad alimentare un silenzioso ma vivissimo scambio di idee» [p. 18].
Al suo arrivo a Parigi nel ’85 con il marito Ricardo, Alina Diaconú non crede che sia possibile avvicinare il pensatore romeno: l’immagine che traspare dalle sue pubblicazioni (e a cui tutt’oggi si crede) è quella del tradizionale misantropo schivo, irrintracciabile, intrattabile ecc., ma dietro la porta della mansarda situata nella ormai famosa rue de l’Odéon appare un vecchietto amabile, affabile e vulnerabile – «umano» scrive la Diaconú, qualunque cosa questa parola voglia dire.
Inizia così l’intenso scambio di domande e risposte – rigorosamente in francese, perché Cioran non vuole più parlare in romeno – che costituisce il vero fuoco vivo di questo libro. Numerose sono le tematiche toccate e, oltre al classico intento, da parte dell’intervistatore/intervistatrice, di indagare le origini romene di Cioran e di scavare più a fondo nel suo pensiero per far emergere ulteriori dubbi e domande di carattere «esistenziale», insorge un tessuto di questioni che potremmo facilmente leggere con gli occhi dell’umano di oggi. Ascoltiamo qualche frammento:

E. C.: Non voglio parlare della bomba atomica, non perché non sia reale, lo è eccome, ma perché mi fa orrore parlarne come fanno tutti al giorno d’oggi. Però è logico che esista, visto che l’uomo non fa altro che autodistruggersi, e adesso ha solo trovato il modo perfetto per farlo. Quindi, la bomba atomica è il risultato logico, non della scienza, ma del destino umano. È il coronamento umano, non un incidente. Con la bomba, l’uomo ha trovato ciò di cui aveva bisogno.

A. D.: La guerra è un’invenzione dell’uomo, certo, ma del maschio. Non è un’invenzione di una donna.

E. C.: Beh, ora che le donne stanno arrivando al potere, staremo a vedere…

A. D.: A questo punto mi interessa sapere cosa pensa della lotta della donna per la liberazione, perché io lo considero un fenomeno importante.

E. C.: … Molto importante. Credo che ci sia una generale stanchezza del maschio. Questo possiede un senso profondo, non è solo la conseguenza di qualcosa. Penso che il maschio non creda più in sé stesso, perché altrimenti la donna non avrebbe potuto giocare il ruolo così straordinario che ha adesso.

A. D.: Non è un successo delle donne, ma una sconfitta dell’uomo?

E. C.: Ogni successo, nella vita, è a discapito di qualcuno.

A. D.: Non crede che il mondo possa cambiare attraverso l’emancipazione della donna?

E. C.: No. [...]

Ma ciò che rende veramente unico il testo di Alina Diaconú – che raccoglie interviste, lettere, conversazione telefoniche, oltre che appunti (dal diario di Alina) e un bellissimo dialogo (immaginario) tra Cioran e Ionesco (non è mai stato architettato un incontro tra i due che potesse dare vita a questa conversazione sulla Storia, ma ogni loro risposta proviene da appunti, lettere, libri e colloqui reali con i due pensatori [p. 73]) – è il desiderio di raccontare «l’uomo» Cioran e quella nostalgia di cui le si riempivano gli occhi ogni volta che parlava del suo caro e indimenticabile amico [p. 18]: «Mi manca enormemente la sua calda e avvolgente presenza, il suo sguardo, la sua risata contagiosa, la vivacità, il senso dell’umorismo e il terrore che provava di fronte alle grandi vicissitudini dell’esistenza» [p. 31]. È questo quello che registra il curatore Luca Cerullo nello sguardo di Alina Diaconú che, commossa, racconta di quella mansarda piena di libri e di quello strano personaggio che, come Borges, è riuscito a conciliare profondità ed erudizione, che ha gestito il proprio talento con così tanta umiltà – umiltà che diventa violenza solo nella letteratura, nel pensiero scritto, pertanto furia controllata alla perfezione [p. 34] –, per infine arrivare al Nirvana aggredendolo, con violenza.

«“Un po’ più di malinconia, per favore”, aveva chiesto a chi stava suonando in un famoso spettacolo di tango di Parigi. Rideva quando lo raccontava. [...] Non possiamo dimenticare che lui ci ha guidati per mano, ci ha mostrato il cammino, la bellezza dei piccoli istanti, la felicità dell’infanzia e la semplicità nelle sue molteplici forme, in virtù di quel senso della qualità che amava tanto e che in lui era così intrinseca» [p. 83].





Arlindo Hank Toska
(n. 5, maggio 2022, anno XiI)