Vent’anni dopo. Un commento a «L’anniversario» di Andrea Bajani

Andrea Bajani è un narratore di talento, scrive benissimo, ed è consapevole del suo valore. Ormai affermato, può permettersi di affrontare in 127 pagine il topos dell’odioso retaggio per cui un padre ha il potere esclusivo di decidere l’andamento privato e pubblico del proprio nucleo familiare. L’autore afferma di aver scritto il romanzo di getto e di averne fatto, successivamente, ventidue revisioni; nonostante ciò (o forse proprio per ciò), l’assemblaggio, in alcuni punti, appare piuttosto artificioso.
L’opera deve molto alla brillantezza dello stile e del linguaggio, fattori importanti nell’inibire le istanze capaci di urtare il prodotto confezionato: negli anni in cui accade la vicenda, in Italia e nel mondo succede di tutto, ma all’interno della «sventurata» famiglia del protagonista non c’è il più pallido riflesso della vita reale, spirituale e sociale del tempo. È un esempio, il romanzo di Bajani, di quella letteratura iper-costruita, studiata, ma disanimata di cui parlava Raffaele La Capria.
La vicenda si snoda fra il 1972 e i nostri giorni. C’è un uomo che non ha finito di studiare, che ha messo volutamente incinta la futura moglie, che ha picchiato un cliente nel negozio in cui lavorava, che è fuggito da Roma per rifugiarsi in un villaggio pedemontano piemontese, e poi in una cittadina vicina, che ha un’amante e sa che la moglie ne è a conoscenza, che dai primi anni Settanta al 1993, quando il telefono era pure nei gallinai, si rifiuta di mettere in casa un apparecchio telefonico. C’è una moglie che «sta dentro un potere assoluto» e lo accetta, e quando torna a sorridere perché lavora per alcuni mesi in un supermarket, non fa nulla per prolungare lo stato di grazia che ha conosciuto. Ci sono due figli piegati dal padre al punto che non trovano alcun modo di opporsi al suo dispotismo.
L’acme dell’autoritarismo paterno e della violenza si raggiunge a metà degli anni Novanta, quando, per motivi che il Narratore non chiarisce, il padre devasta mezza casa e provoca alla moglie una ferita in testa, tanto che i vicini sono costretti a chiamare la Polizia. Rientrando in casa appena dopo il misfatto, il figlio, ormai adulto, vede la madre che si tiene «sullo sfondo di quella scena». Comprensibile, in quel momento; ma lui, il figlio? «Non credo le dissi niente, non perché non sapessi cosa dire, ma perché tutto era vero a sufficienza senza le parole». Stiamo parlando di un ragazzo ventunenne, che frequenta l’Università, dunque una città, dei coetanei, dei pensieri e delle idee, e che continua nella sua strana catatonia persino dinanzi alla brutale scena di violenza contro sua madre.
Ma nella famiglia dell’Anniversario ciò che vige è il rifiuto di evolversi. Il padre ha messo la casa «a ferro e fuoco», ma è lui a dover perdonare, «in una misteriosa distribuzione a pioggia delle colpe», arcano che coinvolge anche il figlio, autoconsegnatosi al padre, ma ancora in grado, con opportune frasette e battute, di «disinnescare» ulteriori disastri.
Reagirà la moglie, allora? No, il giorno successivo alla nefandezza, la donna mostra «una specie di sottile contentezza, o soddisfazione, o quanto meno una pienezza di sé difficile da spiegare». In quel momento – così pensa il Narratore – sua madre non era più invisibile come di solito, sentiva di sovrastare il coniuge, il quale «era costretto a perdonare se voleva uscire dall’isolamento causato dallo scatenarsi della sua violenza. (…) In un cortocircuito insondabile generato nei labirinti della psiche, attraverso la violenza mio padre pretendeva amore. La violenza era il mezzo, quando ogni altro mezzo si era rivelato fallimentare, per procacciarsi qualche manifestazione di affetto, anche se insincera».
Sono esempi perfetti, questi, delle sottigliezze psicologiche cui Bajani ricorre per spiegare le mancate reazioni dei familiari ai soprusi del padrone; i personaggi di questo romanzo muovono la loro coscienza facendo leva su quella altrui. I «cortocircuiti insondabili», i «paradossi», sono le vere strutture di un’architettura costruita con materiali non sempre compatibili. L’impressione di una certa inverosimiglianza viene accentuata dal procedimento scelto dall’autore, perché siamo dinanzi a un libro di muti: i protagonisti non parlano praticamente mai.
Trasferitosi a Torino, la frequentazione del figlio con i genitori passa attraverso visite bi o tri-settimanali e contatti telefonici. Questi hanno effetti sorprendenti: il figlio è preda della dissenteria già nel comporre il numero; seguono dolori all’intestino e svuotamenti che lo tengono seduto sul water per tutta la notte. Non va meglio con le trasferte: quando va a trovare i genitori, il poveretto ha la tachicardia, i soliti crampi all’intestino, incubi notturni, deve «infilare con due mani la chiave nella toppa della casa dei genitori per contrastare il tremito delle mani». Seguono strappi di ciuffi di barba mentre il padre gli parla, gesto che «apre crateri sulla faccia»; l’andazzo masochistico si protrae indisturbato per molti anni.
Si arriva a quando il figlio si reca dai genitori con la sua compagna; è un momento importante, perché il padre capisce che la situazione gli sta sfuggendo di mano, e la futura nuora ha sentore dello sfacelo della famiglia. Dopo il pranzo, la madre, con una strana intuizione, chiede al figlio se tornerà di nuovo a trovarli. Come mai questa domanda, apparentemente incongrua? Perché la madre – ci dice il Narratore – aveva sentito «ciò che dentro suo figlio era già successo senza che lui lo sapesse».
Dopo, ci sono due lettere del figlio, una alla sorella, un’altra ai genitori, per informarli che i loro rapporti si interrompevano lì; l’attivazione di una nuova linea telefonica sancisce la rottura definitiva.
È il climax del romanzo; infatti, nel capitolo finale, il Narratore ci informa che sono trascorsi dieci anni dal giorno dell’abbandono dei genitori, «i dieci anni migliori della mia vita», e che sta scrivendo dello strano anniversario in cui, insieme allo sfascio di una famiglia, celebra una liberazione, la possibilità di essere finalmente se stesso.
Il figlio – ha spiegato Bajani in un’intervista a Radio 2 Social Club - «decide di fare questo gesto scandaloso – ma che è scandaloso solo dentro un certo tabù – di considerare un legame familiare al pari di un altro legame, che, se è tossico, violento, uno viene incoraggiato a spezzarlo».
Giusto. E decisivo, ai fini del romanzo. Però, francamente, si rimane perplessi, perché il sistema era chiaramente tossico, fortemente discriminatorio, dai suoi inizi. Per più di vent’anni dalla raggiunta maturità, il legame del sangue, nel figlio, ha prevalso sulla moralità, sulla razionalità, sul senso di giustizia, sullo spirito critico. Ma a un certo punto arriva «la ponderatezza dell’istinto»: la finzione non è più praticabile. Nel «regno del sangue» irrompe lo «sbrego della realtà», lo «sproposito della ragione», il gesto «scandaloso» che viene messo in atto a quarantuno anni, senza vantaggi, peraltro, per gli altri membri della famiglia.
Il figlio non ritorna sulla sua decisione neppure quando viene a sapere – sette anni dopo la rottura – che i genitori hanno sofferto di problemi di salute; di nuovo, nessun vero confronto con gli altri da parte del mancato figliuol prodigo. Ma tant’è: per far funzionare la narrazione, il taglio col passato non poteva che contemplare una soluzione netta, quasi chirurgica.
Non posso evitare un accenno al Bajani che ormai scrive, appare e parla ovunque, ripetendo sempre le stesse cose, con l’ulteriore rischio di scivolare nell’enfasi e nella retorica: «Perché se non scrivessi ogni frase, pur nella finzione, scegliendo di bandire ogni menzogna, ogni decorazione, non sarei un uomo libero» (corsivo mio). Ma in questo osannatissimo romanzo le “decorazioni” e gli elementi irrealistici ci sono, e penso che Bajani lo sappia molto bene. Per rifarsi a un rimprovero di Alfonso Berardinelli rivolto anni or sono a Tiziano Scarpa, Bajani si è messo a correre per prendere il primo premio, per arrivare dove deve arrivare (infatti, quest’anno tocca a lui e alla Feltrinelli; dopo aver vinto il Premio Strega Giovani, immagino che Bajani vincerà anche il Premio Strega).
La mia conclusione è dolceamara: con scrittori come Bajani possiamo ancora credere che la letteratura sia un genere cui ricorrere per capire meglio chi siamo. Ma quando chi fa cultura accetta di consegnarsi al mercato editoriale con la testa, il corpo, il sentimento, allora hai l’impressione che stiamo svilendo il ruolo che occupiamo nella disciplina cui ci siamo votati.



Armando Santarelli
(n. 7-8, luglio-agosto 2025, anno XV)