La Chiesa Ortodossa Romena dopo la Seconda Guerra. Figure rappresentative nell’Occidente

Ho appena terminato la lettura di La Chiesa Ortodossa Romena dopo la Seconda Guerra Mondiale. Figure dell’Ortodossia romena nell’Occidente, opera di Violeta Popescu, pubblicata nel 2018 da Rediviva Edizioni. Il libro ha suscitato in me diversi sentimenti. Il primo è di ringraziamento per l’autrice; la Popescu ripercorre con perizia un ventennio cruciale nella storia della Chiesa Ortodossa Romena, quello che va dal 1945 al 1964 (ma la sua analisi si estende anche oltre), mettendo in luce alcuni aspetti e personaggi sconosciuti al grande pubblico, realizzando così un importante recupero della memoria collettiva relativa al periodo in esame.
È un arco di tempo in cui la Chiesa Ortodossa Romena ha conosciuto molte vicissitudini, la più nefasta delle quali si è rivelata la persecuzione operata dal regime comunista (che colpì ancor più duramente, come ammette la stessa autrice, la Confessione romano-cattolica e quella greco-cattolica). Nella trattazione non mancano tuttavia le note positive, perché la Popescu illustra come la Chiesa romena abbia consolidato la sua presenza in Occidente e in America, ottenuto l’ammissione nel Concilio Ecumenico delle Chiese (1962) e dato prova, negli ultimi anni, di una vitalità che non si riscontra in altri Paesi situati ad est dell’ex Cortina di Ferro.
Il secondo sentimento che mi ha accompagnato durante l’intera lettura è la tristezza per essermi trovato di nuovo a contatto con le terribili sofferenze inflitte ad esseri umani non solo innocenti, ma la cui missione terrena era diretta alla divulgazione di una fede che si sostanzia nella fratellanza e nella compassione, persone che si distinguevano anche per l’amore per la cultura e per il proprio Paese.
Conoscevo la vita e l’opera di Nicolae Steinhardt, che col Diario della Felicità ha offerto al mondo una testimonianza immortale delle virtù della fede cristiana contrapposta alla brutale violenza dell’ideologia comunista. Ma grazie all’opera della Popescu ho potuto approfondire la conoscenza delle figure carismatiche di Padre Gheorghe Calciu Dumitreasa (1925-2006), uno dei più noti oppositori del regime comunista, che lo ripagò con più di venti anni di detenzione nelle sue prigioni, e del monaco Roman Braga (1922-2015), ultimo testimone vivente del movimento del «Roveto Ardente», e uno dei pochissimi sopravvissuti al tristemente noto «esperimento Piteşti».
Infine, è impossibile soffermarsi sul libro della Popescu e non provare ammirazione per la pacata, ma lucida analisi che percorre l’opera. L’autrice ignora l’eccesso; tramite una prosa chiara e distesa, usa la sua sensibilità per riportare i dati e i fatti che contano, e quando dà voce ai protagonisti sceglie parole che squarciano il buio e il silenzio con la luce radiante della verità.
Ecco quelle di Padre Roman Braga a proposito della detenzione a Piteşti, il carcere di rieducazione dove sono accadute le cose più disumane dell’intera colonia penitenziaria comunista: «A Piteşti ho scoperto la parte abissale dell’essere umano. Ho visto come, in certe condizioni, l’essere umano da santo può diventare un criminale e viceversa. Ho intravisto uno straordinario mistero nell’essere umano. A Piteşti ho avuto la persistente angoscia di essere annullato come persona, che quella scintilla divina che abbiamo in noi si sarebbe spenta».

Che cosa è stato l’esperimento Piteşti? Mi permetto di lasciare per un momento le pagine della Popescu, affidando la risposta al giornalista e critico letterario Virgil Ierunca e al suo Piteşti, laboratoire concentrationnaire (1949-1952): «La Securitate, la Polizia Politica Romena, durante gli interrogatori ricorreva ai metodi di tortura classici: pestaggi, percosse sulle piante dei piedi e sospensione per i piedi, a testa in giù. A Piteşti la crudeltà delle torture ha di gran lunga superato questi metodi. Venne praticata tutta la gamma dei supplizi possibili e impossibili: alcune parti del corpo venivano bruciate con la sigaretta; alcuni prigionieri avevano le natiche necrotizzate e la carne che cadeva come quella dei lebbrosi… La fantasia delirante di Țurcanu (Eugen Țurcanu, ex membro della Guardia di Ferro e poi collaboratore dei comunisti in diversi carceri del regime, n.d.a.) si scatenava in modo particolare contro gli studenti credenti che rifiutavano di rinnegare Dio. Alcuni venivano ‘battezzati’ tutte le mattine nel seguente modo: si immergeva loro la testa in una tinozza piena di urina e di materiali fecale, mentre gli altri detenuti attorno salmodiavano la formula del battesimo. Affinché il suppliziato non asfissiasse, di tanto in tanto gli si tirava fuori la testa e lo si lasciava respirare un attimo prima di reimmergerlo in quella mistura».
Siamo dinanzi a quella che il premio Nobel per la letteratura Alexandr Solženicyn definì «la peggiore barbarie del mondo contemporaneo». Eppure, in un’intervista rilasciata dopo la liberazione, Padre Braga parla in questo modo dei suoi carcerieri: «Li ho già perdonati! Sei insultato, torturato e tu li guardi e pensi che non sappiano quello che fanno. Quando Gesù fu crocifisso disse ‘Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno!’ È lo stesso sentimento che stai vivendo anche tu. Il nostro desiderio è di far tornare quegli uomini alla fede in Dio!».
Solo chi ha coscienza della tragicità della condizione umana e ha trovato una via di salvezza che abbracci se stesso e il prossimo, solo chi porta Cristo nell’anima può arrivare a tali altezze spirituali. Credo che non ci siano parole più belle per esemplificare la vittoria della fede cristiana di quelle pronunciate dal già citato Padre Calciu Dumitreasa, figura di cui Violeta Popescu si occupa diffusamente nel libro: «Perché l’ultima battaglia non è stata a Piteşti. L’ultima battaglia è stata nei nostri cuori, quando siamo usciti da Piteşti. E per la maggioranza, nel cuore di molti, l’ultima battaglia è stata vinta da Dio». Dopo Piteşti, Padre Calciu fu imprigionato ad Aiud, dove diventò un fermo oppositore del regime. Nel successivo internamento a Jilava, scrive la Popescu, «si comporterà come un santo e si dedicherà a curare i suoi compagni, fino al punto di tagliarsi le vene per offrire il proprio sangue al detenuto Costantin Oprişan e salvando la vita di un altro compagno».
È impressionante constatare come i perseguitati dal regime comunista, persino alcuni di quelli che non credevano, siano concordi nell’attribuire alla fede in Cristo la capacità di sopportare le sofferenze più atroci e di trovare parole di salvezza e di pietà per tutti, compresi i loro aguzzini.

Nel capitolo intitolato Martiri della persecuzione comunista in Romania, le pur brevi testimonianze riportate dall’autrice grondano di forza spirituale, di una fede con la quale è possibile superare i limiti umani. 
Nicolae Steinhardt: «Io credo che se esci dalla prigione e, in seguito alle sofferenze patite, ti ritrovi con desideri di vendetta e con sentimenti di acredine, sono stati inutili la prigione e le sofferenze».
Mircea Vulcănescu: «Non ci vendicate!»
Padre Arsenie Papacioc: «Il comunismo ha riempito il cielo di santi».
Valeriu Gafencu, poco prima di morire: «Innanzitutto il mio pensiero e la mia anima rendono omaggio a Dio. Ringrazio di essere arrivato qui. Vado da Lui senza nessuna incertezza. Sono felice di morire per Cristo».
La santità di Vasile Voiculescu nelle parole dello storico Vasile Boroneanț: «Sembrava si nutrisse di Spirito Santo ed era un credente straordinario. Non gli interessava molto il cibo, e lo condivideva con gli altri».
La figura, non meno santa, di Radu Gyr, «il poeta della sofferenza», nelle parole dello scrittore Atanasie Berzescu: «Ad Aiud, Radu Gyr ha portato Gesù in cella. L’ha fatto scendere dalla croce e l’ha portato accanto a noi, sulla stuoia infestata da insetti, per la glorificazione dell’uomo. Conoscevamo tutti quanti a memoria le sue poesie e aspettavamo con ansia la creazione successiva che ci potesse rallegrare e confortare».
Elizabeta Rizea, appesa per i capelli (che le caddero e non ricrebbero più) ad un gancio del soffitto: «Mi hanno picchiato a sangue con un bastone fino a rompermi le costole e a farmi svenire. Mi facevo la croce con la lingua nella bocca pregando Dio di aiutarmi a non dire nulla».
Violeta Popescu chiude il capitolo in modo esemplare e commovente, ricordando che dal 1990 i martiri delle carceri comuniste vengono commemorati nelle messe celebrate dai preti ortodossi. E a noi si scalda il cuore per questa decisione, perché il giudizio che Boroneanț pronunciò per Vasile Voiculescu è estensibile a tutti questi eroi della fede: essi hanno rappresentato l’essenza del sublime umano.

La penetrante e dolorosa peregrinazione attraverso le sofferenze di tanti innocenti è uno dei temi rilevanti dell’opera. Ma l’analisi della Popescu è ad ampio raggio e l’autrice si rivela non meno profonda quando deve misurarsi con la riflessione teologica e mettere in gioco la qualità del suo pensiero. Parlando di Andrei Scrima (1925-2000), uno dei più autorevoli teologi e ambasciatori dell’Ortodossia della seconda metà del Novecento, la Popescu cita un brano folgorante del Diario Svizzero: «Il comunismo è, ahimè, l’occidentalismo portato alle estreme conseguenze e l’Occidente è condannato a occidentalizzarsi ancora di più (…) Nell’Est, sotto l’esperienza comunista, noi ci sentiamo asfissiati spiritualmente non solo perché privi di libertà esteriore, civica o sociale, ma anche per mancanza di comunione. Non siamo liberi non perché non possiamo muoverci all’esterno come desidereremmo, ma non siamo liberi perché non possiamo comunicare, ovvero non possiamo donare del nostro e ricevere ciò che è degli altri. Questa è la ragione per cui nell’est i contatti sono un problema di vita e morte spirituale».
Ed ecco il pregnante commento dell’autrice: «Nella valutazione cristiana della storia, Scrima pratica la trasposizione dalla decostruzione alla teodicea; invece di fare una requisitoria delle atrocità alle quali è stata sottoposta la storia nell’ombra rossa della rivoluzione bolscevica, l’autore sospende i pregiudizi della modernità e pratica il salto teologico. Questo principio gli consente di affermare che l’ideologia comunista è essenzialmente destinata al cristianesimo. In altre parole, il comunismo è un’ideologia  che gravita in modo maligno intorno al Vangelo, non per denigrarlo, ma per agire in controtendenza».
Questo giudizio ci porta verso un altro degli scopi dell’opera: esaminare la contiguità fra un’ideologia che pretendeva di dare al mondo un definitivo benessere materiale e sociale e l’impossibilità di realizzare una tale impresa senza le necessarie fondamenta morali e religiose. Il comunismo sa che la società romena ha vissuto da sempre una condizione di appartenenza, di identità spirituale, e sa anche che sarà difficile estirparla dall’animo romeno; e allora si palesa il suo marchingegno ipocrita, quel modo subdolo di opprimere la pratica religiosa mostrando al contempo una certa tolleranza.
In riferimento a ciò, la Popescu scrive: «In questi anni il Partito Comunista desiderava subordinare la Chiesa, ma non distruggendola, anzi cercando di attirare sia il clero sia i fedeli alla sua dottrina, usando tutti i mezzi, dall’atteggiamento cortese fino agli atti di repressione».
Fatalmente però, la condotta del regime si inasprisce, virando verso la persecuzione e la prigionia del clero, la chiusura di centinaia di monasteri e l’espulsione di migliaia di monaci e monache. Nel 1948 una Legge sull’Insegnamento annulla la religione come oggetto di studio. Nel 1950 la Chiesa Ortodossa perde tutte le sue proprietà. Negli anni seguenti il regime comunista passa dall’epurazione della gerarchia ecclesiastica all’imprigionamento e alla massiccia persecuzione del clero. Il decreto antimonastico del 1959 impone la chiusura di circa 200 monasteri e l’espulsione di circa 4.000 fra monaci e monache, cui si aggiungerà l’umiliante indottrinamento alla teoria marxista-leninista.
È in base a questi fatti inconfutabili che l’autrice compie una meritoria rivalutazione dell’operato di Justinian Marina, Patriarca di Romania dal 1948 al 1977, il quale adottò indubbiamente un comportamento collaborativo con il regime. I giudizi sull’operato del Patriarca Marina vedono da decenni due fronti contrapposti: gli studiosi che ne sottolineano l’allineamento al regime comunista e quelli che lo identificano come un difensore dell’Ortodossia, compito svolto mediante una «strategia di sopravvivenza» tesa a proteggere la Chiesa dalla completa distruzione. In pratica, il Patriarca avrebbe giocato il ruolo, sicuramente complesso, di mostrare una certa lealtà verso il regime al fine di ottenere un atteggiamento più morbido verso la Chiesa.
Sulla questione, Violeta Popescu ha una posizione netta, invitando a prestare attenzione al contesto storico e alle finalità della scelta di non entrare in aperto conflitto col governo comunista. «Il problema essenziale», scrive, «era come far sopravvivere la Chiesa e la fede del popolo, anche ricorrendo a vari compromessi. (…) L’unica possibilità rimasta era quella di cercare di salvare e mantenere, anche se con molti limiti, una vita ecclesiastica».
Lo stesso Patriarca Justinian ebbe a dichiarare: «La mia intenzione, durante questo regime, è di tenere i sacerdoti nelle loro chiese, a celebrare la Divina Liturgia, non essere incarcerati, per quanto questa cosa sia possibile». Credo sia difficile dare torto a chi pensa che un’aperta e recisa opposizione al regime avrebbe significato la fine della Chiesa ortodossa romena.

Non solo da brani come quelli citati, ma dall’intera storia della Romania nella seconda metà del Novecento si comprende che il comunismo ha sì commesso crimini orribili contro gli individui, le masse, contro la morale e la cultura in generale, ma soprattutto – e l’autrice ne da una dimostrazione lampante – a danno dello spirito. Il credo comunista non ammetteva alcuna opposizione; ciò che interessava ai regimi dell’est europeo era affermare la vittoria del socialismo, annientando ogni tipo di sistema o idea alternativa.
E tuttavia, ci si può ancora chiedere: perché estirpare la fede atavica di un popolo, una fede che tende alla fratellanza, all’altruismo, al bene del prossimo? La Popescu, e gli studiosi del comunismo, hanno delle risposte precise: i regimi totalitari dell’est si proclamavano atei, e come tali dovevano dimostrare che la religione non aggiungeva nulla al credo politico che avrebbe trasformato una società di sfruttamento dell’uomo sull’uomo in una società giusta, egualitaria, libera da ogni differenza di classe. È lo scientismo, l’ideologia elevata al rango di verità «scientifica» a fondare la dimensione totalitaria del comunismo, che estende così la sua dottrina a tutti gli aspetti della vita individuale e sociale.
È confortante leggere dalle pagine di Violeta Popescu come il regime comunista non sia riuscito nel suo intento distruttivo neppure negli anni in cui le persecuzioni contro le Chiese si erano estremizzate. I comunisti hanno dovuto fronteggiare un nemico più forte di loro, perché presente e ben protetto nell’animo del popolo romeno, e che perciò non poteva essere colpito e annientato. Questo fiero avversario era la fede, l’amore per l’ortodossia, un amore plurisecolare e ontologico all’animo romeno.
«Nonostante le persecuzioni subite dal popolo romeno», osserva la Popescu, «il contesto storico molto sfavorevole e i cambiamenti e i meccanismi concepiti dal regime per far escludere il senso cristiano dalla vita, alla fine, la fede del popolo si è rivelata più forte delle azioni del regime».
Forse, se avessero tenuto in maggior conto la storia della loro terra e la fede insita nell’animo romeno, i comunisti avrebbero saputo ab initio che il loro operato era destinato a fallire. «Il romeno è nato cristiano»; così si dice in Romania. E i maggiori letterati, filosofi, poeti romeni non hanno forse insistito su questa componente del carattere nazionale?
«Nel passato l’Ortodossia ha fatto osmosi con la tradizione e la cultura romena. Cosicché la Chiesa e il romenismo rivendicano la stessa unica identità». Così scrive la Popescu, e verità più chiara su questa simbiosi non può essere pronunciata.

Molto saggiamente, l’opera viene conclusa con la figura di Ion Bria (1929-2002), il teologo che ha avuto un ruolo determinante nel far conoscere l’ortodossia a livello europeo e mondiale e che ha contribuito come pochi altri al Movimento Ecumenico, ricoprendo vari incarichi nel Concilio Ecumenico delle Chiese. Autore di centinaia di studi ed articoli dedicati alla posizione dell’Ortodossia romena nell’Europa attuale, Ion Bria ha sintetizzato l’incolmabile distanza fra il comunismo e la fede ortodossa dei romeni in parole diventate giustamente famose. Dopo aver premesso che la Chiesa non può essere ridotta o cercata tra coloro che «hanno perso il discernimento politico e morale» collaborando col regime comunista, Bria scrive: «Piuttosto, si può dire che il regime comunista in Romania ha fallito nel realizzare l’ateismo organizzato, grazie alla pietà ortodossa, non secolare».
È un’affermazione, commenta appropriatamente la Popescu, che poteva venire solo da un teologo che «ha sempre inteso la missione della Chiesa in stretto collegamento con la vita liturgica della Chiesa» e che «attraverso la parola o l’opera scritta ha cercato sempre di abbinare la dottrina con la pratica missionaria, dimostrando una grande capacità di sintesi».

Ci sono scrittori ai quali non chiediamo speculazioni ardite e concetti elaborati, ma scrupolo e chiarezza, affinché ci conducano al cuore della conoscenza, alla comprensione di una possibile verità, sia pure scomoda, scioccante, dolorosa; Violeta Popescu è uno di questi scrittori.
Ma i suoi meriti vanno ben oltre una già consistente produzione letteraria. Perché grazie all’instancabile lavoro di mediatrice e di vera e propria missionaria culturale, Violeta opera attivamente per calare il suo pensiero nella realtà, dando ragione a Nicolae Steinhardt, che nel Jurnalul Fericiiri scriveva: “Vivi sono solo coloro che concretizzano le idee in fatti, che danno corpo alle parole dette, che pongono sul piano esistenziale i concetti e le fantasie del piano ideativo”.
E’ il miglior modo per rendere contagioso ciò che riguarda tutti noi, per comprendere ciò che siamo stati, alcuni errori che abbiamo commesso e che non vogliamo più ripetere. Non possiamo che ringraziare l'autrice per averci aiutato a fare un ulteriore passo in questa direzione.

 



Armando Santarelli
(gennaio 2019, anno IX)