Le lingue al tempo del totalitarismo: spunti dall’opera di Gabriela Adameşteanu

Le opere di Gabriela Adameșteanu presentano, tra i loro tanti motivi d’interesse, l’invito a riflettere su alcune fasi cruciali della storia contemporanea della Romania e, più in generale, dell’Europa. In questa sede, prenderemo in considerazione tre romanzi dell’autrice, apparsi anche in italiano, che consentono di ripercorrere le vicende che videro la Romania attraversare, nel corso del Novecento, due guerre mondiali e poi decenni di regime totalitario comunista. La nostra attenzione si rivolgerà principalmente agli spunti di riflessione sull’influenza che il totalitarismo ebbe sulle lingue e sul loro uso nella società.

La buona società poliglotta di inizio Novecento

Nel romanzo Una mattinata persa, pubblicato nel 2012 da Atmosphere libri (l’originale in romeno apparve nel 1984 con il titolo Dimineață pierdută), si narrano vicende relative alla buona società bucarestina nel periodo della Prima guerra mondiale, rivissute nel ricordo da personaggi anziani quando ormai nel Paese vige il regime comunista instauratosi all’indomani del secondo conflitto mondiale. Tra le caratteristiche dell’ambiente sociale delle persone agiate e colte all’inizio del Novecento, la Adameșteanu non tralascia di rappresentare la conoscenza e l’uso quotidiano di lingue straniere. I personaggi, infatti, sono uomini e donne di mondo, che hanno studiato e viaggiato e, oltre a sapersi esprimere in modo elegante e appropriato in romeno, padroneggiano anche altre lingue. Essi, infatti, adoperano talvolta parole ed espressioni in inglese e in tedesco, anche quando potrebbero benissimo avvalersi degli equivalenti romeni, ma soprattutto si nota che i loro dialoghi e i loro stessi pensieri presentano un continuo ricorso a termini, espressioni e intere frasi in francese, che è per loro quasi come una seconda madrelingua, a riprova del grande prestigio di cui la Francia, la sua cultura e la sua lingua godevano all’epoca in Romania. Le parti di testo in francese (così come quelle che compaiono, in misura molto minore, in inglese e in tedesco) sono state mantenute (in corsivo) nella versione italiana del romanzo. Si può così vedere come la lingua francese impregnasse la vita quotidiana al punto tale da essere usata, ad esempio, persino per i termini della parentela: « […] quando era ancora vivo Papa, quando tante Margot non mancava mai un Natale, insieme a oncle Alexandru…» (p. 111). Ma in molti casi si hanno anche intere frasi formulate in francese, come in questo esempio, in cui un personaggio risponde alla domanda di un altro: «“Ma chi è insomma?» aveva chiesto Sophie a Jorj Ioaniu […]. “C’est la seule amie de Miza avec qui Radou n’a pas couché…”» (p. 148). Nei due esempi che abbiamo appena considerato si nota, tra l’altro, che gli stessi nomi di battesimo dei personaggi sono francesizzati («Margot», «Sophie», «Jorj», che è la resa in grafia romena della pronuncia del nome francese «Georges»). L’uso corrente del francese si mantiene negli strati alti della società bucarestina fino all’avvento del regime comunista, quando dire anche solo qualche parola nella lingua di Voltaire diventa pericoloso, perché può rivelare l’appartenenza alle vecchie classi ricche, odiate e perseguitate dal nuovo potere. D’altronde, gli anziani che sotto il regime comunista hanno nostalgia dei vecchi tempi, percepiscono anche un marcato involgarimento nella comunicazione verbale e nell’uso della stessa lingua romena. Nel romanzo, ad esempio, Vica, la vecchia signora che con i suoi ricordi tiene un po’ il filo della narrazione nel corso dei decenni, un giorno, a causa degli acciacchi dell’età, si trova a scendere con lentezza e difficoltà da un tram e si sente apostrofare dal conducente in modo davvero incivile: «Perché non te ne stai a casa tua, ah? C’è la morte che ti aspetta a casa e tu te ne vai a zonzo per la città» (p. 45). Per Vica il fatto che il regime totalitario abbia perseguito l’annientamento dei vecchi ceti istruiti e beneducati ha condotto a un imbarbarimento della società nel suo insieme e a una degradazione del comportamento, incluso quello verbale: la gente sembra non sapere più stare al mondo e aver dimenticato come si agisce e ci si esprime correttamente.

Il regime comunista condiziona e distorce la lingua

Nel corso dei lunghi anni del regime comunista la lingua romena subisce anche un influsso più diretto e riconoscibile da parte dell’ideologia dominante, che permea di sé il lessico e la semantica. Si coniano espressioni nuove e si conferiscono nuove accezioni o connotazioni a termini già in uso. Lo si vede bene in un altro romanzo della Adameșteanu, Verrà il giorno, pubblicato nel 2012 dalle edizioni Cavallo di Ferro (l’originale in romeno apparve per la prima volta nel 1974 in un’edizione censurata con il titolo Drumul egal al fiecărei zile). La protagonista del romanzo è Letiția, che trascorre l’infanzia e l’adolescenza in una cittadina di provincia e poi va a studiare all’università a Bucarest. Sia suo padre che suo zio Ion (fratello della madre) sono stati colpiti dal regime per motivi ideologici: il primo è finito in carcere mentre il secondo ha dovuto rinunciare a una brillante carriera intellettuale ed è stato relegato a insegnare in una scuola della cittadina. Nel piccolo centro persino la scelta dei nomi dei due cinema esistenti è stata condizionata dall’ideologia; essi, infatti, si chiamano «Il Lavoratore» e «Tempi Nuovi» (p. 81). Ma l’ideologia permea le parole in tutti quelli che dovrebbero essere i banali e normali scambi verbali della vita quotidiana. Così, ad esempio, in una discussione tra padrone di casa e inquilino, il primo apostrofa il secondo e i suoi congiunti come «nemici del popolo»: «Quando vi ho accolti qui, e poi anche sua sorella e la figlia, non vi è venuto in mente che i nemici del popolo non hanno niente a che vedere con le case della brava gente...» (p. 104). In un altro frangente, la povera e anziana Niculina, che lavora come donna delle pulizie in un istituto, viene a sapere che sarà sostituita da una persona più giovane a seguito di una decisione presa addirittura in una «riunione politica» (p. 117). E l’aggettivo «politico» assume così connotazioni sinistre e inquietanti non solo nei discorsi e nella propaganda del regime, ma anche nei dialoghi tra le persone comuni nella vita di tutti i giorni. Un altro esempio in tal senso, che compare a più riprese nella narrazione, è quello del famigerato «dossier politico» familiare, un documento che attesta i precedenti ideologici negativi a carico di qualche membro di una famiglia, facendone pagare le conseguenze a tutti gli altri componenti della famiglia stessa. È un modo, tra l’altro, di far ricadere i «peccati» ideologici dei padri sui figli, di generazione in generazione, nel corso dei decenni, penalizzando nello studio, nel lavoro e nella vita sociale in genere persone che non hanno commesso nulla, ma sono considerate sospette e inaffidabili solo a causa dei precedenti dei genitori o dei nonni. Lo si vede anche nel caso della protagonista, Letiția, alla quale lo zio Ion fa presenti i problemi che avrà per essere ammessa al liceo (e in seguito all’università) a causa del suo «dossier politico pessimo» (p. 113).
Sotto il regime totalitario la lingua romena, oltre a essere condizionata e distorta a livello lessicale e semantico, viene non di rado usata anche in modo sgrammaticato, sia nello scritto che nel parlato, come emerge in modo lampante e scandaloso nel caso di funzionari molto ignoranti che hanno avuto successo negli studi e poi hanno fatto carriera solo perché sono stati zelanti e fedeli attivisti del partito e dunque sono stati premiati per meriti esclusivamente politici. Un esempio è costituito da un certo Bucur, di cui la protagonista parla nei seguenti termini poco lusinghieri: «Di fronte a Bucur che prendevamo in giro in camera, la sera, nel contare i record di errori grammaticali… Di fronte a Bucur che, malgrado questi record, prendeva sempre dei 9 o dei 10 agli esami perché era un importante dirigente dell’Unione della Gioventù Comunista della nostra facoltà, e i professori lo sapevano» (p. 246). Un caso analogo, in ambito femminile, è quello di una collega di Bucur, la compagna Potorac, a proposito della quale Letiția rileva: «Parlava come Bucur, in modo sgrammaticato, ma, inspiegabilmente, prendeva sempre buoni voti. Faceva parte dell’Unione della Gioventù Comunista e dell’Associazione degli Studenti Comunisti, era stata attivista del partito e sedeva al tavolo presidenziale durante le riunioni (…)» (p. 353). Come vedremo, anche nel romanzo L’incontro la Adameșteanu ritorna su questo aspetto dell’ignoranza (anche al limite dell’analfabetismo) di funzionari e dirigenti del regime, fornendo esempi concreti di testi in cui la lingua viene palesemente maltrattata, ossia violata nelle sue regole e strutture. Tra le vittime dei regimi totalitari, infatti, vi sono certamente anche la cultura e la lingua dei Paesi dove essi si instaurano.

La situazione negli ultimi anni del comunismo

Il romanzo L’incontro, pubblicato da Nottetempo nel 2010 (l’originale in romeno apparve nel 2008 con il titolo Întâlnirea), ha come protagonista il professor Traian Manu, il quale scappò dalla Romania all’età di diciotto anni nel 1941, quando era al potere il regime filo-nazista del generale Antonescu, e, dopo aver girato un po’ per l’Europa, si stabilì infine in Italia, dove divenne uno scienziato di chiara fama, sposato con Christa, una donna tedesca. Nel romanzo Traian, ormai anziano, ritorna per la prima volta in Romania nel 1986, quando è ancora al potere Ceaușescu. Formalmente egli è stato invitato a tenere una conferenza nel suo Paese natio, ma in realtà la Securitate vuole indagare su di lui perché lo sospetta di svolgere all’estero un’attività politica ostile al regime.
Traian, prima di partire per Bucarest, rivive in sogno alcune esperienze del periodo in cui era appena fuggito dalla patria. All’epoca egli viaggiò in treno in vari Paesi europei e, dopo tanti anni, ricorda ancora come, essendo privo di biglietto, venisse preso dal panico ogni volta che si presentava un controllore nello scompartimento. Nelle diverse nazioni attraversate, egli si sentì richiedere il titolo di viaggio in varie lingue (inglese, tedesco, francese) che non conosceva e visse ogni volta, di fronte al controllore di turno, un’angoscia che era anche linguistica, perché dovuta alla mancata conoscenza delle parole e delle regole degli idiomi esteri: «Adesso si spalancherà una botola sotto i tuoi piedi e tu, cercando di dare una spiegazione, rosso di vergogna, sudato, confondendo pronunce, declinazioni, coniugazioni, precipiterai tra le ruote del treno, nella madida oscurità» (p. 12). Se per i romeni istruiti e abbienti la conoscenza delle lingue straniere era stata, fino ai primi decenni del Novecento, un vanto e un’esibizione di elevato status sociale, per l’esule del 1941 il disagio linguistico è un motivo di profonda paura e una drammatica questione di sopravvivenza.
Nel 1986, il professor Manu, divenuto ormai un celebre uomo di scienza, non ha certo più il problema della conoscenza delle lingue straniere. Piuttosto, alla vigilia del ritorno in patria, egli teme l’impatto con i suoi connazionali e con la stessa lingua romena, che considera entrambi gravemente degradati: «Il suo paese? Un paese di zoticoni con cui si vergogna di farsi vedere? […] Che lo stomacano persino di più quando aprono bocca e li sente parlare una lingua irriconoscibile, rovinata, distorta, volgare?» (p. 36). Anche se, dopo una vita trascorsa in esilio, egli non può non avvertire il legame inscindibile con la propria madrelingua, sentita essa stessa come la patria alla quale tornare. Si tratta di un sentimento molto intimo, che neanche sua moglie capisce: «Come potrebbe lei, per esempio, capire che, sebbene questa lingua venga ormai sfigurata in modo tanto volgare e grottescamente distorto, lui non può fare a mano di sentirsi attratto, come da un magnete, da qualsiasi luogo in cui la senta parlare! Che lingua è mai questa e perché la comprendo così bene? Perché quando la sento ogni tensione si allenta all’istante? E’ questa lingua, forse, la mia vera patria?» (p. 37).

La lingua romena al tempo del totalitarismo non è stata solo condizionata e distorta dall’ideologia e dalla propaganda, ma è stata anche «sfigurata», come dice Traian, per pura e semplice ignoranza. Nel romanzo, tra gli autori dell’oltraggio, vi sono alcuni agenti della Securitate, le cui penose carenze linguistiche risultano ancora più evidenti a livello scritto. Uno di essi redige un rapporto sul professor Manu zeppo di errori ortografici e grammaticali, di cui il traduttore del romanzo, Roberto Merlo, rende efficacemente l’idea anche nella versione italiana: «In quel’occasione sono venuto a sapere le seguente cose: È andato via dalla Romania nel 1941 con passaporto rumeno per studio. In patria a lasciato la fidanzata che non e voluta venire con lui o che lui non la presa insieme con se» (p. 102). In un’altra occasione un ufficiale, vedendo che un suo sottoposto stenta a leggergli ad alta voce un rapporto scritto, imputa la sua ignoranza ancora al fallimento di un piano di alfabetizzazione avviato nel lontano 1956: «Ma tu hai perso l’alfabetizzazione obbligatoria del ’56, che leggi così da cani? Hai fatto sega ai corsi, eh?» (p. 98). A fare grottescamente da contraltare a tanta ignoranza vi è, però, il fatto che alcuni funzionari della polizia segreta si compiacciono di usare espressioni in inglese! Quando, ad esempio, uno di essi propone di coinvolgere il professor Manu in un programma di un istituto culturale romeno e il suo superiore gli chiede il motivo di tale iniziativa, egli così replica: «Un ritorno d’immagine per il paese, compagno colonnello! Ci offre l’opportunità di un follow-up!» (p. 123). Dai primi tempi del regime comunista, quando dire anche solo una parola in una lingua occidentale esponeva al rischio letale di essere considerati «nemici del popolo», agli ultimi anni dell’era Ceaușescu, quando i membri della Securitate ricorrono con una sorta di snobismo professionale a espressioni in inglese (cioè in quella che nell’ambito del socialismo reale doveva essere la lingua del nemico per eccellenza), il cerchio paradossalmente si chiude. È una riprova di come non solo i cambiamenti e le tragedie della storia, ma anche le sue contraddizioni e le sue ironie si riflettono pure sulle lingue e sui loro usi.


Donato Cerbasi
(n. 1, gennaio 2020, anno X)