«Per quanto combatta al culmine della disperazione, non vorrei né potrei rinunciare all'amore»

Tenacemente pervase da riflessioni filosofiche e afflati lirici – che talvolta si accompagnano ad annotazioni più banali, relative agli aspetti meramente quotidiani della vita privata di Cioran – le 22 lettere composte tra il 1930 e il 1934, selezionate da Giovanni Rotiroti e tradotte da Marisa Salzillo, presentano una singolare parentela «tra la vita e la morte». In altre parole, Cioran pone sia la vita che la morte sullo stesso piano del pensiero, ed è molto difficile precisarne i confini. La passione, l’aggressività e la tenerezza, che caratterizzano queste missive, appartengono a un giovane Cioran che vive la sua seconda adolescenza in una Romania che sembra non potergli offrire molte speranze per l’avvenire. Per questo, la disperazione diviene la reale protagonista delle ossessioni dello scrittore transilvano. Essa delineerà quell’inconfondibile attitudine nichilista, e al contempo lirica, che sta alla base del suo primo libro, vincitore del Premio Reale di Bucarest nel 1934, intitolato Pe culmile disperării (Al culmine della disperazione).
Questo particolare modo di fare filosofia, attraverso l’epistola, consente a Cioran di instaurare una certa complicità con i suoi amici destinatari delle lettere. Esponendo le sue idee, Cioran realizza la sua ambizione di essere riconosciuto, sia all’interno dell’associazione culturale «Criterion» che nella compagine dei firmatari del «Manifesto del giglio bianco». Egli sente di appartenere allo «spirito della comunità» del suo tempo, ed è consapevole di avere tanto da dire e da condividere, malgrado le differenze, con gli esponenti di spicco della Giovane Generazione. In queste lettere, Cioran avrà l’opportunità di manifestare apertamente i propri pensieri e le proprie idee a Bucur Ţincu, Mircea Eliade, Petre Comarnescu, Arşavir Acterian e Nicolae Tatu, e avrà anche modo di identificarsi e di riconoscersi negli ideali più sovversivi che attraverseranno la storia di tutta l’Europa.

A Berlino, con una borsa di studio elargita dalla Fondazione Humboldt, Cioran spedirà ai suoi amici alcune lettere in cui emerge con forza il suo «abbaglio» pseudo-rivoluzionario per il totalitarismo nazista. Affascinato dal fanatismo di questo movimento di massa, Cioran proverà forse per la prima volta la vergogna nazionale di essere romeno. La Berlino hitleriana, confrontata col proprio paese in balia della corruzione politica ed economica dilagante, segnerà in lui un punto di rottura irreversibile. L’ammirazione attestata da Cioran nei confronti della Germania in via di progressiva nazificazione e l’infatuazione subita sulle strade berlinesi e di Monaco, sarà causa di un amaro pentimento che segnerà tutta la sua vita.

Degna di rilievo è anche la relazione esistente tra queste lettere e il libro Pe culmile disperării. «L’insonnia, le passeggiate notturne, la compagnia degli amici dandy un po’ eccentrici, le prostitute, lo smarrimento, l’angoscia, l’amore sacro e l’amore profano, la scrittura e l’ossessione erotica e mortifera del suicidio» (G. Rotiroti) sono lo scenario dei principali argomenti trattati anche nel libro. Grazie alla sua perseverante attività di scrittura, questa spinta autodistruttiva di Cioran si realizzerà unicamente nella carta e nell’inchiostro riversato sulle lettere e gli articoli giornalistici; e ciò ha implicato, da parte di Cioran, un faticoso addomesticamento, un instancabile lavoro, cioè un’educazione della spinta forsennata della pulsione, in cambio del riconoscimento sociale. In merito a questa «rinuncia pulsionale», Freud, nel suo saggio intitolato Il disagio della civiltà,ha parlato appunto di «sublimazione». In tal senso Antonio Di Gennaro, nella Postfazione, può scrivere: «Cioran reagisce al dolore della (propria) vita ricorrendo non alle classiche/inidonee categorie della filosofia, ma alla pratica filosofica della scrittura, intesa come esercizio terapeutico, “mezzo di liberazione”».

Nelle lettere, inoltre, si evidenzia quella crescente passione per la lucidità che si manifesta nell’evento che intercorre tra il delirio e la sua fine, tempo necessario allo sfebbramento della follia. Questa lucidità, che ritroviamo nelle missive di Cioran, costituisce la lacerazione del suo io; quando il delirio svanisce, il soggetto lucido si separa dal mondo, è condannato all’estraneità, ed è minacciato dall’angoscia del vuoto, la cui diretta conseguenza è l’emergere della noia fondamentale. Cioran, più tardi, ne La Chute dans le temps scriverà: «La lucidità, monopolio dell’uomo, rappresenta il punto di arrivo del processo di rottura fra lo spirito e il mondo; è necessariamente coscienza della coscienza, e se noi ci distinguiamo dalle bestie, il merito o la colpa sono esclusivamente suoi».
Di Gennaro afferma inoltre che, negli scritti giovanili di Cioran, è possibile intravedere una sorta di distacco dalla tradizione filosofica occidentale. Il giovane pensatore non è più interessato alle questioni filosofiche di carattere formale, di cui un tempo andava fiero, ora intende affrontare, con consapevolezza, la sofferenza e il dolore che gli impediscono qualsiasi relazione con il mondo esterno. «Ardentemente appassionato della vita, Cioran appassisce e sente la morte nell’animo perché non ricambiato nel suo immenso anelito d’amore». Pertanto è possibile ipotizzare che alla base della disperazione di Cioran vi sia una domanda d’amore che non ha trovato accoglimento al momento giusto. Cioran in merito a questo scrive: «Per quanto combatta al culmine della disperazione, non vorrei né potrei rinunciare all’amore neppure se la disperazione e la tristezza oscurassero la fonte luminosa del mio essere, dislocata in chissà quali angoli remoti della mia esistenza». Le lettere contenute in questo libro costituiscono quindi, non solo una raccolta di testimonianze della vita privata del giovane scrittore, ma anche un florilegio di emozioni fatte di turbamenti, eccitazioni, desideri e derive rivoluzionarie che il ventenne romeno aveva la necessità di esprimere e di condividere con coloro che appartenevano alla sua stessa «comunità spirituale».

Irma Carannante
(n. 6, giugno 2013, anno III)