La «noia moldava» prima di Sartre: il romanzo dell’Io di Max Blecher

È necessario essere grati a Bruno Mazzoni, il quale insieme a Cărtărescu e a Herta Müller, quest’anno ha offerto al pubblico italiano un capolavoro assoluto del periodo tra le due guerre in Romania: Accadimenti nell’irrealtà immediata di Max Blecher, Keller editore. Attraverso la sua traduzione e cura si è in grado di ascoltare la particolare voce dello scrittore romeno di origine ebraica, una voce che – come diceva Saşa Pană – «sembra venire da lontano, dalle profondità più remote, una voce calda e grave, con un’ombra d’accento francese».

Due o tre anni prima de La nausea (1938) di Sartre, Max Blecher nel 1935 raffigurava in modo estremamente suggestivo la condizione negativa dell’uomo nel mondo, la sua impossibilità di stabilire relazioni consuete e familiari coi fenomeni e con gli eventi. L’Io di Blecher come Roquentin di Sartre vive diverse esperienze ma non supera mai una sensazione profonda di estraneità e solitudine rispetto alle cose che lo circondano. Le cose, gli oggetti, gli ambienti appaiono muti ed enigmatici, privi di ragione e significati, e questa fondamentale mancanza di senso coinvolge il soggetto in quello che Blecher chiama l’esperienza della lucidità. In questa lucidità, simile alla nausea di Roquentin, si afferma il modo di essere di chi si sente privo di un terreno consistente sotto i piedi, di chi si avverte immerso in uno spazio e in un tempo privi di qualsiasi orientamento, di chi scopre l’angosciante indifferenza del mondo. Tutto ciò anticipa in maniera incredibile la letteratura esistenziale francese non solo La nausea di Sartre ma anche Lo straniero di Camus.

L’elemento dominante del romanzo è la noia, una noia profonda, la «noia moldava», come la chiama Cioran, «meno raffinata ma molto più corrosiva dello spleen». La noia che traspare dal romanzo di Blecher è un enigma. Ed è un miracolo non morirne. Cioran nella sua opera ha posto la noia moldava quale fondamento soggettivo di conoscenza e di esistenza. Per lui la «noia opera miracoli: trasforma la vacuità in sostanza, è essa stessa vuoto nutritivo». È un «attingere nel Vuoto a piene mani», è una piaga e un «profitto paradossale», un «simulacro di pienezza», uno «spaesamento nel tempo», «una convalescenza incurabile», «un male senza sede, senza supporto, senza nulla salvo questo nulla, non identificabile» che erode nel suo perdurare: un sondaggio del proprio vuoto. La noia non mostra nulla se non il suo effetto nel corpo della parola. Non è riducibile alla parola stessa, poiché in quanto affetto è irrappresentabile, ma quando il soggetto umano si trova a rispondere al suo enigma, la noia produce un sapere in grado di dilatarsi e di trasformare il soggetto stesso e il suo mondo.

La noia, per Max Blecher, non è nulla di meno che sentirsi soggetto, un perdersi e un possedersi, una sorta di sentire ontologico che si situa tra lo psicologico e il fisiologico, in cui il soggetto si soggettiva in un’assoluta desoggettivazione, un sentimento che nel tempo rappresenta un’autoaffezione in cui si è consegnati a una passività inassumibile, un atto paradossale dove la soggettività diventa il luogo di una costante sperimentazione verbale, dove la realtà cui si accede è puramente linguistica e dove si esercita il fondamento soggettivo nella parola. Gli accadimenti nell’irrealtà immediata sono appelli impossibili del reale. Il compito del narratore, in quanto testimone, è quello di riuscire a rispondere a questi appelli. Il romanzo di Blecher risponde del reale in quanto impossibile. Il romanzo di Blecher allude a questo impossibile, attraverso cui il soggetto giunge a cogliere l’esclusività di una verità che nel tempo si ripete. Nel momento in cui il soggetto risponde all’appello, la scrittura di Blecher apre la strada di un ritorno verso quel reale, in cui persiste e insiste tutta la negatività della condizione umana.

Il protagonista del romanzo di Blecher è un certo Io. È un Io vissuto e allo stesso tempo sprofondato nell’assenza, nella malinconia e nella noia, un Io che persegue la traccia estrema dell’esperienza, nella modernità letteraria, in cui il soggetto si costruisce e si decostruisce confrontandosi di continuo con l’orizzonte negativo dell’impossibile.

«Quando guardo per molto tempo un punto fisso sulla parete mi accade a volte di non sapere più né chi sono né dove mi trovo.  Avverto allora alla lontana l’assenza della mia identità, quasi fossi divenuto, per un istante, una persona del tutto estranea. Questo personaggio astratto e la mia persona reale si contendono con forze pari la mia convinzione.
Nell’istante successivo la mia identità ritrova se stessa, come in quelle cartoline stereoscopiche dove le due immagini talvolta per sbaglio si separano e solo quando l'operatore le mette a fuoco, sovrapponendole, danno d’un tratto l'illusione della profondità. La stanza mi appare allora di una vivezza che non aveva mai avuto prima. Ritorna alla sua consistenza anteriore mentre gli oggetti al suo interno si depositano al loro posto, così come in una bottiglia con dell’acqua una zolla di terra sbriciolata si sedimenta in strati con elementi diversi, ben definiti e di vari colori. Gli elementi della stanza si stratificano nei loro stessi contorni e nel colorito dell’antico ricordo che ne conservo.
La sensazione di lontananza e solitudine nei momenti in cui la mia persona quotidiana si è dissolta inconsistentemente, è diversa da qualsiasi altra sensazione. Quando dura più a lungo, essa diviene una paura, un terrore di non potermi ritrovare mai più. In lontananza, persiste dentro di me una sagoma incerta, contornata da una grande luminosità così come appaiono certi oggetti nella nebbia.
La terribile domanda “chi sono davvero” vive allora in me come un corpo totalmente nuovo, cresciuto in me con una pelle e degli organi che mi sono del tutto sconosciuti. La sua soluzione è richiesta da una lucidità più profonda e più essenziale di quella del cervello. Tutto ciò che è capace di agitarsi nel mio corpo, si smuove, si dibatte e si rivolta in maniera più potente e più elementare che nella vita quotidiana. Tutto implora una soluzione».

Alla terribile domanda del soggetto (chi sono davvero), l’Io risponde: ossia risponde colui che inscrive il proprio nome da qualche parte, ai margini del mondo, nell’autonomia ed eteronimia della lingua, di cui fa integralmente parte. L’Io di Blecher non è una trappola narcisistica, una protesi arrogante e insidiosa, che distoglie il soggetto dall’impossibilità di cogliere il reale, ma si configura come l’autentico supporto di una rischiosa esigenza di verità, spesso incline a giochi esasperati che rasentano un certo esibizionismo psicologico mescolando surrealisticamente il sogno e le trasfigurazioni immaginarie del reale stesso. In tal senso l’Io di Blecher è ciò che viene dopo l’evento. È il «fango» dopo l’eruzione della «lava» vulcanica. È ciò che resta dell’esperienza dopo l’ustione del reale. L’Io, da questo punto di vista, è una passione vana, una finzione insidiosa, è l’esperienza nuda di una parola singolare rispetto a cui il soggetto dice la parvenza stessa di un certo Io, un Io che sembra eclissarsi davanti spettacolo desolato mondo. In questo romanzo di Blecher, gli accadimenti ogli eventi nell’irrealtà immediata non appartengono né alla finzione né alla realtà, ma è ciò che soggettivamente si prova - nell’ambito della realtà percepita come pura finzione (all’interno della finzione percepita come sola realtà) – in un’esperienza di verità condotta ai margini impensabili del reale e dell’impossibile.

Max Blecher era uno scrittore che ruotava intorno all’orbita dell’avanguardismo romeno proseguendo così la tracciatura del solco moldavo delle poesie di Tristan Tzara e di Fundoianu-Fondane. Paul Celan ebbe modo a Bucarest di leggere e meditare a lungo questi accadimenti,questi eventi nell’irrealtà immediata durante la composizione dei suoi poemi in prosa in lingua romena. Anche Mircea Eliade qualche anno prima aveva apprezzato molto questo libro e lo aveva considerato come uno dei migliori romanzi della nuova generazione. A quel tempo Eliade teneva a precisare che la letteratura non ha alcun rapporto con i contenuti dell’ideologia, ma solo con la vita spirituale. In alcuni articoli di quegli anni Eliade rimproverava ad alcuni letterati, che avevano fatto professione di fede politica legionaria, che per essere «valenti scrittori» non bastava intingere la penna nell’«inchiostro verde», ma erano necessari il «talento» e il «genio», proprio ciò che aveva dimostrato Blecher con questo suo primo libro.
Ma, cosa alquanto insolita nella sua pubblicistica, è che proprio l’anti-critico Eugen Ionescu, il quale stroncava programmaticamente sui giornali tutte le opere che apparivano a quel tempo in Romania, ad aver fatto all’epoca un ammirevole e sentito elogio al libro di Blecher, recensendolo in «Facla» il 13 maggio 1936. Eugen Ionescu definiva quest’opera di Blecher come un vero e proprio «romanzo metafisico». In questo romanzo, scriveva Ionescu, le cose sono viste secondo un «aspetto diverso», «più nascosto», «più profondo», totalmente «altro». «L’irrealtà immediata è, di fatto, la realtà fantastica delle cose; questa realtà, la quale è anch’essa un’apparenza, è tuttavia più vicina della realtà ultima, essenziale, rispetto alla realtà quotidiana, metafisica, banale che tormenta l’eroe. Il mondo è profondamente noioso, inutile, privo d’interesse, inessenziale. Perciò l’eroe fugge o vuole fuggire al di là, nel profondo, nella realtà fantastica. Questa realtà fantastica può essere solo vissuta nell’infanzia o nelle crisi di “lucidità”, negli stati acuti nervosi, morbosi, che riescono, per la loro acuità, a rompere, strappare il velo quotidiano delle cose o a dissolverlo. Pertanto il fantastico non è altro che il punto ultimo di una lucidità acida».

La lucidità di Blecher non è altro che il predominio del fantasma soggettivo dell’opera, il luogo di origine e il ricettacolo di ogni desiderio. L’irrealtà non è altro che il singolare riflesso che proviene dalla «lente» del fantasia inconscia con cui il soggetto vive e colora surrealisticamente la cosiddetta realtà, senza tener conto di alcuna preoccupazione realistica. Dal punto di vista concettuale ciò implica la crisi di tutte le categorie del fondamento e della necessità delle cose, e il correlativo affermarsi delle figure della contingenza e dell’esistenza, cioè degli accadimenti nella vita irreale.
Non si tratta semplicemente di ridurre un’esperienza psichica a fatti fisici, e ricondurre esclusivamente la «causa» del suo romanzo di Blecher al morbo di Pott, cioè una tubercolosi ossea che ha colpito la colonna vertebrale dello scrittore obbligandolo a trascorrere gran parte della sua vita in un letto con le ruote, immobilizzato da una doccia vertebrale. Non tutti quelli che sono stati affetti dalla malattia di Pott – per fortuna oggi curabile con un’adeguata terapia antitubercolare – hanno scritto un capolavoro come quello dell’autore romeno. Già a quel tempo Sartre opponeva la tesi, in ambito fenomenologico, che la psicologia non deve né ridurre i fenomeni psichici a fatti fisici, né presumere di comprendere il significato dei primi senza un riferimento al soggetto concreto e al suo vario atteggiarsi verso il mondo. Sempre in termini sartriani quella particolare emozione o stato dell’anima, chiamata da Blecher lucidità, non è un disturbo da studiare in termini clinico-medici, ma è «un tipo organizzato di coscienza», anzi «una forma organizzata dell’esistenza umana».
Affiancandosi in questo senso a progetti e programmi espressi dalle avanguardie artistiche e culturali dell’epoca, la lucidità di Blecher fonda la capacità del soggetto di distaccarsi dalla cosiddetta realtà, di oltrepassarla e di concepire visioni e fenomeni diversi. «La lucidità di Blecher – scrive Ionescu – non si limita mai alla psicologia, agli effetti periferici dell’anima», ma li oltrepassa. «L’emozione, il dolore, il piano psicologico sono cose false, come tutto ciò che appartiene alla falsa realtà, al mondo diabolico, malefico, di lava». Ciò che accade nel libro di Blecher sono «fatti», «eventi», a carattere metafisico, il cui tratto essenziale è il rapporto soggettivo e relazionale che un certo Io stabilisce con il mondo.


Giovanni Rotiroti
(n. 5, maggio 2012, anno II)