Memoria del cerchio: lo sguardo della Storia nella poesia di Annamaria Ferramosca

Nel 2014, avevo fatto una breve ricognizione complessiva dell’opera dell’autrice, pubblicando alcuni inediti poi confluiti in Ciclica (la vita felice editore, 2014), sull’Almanacco di poesia Punto,n. 4/2014 (puntoacapo editore). Per farlo avevo preso a piene mani da una monografia sull’autrice (La poesia anima mundi, puntoacapo editore, 2011) a cura del finissimo critico e poeta Gianmario Lucini, scomparso nel 2014, che costituisce ancora oggi, a distanza di oltre dieci anni, un validissimo strumento per comprendere la poetica della poetessa salentina. Da quella mia prima ricognizione, Ferramosca ha pubblicato – oltre alla sopra citata Ciclica – i successivi Andare per salti (Arcipelago Itaca, 2017) e Per segni accesi (Giuliano Ladolfi editore, 2021). Ho adesso l’opportunità di dare uno sguardo complessivo, riprendendo le fila del discorso interrotto nel 2014.
Gianmario Lucini osservava assai acutamente come la poesia di Ferramosca si muova lungo il crinale frammentato della Storia, andando a ripercorre i segni «accesi» nella vicenda dell’uomo. Si tratta di una Storia che non si sviluppa diacronicamente, ma procede per balzi (per salti direbbe la poetessa) e per ritorni ciclici, attraverso una dimensione circolare del corso degli eventi, capace di mettere insieme il primitivo e il moderno, il graffito rupestre e il cemento, come tracce del passaggio dell’uomo: «[…] i visi di noi futuri/ occhi e capelli lucenti/ pelle ibrido-bruna// e le note le note/ non più distinte ma/ divenute paesaggio/ bosco che scivola nella città/ savana fusa nel villaggio// vedere caprioli in corsa/ su autostrade deserte/ e lupe venute a partorire/ negli hangar silenziosi// sentire feroce il sole ridere/ di noi umani confusi reclusi/ a schivare corpuscoli armati/ ad attendere lentissima/ la chiarezza.»
La poesia di Annamaria Ferramosca contiene in sé l’essenzialità del gesto primordiale dell’elevazione della pietra alla ricerca di una stabilità del sacro nella relazione fra ctonio e celeste, fra terra e spirito, fra linguaggio e bellezza. Spesso nella poesia di Ferramosca torna la circolarità della pietra e la presenza del dolmen («una malinconia residua della nascita/ ingorgo che resiste/ allo sperpero del vivere/ furore dei cieli di una volta/ grida bianche dei dolmen che insistono/ nel vedere ogni volta il mattino sorgere/ sulle rovine ogni volta/ qualunque sia l’inclinazione della luce»), e in questa circolarità l’autrice salentina mira all’ancestrale, a un luogo e a un tempo dove il crepitare del fuoco e il sibilo del vento costituiscono il segno e il suono che precedono il linguaggio, a una ripetizione del significante come territorio di incontro e cortocircuito con la sensibilità altrui. Il cerchio – che si ripete nei titoli di libri del 2009 e del 2014 - è una traccia dell’origine, è presente nelle grotte, inciso negli ipogei, il cerchio è coppella, mammella, spirale. È un elemento che riporta al femminile, all’utero, alla grotta, ma che nella poesia di Ferramosca acquisisce un valore sacro, civile.
La Storia nella sua circolarità è per la poetessa costruzione di civiltà e conoscenza. Osserva Donato Di Stasi in merito all’antologia Other Signs Other Circles: «Annamaria Ferramosca ha una voce dal timbro elementare e decisivo, anacronistico e attualissimo, in grado di raccogliere da sé la concretezza del già detto (la tradizione) e la spinta etica verso il non ancora compreso e il non ancora accolto (le contraddizioni taglienti della contemporaneità). […] Annamaria Ferramosca ripropone in termini escatologici la questione del destino umano, confidando in una possibile soluzione che faccia leva sul superamento dell’estraneità in noi e fuori di noi. Attraverso un dettato metonimico e allegorico, suggerisce l’origine della nostra inquieta afasia e nello stesso tempo ci presenta una lingua inaudita, la cui rettitudine ritma l’estrema sincerità dei testi e sublima la delusione storica per l’attualità con una scrittura che, al di là delle emozioni che suscita, si pone come esauriente e coerente sistema di conoscenza.»
Di Stasi coglie almeno due aspetti strategici dell’autrice pugliese dei quali conviene far cenno. Il primo riguarda il tentativo – portato avanti dalla poetessa anche attraverso le iniziative di poesia condivisa – di superare il soggettivismo dominate dell’Io lirico, inteso soprattutto come contrapposizione fra Io e mondo propria del modernismo. Si tratta di una vexata quaestio nell’ambito della quale Ferramosca conduce un’operazione che prende le distanze da posizioni di politica poetica, di matrice avanguardista e sperimentale, sintattica o semantica, per dirigersi verso il crinale del significato, di un Io che si dissolve in un Noi condiviso. È questo un Noi che slarga i suoi orizzonti verticalmente nel tempo, pescando in un primordio che non può nemmeno soggettivarsi in una scrittura e allo stesso tempo si getta nel futuro sconosciuto, e orizzontalmente protendendosi verso altri Noi dei quali superare l’estraneità, verso differenti Paesi e altre civiltà per cercare «urti» che si fanno incontri e mai scontri, come meglio si vedrà più avanti.
Il secondo aspetto annotato da Di Stasi (e dalla critica più attenta) è la novità del dettato (un«timbro elementare e decisivo, anacronistico e attualissimo»), che in Ferramosca si fa flusso, esperienza linguistica, sincretismo. Sempre evitando le trappole e gli inciampi dello sperimentalismo, la poetessa riesce a mettere a sistema linguaggio scientifico e letterario, dialetto e lingue straniere, dettato comune e termini aulici, neologismi e termini di propria invenzione (fra i tantissimi esempi: ferrocemento, nascitamistero, felicetriste, nebbialuce, orizzontedestino, chiareferoci, paesemistero, animelingue, gridoghiaccio, terrarifugio unendo termini noti per creare parole nuove che giocano sull’ossimoro, l’accumulazione, il contrasto, la risonanza). La poesia tende a farsi flusso, eliminando o riducendo al minimo la punteggiatura, rinunciando alle maiuscole e in alcuni casi ai titoli, come nell’ultimo Per segni accesi dove i testi si susseguono quasi senza soluzione di continuità, come stanze di lungo poema. Entrambi gli aspetti annotati dal critico romano hanno a che fare con una concezione della poesia come strumento di coscienza collettiva, circolare e «ciclico», esente dall’esigenza di una comunicazione assertiva e dall’egoistico dominio dell’Io. In tal senso la Storia non può che coincidere con la civiltà, con i suoi progressi e le sue storture, con gli indicibili fallimenti, con la ferocia dei suoi accadimenti più terribili che la poetessa si incarica di cantare attraverso dei testi che possono essere annoverati (anche e non solo) tra la migliore poesia civile contemporanea. Si vedano, ad esempio, i versi dedicati alla tragedia dei migranti annegati nel Mediterraneo: «la grande migrazione si rivela all’alba/ quando il nitore è allo stremo/ e risuonano quelle grida dal mare/ ultimi tentativi di una lingua/ animale universale a intimare// ora o mai più// […]// e questo mare di mezzo che più non media/ - profetico mare omerico color vino - / non vendica l’indifferenza/ inabissando con le nostre ali di cera/ noi/ ostinati colpevoli più che improvvidi.»
In questa prospettiva civile, Ferramosca ha la capacità di ampliare lo sguardo, andando oltre le vicende della contemporaneità e del recente passato per mirare a un concetto di prossimità (una sua silloge si intitola Canti della prossimità) tra popoli ed epoche, tra continenti, paesi e migrazioni, per trovare uno sguardo sulla Storia che sappia farsi complessivo e per questo non giudicante, per cercare un tempo e un luogo «dove nessuno può insabbiare/ l’impronta chiara degli onesti/ la follia saggia dei sognatori/ dove bambini scalzi/ ancora pescano l’azzurro/ con ami di pane». Il compito altissimo della poesia è di segnare la strada a questa fratellanza, che non è un imperativo morale, una scelta politica o il frutto di una retorica da volontariato internazionale, piuttosto la conseguenza nel lunghissimo periodo di un humanitas che sappia impregnare le epoche e le civiltà verso nuovi approdi e nuove fecondazioni: «è l’alba sulle onde arrivano/ dal mare di mezzo/ non barche ma cesti di gelsomini d’africa/ culle intrecciate con erbe di savana/ lasciate andare alla deriva/ - verrà salvezza dalle acque - / a navigare verso un luccichio di nevi// a nord l’approdo dove/ una lupa bianca forse sarà pronta/ ad allattare nati non suoi/ nord che saprà ancora riconoscere/ il respiro caldo delle origini/ memoria del cerchio a piedi nudi/ era prossimità danza battente/ all’unisono con il ritmo del cuore.»
Per la poetessa salentina, l’incrociarsi dei popoli è – sempre e nonostante tutto – un incontro e mai uno sterile scontro, per dirla con le sue parole un «urto gentile». In questo quasi-ossimoro vi è il senso della (ri)fondazione ciclica e continua dell’umanità, della collisione-fecondazione, attraverso «l’incontro gentile delle genti, la saggezza dell’uomo giusto che s’aggiusta all’equilibrio del pianeta; un vivere percorrendo insieme il territorio delle infinite domande irrisposte, sapendo della ciclica spirale che tutti e tutto avvolge», nella convinzione che «gli inevitabili urti del vivere e del con-vivere possono divenire urti gentili, se accadono nella luce di una comune possibile empatia. Nella certezza che l’urto del tempo risparmierà la parola, salverà ogni intento, ogni desiderio.» (dalla nota dell’autrice al volume Ciclica). Del resto, Urti gentili è una delle sezioni più intense di Ciclica, nella quale la parola poetica («l’impasto lento di animelingue») è essa stessa strumento per annodare e riannodare la fiducia e la speranza, per inarcare e costruire ponti tra le genti nel «rompersi dei meridiani», osservando la terra nel suo farsi agglutinando continenti, dispiegando popoli, ascoltando il mistero dei venti che scavano la roccia. Per Ferramosca la poesia è allora il racconto del mistero («nascitamistero») che unisce anime e vicende nel compiersi del tempo: «quando festeggeremo ogni latitudine/ come fosse per noi terrarifugio nuda/ con nude parole in cerchio/ mani scorticate nella stretta dello scavo/ forse soltanto allora potremo raccontare/ di atlantidi affiorate/ di infiniti modi per sprofondare/ uno per riemergere.»
Quando la Storia si fa poesia questa diventa una «narrazione continua» dei cicli e dei ritorni, un cantare il mondo e l’umano che lo abita. Maria Grazia Calandrone annota acutamente nella prefazione a Per segni accesi come il mondo in questi versi non sia mai «un’entità astratta» bensì «un pianeta fisico e concreto» da affrontare di petto senza infingimenti o tentennamenti: «senza più angoscia guardavo/ i campi coltivati/ che davvero sono blu cobalto/ il blu brillante del/ dopodiluvio». Narrare la concretezza del mondo significa allora riuscire a discernere e a donare i segni accesi della Storia, le lampade che guidano nell’oscurità («fare tabula rasa dei pensieri/ affidarsi al buio/ con la sicurezza dei ciechi») e che sanno dare luce e discernimento. La critica più attenta ha riconosciuto un ruolo centrale all’ultima raccolta della poetessa salentina, e in effetti Per segni accesi sembra raccogliere e portare a compimento i temi e gli accenti che hanno improntato e attraversato il complesso della sua scrittura. La Storia viene questa volta attraversata con il ventaglio dell’esperienze e delle emozioni umane, a tratti assumendo un tono elegiaco, a volte con una pensosa malinconia. L’inquietudine del mondo si abbaglia di luce nuova, ancora una volta la vicenda dell’umano viene vissuta nel ciclico ripresentarsi dei richiami e delle architetture, nell’insistere dei gesti (elevare la pietra, costruire, scrivere, dare voce, sperare) che costituiscono i sostegni di archi lunghissimi proiettati al futuro di una vita da riscrivere: «scorrono tutte le costruzioni le distruzioni/ dolmen vie consolari grattacieli incendi/ e parlano i ghiacciai fantasma e la maternità/ interrotta delle foreste gli ultimi giaguari/ e dagli oceani cantano/ senza risposta le balene in amore// azzurro e vivo appare/ dallo spazio il pianeta/ odiamato pianeta/ che pure ama ostinato/ e presagisce futuri benevoli abitanti/ […]». È questa una poesia dai tratti cosmici, che lancia segnali e ci rimanda abbagli di speranza. Sono i segni accesi della musica («so che una scia di note come fiaccole/ ci verrà incontro nel buio dell’altrove»), della poesia («libero volo compassione occhio/ testimone del vento del tempo»), della natura («un cielo come lo vedono erbe ed alberi/ cielo verde-verdad che dice/ del nostro uguale alfabeto di sole e d’acqua/ del risorgere ciclico e gioioso») e dell’eros («sentire sui palmi vibrare la linea della vita/ e ricambiarti/ facendo splendere i segni/ l’enigma abbagliante che sei») che Ferramosca sa accendere nel buio per regalare una poesia fattasi improvvisamente luce folgorante e necessaria.



Luca Benassi
(n. 5, maggio 2023, anno XIII)