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 |  | Antonio Rizzo: «Mi ricordo di un giorno di scuola. Quaderno 5. Storia della lingua italiana»
 
  Prima parte: «Ab initio» A  questa domanda Antonio Rizzo risponde con «C’era una volta»... come nelle fiabe,  perché quello che fa lui è raccontare, dire la storia non di un principe e di una  principessa, ma di una regina nata e cresciuta nella penisola dei cinque mari, dove  anche lui è nato e cresciuto e che ama con un sentimento manifestato in tutte le  forme culturali e artistiche, perché la dipinge e la canta in una poesia vera e  seria, in una prosa poetica dei suoi ricordi non solo da allievo e da adolescente  studioso, da studente, ma da persona matura, da vero intellettuale. Egli ha capito  che parlare di letteratura o di arti visive non si fa che legando tutti i filoni  artistici, per creare un ambiente propizio che si chiama cultura e che può essere  presentato in via orale o scritta solo con l’aiuto della lingua. E lui lo fa adesso, parlando di questa lingua ricca di  dialetti e di parlate, di forme linguistiche speciali, idioletti e varietà a fondo  principale antico sul quale si sono sovrapposte nel tempo le forme neologiche o  dei vari registri, una lingua – la più bella lingua delle arti: architettura,  scultura, pittura, musica e letteratura – sorta dal latino, da cui sono  derivate le altre ‘sorelle’ romanze.
 
 Dopo  averci regalato quattro volumi, pubblicati dall’Associazione degli Italiani di  Romania (RO.AS.IT) e costruiti usando lo stesso metodo, didattico ma anche storico,  filologico e pure filosofico, che spiega in ogni capitolo dei singoli libri il perché  della corretta lettura delle opere letterarie studiate in scuola (nel primo), delle  novità stilistiche e contenutistiche del capolavoro di Dante nel suo viaggio nell’Inferno  (nel secondo), del come decifrare le metafore nella poesia crepuscolare ed ermetica  del Novecento, di Quasimodo e Ungaretti (nel terzo) e infine del come comprendere  la storia del romanzo più amato dagli italiani, I Promessi Sposi di Manzoni (nel quarto), l’autore chiude un cerchio  cognitivo trattando l’argomento fondamentale della scienza dello scrivere che è  la storia della lingua. Tale disciplina (perché nelle facoltà di lingue romanze  che includono lo studio dell’italiano, questa è una materia curriculare)  analizza la lingua, o le lingue in cui gli autori da tutti i tempi hanno  scritto le loro opere artistiche e scientifiche.
 Una  decisione difficilmente da prendere e soprattutto da mettere in pratica.
 Il  prof. Rizzo mette dopo l’indice la Bibliografia, naturalmente in lingua  italiana, perché questo libro, come anche i primi quattro, è bilingue – un merito  in più perché gli studiosi e di chi ha interesse a conoscere come si è formato  e sviluppato l’italiano, potessero leggerlo in entrambe le lingue – e così  vediamo che gli autori citati sono i più pregiati linguisti e glottologi,  docenti universitari che hanno studiato in prestigiose università italiane e  straniere: Francesco De Sanctis, Andrea de Benedetti, Luca Serianni, Pietro  Trifone, Giuseppe Antonelli e soprattutto Bruno Migliorini, autore della  monumentale Storia della lingua italiana.
 
 Nel  libro di Antonio Rizzo, modestamente presentato dall’autore come anche i primi, Mi ricordo di un giorno di scuola (pure  se il contenuto di tutti sorpassa il livello delle conoscenze del curriculum liceale,  essendo piuttosto da includere nella materia delle facoltà di lingue, specialmente  romanze) si parte dall’idea di dare una risposta, o meglio più risposte alle domande  logiche che è possibile formulare: «Chi siamo (noi, italiani), da dove veniamo e  dove andiamo?» Si tratta dunque di una presentazione in grande della lingua  italiana, personalizzata, comprendente tutto l’albero suo genealogico, partendo  da più di duemila anni fa. Il volume, che gode anche di una prefazione esauriente,  firmata dalla docente universitaria Nicoleta Silvia Ioana, e di una altrettanto  ricca Premessa, firmata dall’autore, è formato da cinque capitoli che analizzano  storicamente il fenomeno linguistico italiano da quando il latino ha generato le  lingue romanze.
 Dopo  i primi documenti che attestano la nascita di questa lingua (il graffito di  Commodilla, i Placiti Cassinesi, l’iscrizione della basilica di San Clemente), seguono i versi d’amore di  Ravenna e la prima poesia religiosa di San Francesco, il Cantico delle creature.
 Ma  questo lo sappiamo un po’ tutti, come conosciamo anche l’importanza della scuola  siciliana fondata da Federico II di Svevia, alla quale si formarono i primi poeti  autori di lirica amorosa (basta a ricordare Jacopo da Lentini, l’inventore del sonetto)  che verrà trasmessa ai poeti toscani, come anche i poeti di letteratura religiosa.  Nel libro di Antonio Rizzo le novità sono rappresentate dai documenti amministrativi  e di vario genere scritti al tempo di questo straordinario re-imperatore che fece  dalla sua corte una delle meraviglie dei primi secoli dopo l’anno mille (lo Stupor  Mundi), come il Liber Augustalis (o le Costituzioni di Melfi), il De arte venandi cum avibus (scritti di ornitologia,  allevamento, addestramento e caccia, diverso dai bestiari, libri di mitologia, teologia  e superstizione) e altri.
 
 Si  accenna anche alla fondazione della prima Universitas studiorum, il 5 giugno 1224,  a Napoli, prima di quella di Bologna, di cui era anche più laica, per non parlare  dei documenti che attestano la costruzione dei tantissimi castelli normano-svevi  sparsi che si vedono tuttora nelle belle regioni meridionali, in Sicilia, Calabria,  Puglia e Basilicata. A pagina 163 l’autore ci invita a cercare su Google le  immagini di questi castelli elencati: di Augusta, Bari, Barletta, Bisaccia,  Bisceglie, Branciforti, Brindisi, Monte Sant’Angelo, Castroreale, Gela, Milazzo,  Oria, Patti, e tanti ancora. La pagina seguente è dedicata a due bellissime immagini  di Castel del Monte, ad Andria, provincia di Bari. Dopo molti aforismi citati  seguono le spiegazioni date sulla nascita della scuola poetica siciliana,  formatasi dopo la cacciata dal sud della Francia dei Catari Albigesi,  considerati dal Papa, eretici e dopo le crociate, quando in Europa migrarono i  trovatori provenzali e i Minnesänger, i primi poeti cantanti d’origine a volte  pure aristocratica. Presentati i poeti siciliani con le loro poesie più belle (Meravigliosamente di Jacopo da Lentini e Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo),  si analizzano la lingua di questi e l’importanza avuta nell’evoluzione dell’italiano  poetico. Segue la presentazione della scuola toscana, dopo la morte dello Stupor  Mundi, con altre immagini straordinarie: la mummia di Federico II disegnata da Francesco  Danieli nel 1781, il prezioso sarcofago del re nella Cattedrale di Palermo, la corona  del Sacro Impero Romano (esposta a Vienna) e pure la spada imperiale da cerimonia  di Federico II. Altra bellissima immagine è dal Codex Manesse, seguita da altre tre-quattro pagine comprendenti frammenti  dalle più belle poesie siciliane, con le dovute spiegazioni.
 
 Il  IV Capitolo è destinato a Dante e al suo volgare rivoluzionario. Sono accennate  le imperfezioni stilistiche, lessicali e grammaticali della poesia siciliana, la  cui lingua era piena di prestiti dalla lingua d’oc (il provenzale occitanico), o  dalla lingua dell’oïl (il francese oitanico) e tutta in un’analisi, la prima molto  competente che il grande poeta fiorentino fece nel De vulgari eloquentia. Parlando dei dialetti italiani, delle  parlate Municipali, dei «campanilismi» (le lingue usate dai singoli stati di  un’Italia frantumatissima prima della sua unificazione statale nell’Ottocento  delle rivoluzioni europee), Dante farà la grande domanda a carattere storico: e  dunque quale volgare scegliere?
 La  mappa di pagina 194 aiuta a comprendere meglio la divisione dei volgari del versante  adriatico e del versante tirrenico e poi di quello lungo gli Appennini. Ci sono  pagine dedicate all’analisi delle singole regioni con le loro parlate, fino alla  Toscana, culla di quella lingua che Dante e poi Petrarca e Boccaccio fecero diventare  lingua per eccellenza della poesia nella loro bella e ricca Firenze. Analizzate  le forme lessicali e poetiche delle loro opere, si riconosce il carattere di «lingua  d’arte», ovvero quella in cui Petrarca scrisse il suo Canzoniere, lingua che verrà  riconosciuta come la più autorevole per la lirica del secolo seguente e di  quelli a venire, secondo il giudizio di Pietro Bembo, nelle Prose della volgar lingua del  Cinquecento. A Boccaccio l’autore dedica uno spazio generoso, nell’analisi della  lingua del Decameron, in cui le storie del romanzo sono rese ancor più vive con  l’aiuto di illustrazioni fatte da Gino Boccasile (alle pagine 1221-1222).
 
 Alla  «normazione» dell’Umanesimo l’autore dedica il capitolo VII, che inizia con l’immagine  dell’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci (nelle gallerie dell’Accademia di Venezia)  e con quella del primo libro stampato, la Bibbia di Gutenberg, perché questo secolo  è stato quello delle scuole ed accademie, dei circoli, della stampa (di Aldo Manuzio,  a Venezia), delle armi da fuoco e della questione della lingua che ha cercato di  imporre di nuovo il latino, come lingua unica per gli umanisti della prima parte  del Quattrocento: Lorenzo Valla, Marsilio Ficino, Leon Battista Alberti e altri.  Viene accennato il grande contributo portato allo sviluppo dell’umanismo fiorentino  da Lorenzo de’ Medici, famoso poeta, principe e mecenate. «La svolta rinascimentale»  si apre con la splendida pittura Zeus scaglia  le folgori di Giulio Romano, nel Palazzo Te di Mantova, che serve, come altri  affreschi del genere, a risvegliare i sentimenti d’ammirazione dell’antichità pagana,  greco-romana, come epoca di fioritura delle arti alla quale i nuovi artisti si devono  ispirare.
 Il  Cinquecento è il secolo di Bembo, Trissino e Machiavelli, grandi teorici della lingua  chiamata sin da Dante «il volgare», che alla fine del Quattrocento aveva sostituito  il latino. Viene esaminata la lingua delle corti, chiamata da Bembo e da Castiglione  «cortigiana», che accoglierà nella grafia, nella morfologia, nella fonetica e  nel lessico elementi latini. A pagina 1155 si vedono i ritratti di Pietro Bembo  – dipinto da Tiziano – e di Aldo Manuzio. Il successo di Petrarca è dovuto anche  alla pubblicazione del Canzoniere (si veda una miniatura del poeta fatta da Matteo  da Volterra, in copia, a pagina 1156). I contributi di altri autori presenti nel  dibattito della storia della lingua (Castiglione, Trissino, Niccolò Machiavelli  e Ludovico Ariosto) godono anche della presenza dei loro ritratti, eseguiti da Raffaello,  Vincenzo Catena, Santi di Tito e Tiziano. Ludovico Ariosto, considerato nella storia della letteratura italiana ed europea uno degli autori più celebri e influenti del Rinascimento, l'iniziatore della commedia «regolare» con le sue opere Cassaria e Isuppositi,ha creato con l’Orlandofurioso uno dei poemi più importanti della letteratura cavalleresca. È considerato il codificatore della favola romanzesca  e tra i massimi esponenti e cantori di Ferrara legati al rinascimento estense con Matteo Maria Boiardo e Torquato Tasso, fu un seguace dei precetti di Pietro Bembo sulla fondazione di una lingua nazionale italiana.
 
 Fondata nel 1582-83, l’Accademia  della Crusca, che si è occupata dell’uso corretto della lingua, osservandone le  variazioni nel tempo e i modelli dei parlanti, resta sempre una delle più  autorevoli istituzioni di cultura che riunisce gli studiosi e scienziati di  prestigio che vogliono imporre le forme linguistiche giuste, il vero grano,  eliminando dal parlare e dallo scrivere la «crusca». Insieme a questa, le altre  accademie (Fiorentina, degli Affidati, degli Infiammati, degli Intronati, dei  Lincei e del Cimento) hanno elaborato lungo gli anni studi, dizionari ed  enciclopedie che servono tuttora al consolidamento dell’italiano moderno, come lingua  artistica e scientifica. I commenti dell’autore sulla loro attività sono  arricchiti dalle immagini delle sale contenenti tantissimi libri, che insieme  ai giornali e ai dibattiti tra i linguisti hanno aiutato il volgare a  consolidarsi come lingua ufficiale in vari campi.
 Il Seicento è stato il secolo del  barocco e del manierismo nella pittura e nella scultura con Gian Lorenzo  Bernini, Francesco Borromini e Caravaggio, nella musica con Claudio Monteverdi,  Domenico Scarlatti e Antonio Vivaldi; viene presentato con dettagli  contenutistici sulla nuova lingua, ma anche con bellissime immagini come i  ritratti degli artisti e copie delle loro opere. In questo secolo, che è anche  di Galileo Galilei, lo scienziato che insieme a Giordano Bruno ha rivoluzionato  insieme la fisica, la matematica e l’astronomia, il volgare fiorentino è  riconosciuto secondo le regole bembiane come lingua illustre degna di essere da  tutti usata nello scrivere e nel parlare ed è facile capire perché l’Accademia  della Crusca pubblica a Venezia nel 1612 il suo Vocabolario. Per la seconda  volta, dopo l’avvento dell’opera di Dante, il paese frantumato in tanti piccoli  stati, sta per unificarsi linguisticamente. E questa vicenda continuerà. La  seconda edizione di questo vocabolario, che ignorava i contributi lessicali  dalle altre parlate, verrà arricchita da nuovi lemmi dopo l’entrata nel gruppo  di lavoro anche di non letterati, cioè di uomini di scienza, come Galileo  Galilei, il cui contributo fu essenziale nella lingua colta, autore di opere  conosciutissime come il Saggiatore e il Dialogo sopra due massimi sistemi del  mondo. Qui, come anche nel caso di altre opere, le citazioni vengono  tradotte nell’italiano attuale, un altro pregio del libro di Antonio Rizzo.
 
 Tornando alla letteratura,  l’autore evoca anche la figura del poeta Giovan Battista Marino, che con il suo  famoso poema Adone, ispirato alla  mitologia greca, riesce a dimostrare che lo scopo della nuova poesia è di  suscitare meraviglia («È del poeta il fin la meraviglia»), e le sue digressioni  di virtuosismo poetico ricordano, come accenna l’autore, che alla stessa  mitologia s’ispiravano anche i pittori della fine di questo secolo: Tiziano,  Paolo Veronese, Antonio Canova (certamente, con le belle immagini dei loro  capolavori).
 Molto interessante è l’evocazione  del cardinale, politico e diplomatico italiano Giulio Raimondo Mazzarino (col  nome francesizzato di Jules Raymond Mazarin), che fu primo ministro e  consigliere di Luigi XIV, dopo Richelieu. Il suo Breviario dei politici, raccolta di consigli, regole, massime,  aforismi, la cui lettura è considerata dal dott. Rizzo «affascinante e  piacevolissima», viene presentato con citazioni tradotte, come sempre, nella  lingua moderna.
 E prima di passare al secolo  XVIII (il Settecento), nel libro viene presentata anche la famosissima commedia  dell’arte, che nella forma popolare, orale, prima e poi nella sua trasposizione  scritta delle commedie di Goldoni – trasformando il teatro a canovaccio in  teatro a carattere, con personaggi veri e senza maschere – ebbe il merito di  mettere in contatto i dialetti (prima di tutto il veneziano, poi il bolognese,  il bergamasco e anche altri) con il volgare che si era con tanti sacrifici  formato. L’autore osserva che l’umorismo creato da queste commedie  all’italiana, che usano un lessico nel mondo del teatro e del cinema  incomprensibile ancora oggi a uno spettatore romeno (e a qualsiasi spettatore  straniero) arriva a una comicità che non può essere tradotta. Da questa  «mescidazione» come viene chiamata dai linguisti (cioè mescolanza od osmosi  linguistiche) risulta l’importanza della lingua dialettale, così ricca in  modalità espressive. Sono ricordati gli autori dialettali Giulio Cesare Croce,  Adriano Banchieri e Giambattista Basile, con le loro opere, come il famoso Bertoldo e Bertoldino, e beninteso il  filosofo Benedetto Croce, autore del Pentamerone,  definito come «il più antico, il più ricco e il più artistico tra tutti i libri  di fiabe popolari».
 
 Il Capitolo X si apre con le  premesse geopolitiche necessarie, come sottolinea il prof. Rizzo, nel secolo  XVIII, con «tempi nuovi e nuove idee.» A pagina 2201 è presentata la mappa d’Italia  del 1700 con gli stati italiani: i Ducati di Savoia, di Toscana, lo Stato  Pontificio, le Repubbliche marinare di Genova e Venezia e con il Regno delle  Due Sicilie. Si paragona la situazione dell’Italia con quella della Francia  (citando Migliorini) per arrivare alla giusta conclusione che «le divisioni fra  stato e stato ostacolano la circolazione delle persone e delle idee», realtà  storica, socio-politica alla quale si deve il caso particolare della storia  della lingua italiana che con difficoltà si riesce a far diventare un’entità  complessiva dal punto di vista grammaticale e lessicale. Ci sono pagine  dedicate all’illuminismo francese, europeo e naturalmente italiano, in un  secolo in cui composero i grandi poeti Pietro Metastasio, Vittorio Alfieri, Ugo  Foscolo. Il contributo delle loro opere liriche e narrative è stato sostanziale  per l’evoluzione della lingua, come anche quello di Melchiorre Cesarotti, che  con la sua grammatica è stato un «anticipatore della teoria sociolinguistica».  Legata in certa misura al giornalismo, la lingua del Settecento mette in  circolazione neologismi ed europeismi, il cui ruolo è molto importante come  anche quello delle traduzioni (dal francese soprattutto) come sosteneva  Cesarotti. Su due pagine si danno esempi di prestiti e calchi linguistici, si  parla della derivazione.
 Un’altra mappa dell’Italia  dell’Ottocento ci introduce nella storia delle guerre: l’invasione di Napoleone  Bonaparte, le Accademie del Cimento e del Disegno e l’azione militare di  Giuseppe Garibaldi sono gli argomenti trattati in questo capitolo. Le figure di  Camillo Benso conte di Cavour e di Vittorio Emanuele II, diventato il primo Re  di un’Italia unita sono evocate per introdurre il tema della lingua del Primo e  del Secondo Ottocento con numerosi esempi di testi (dei puristi, classicisti,  dei neotomisti), citato di nuovo Bruno Migliorini, per arrivare alla  conclusione che al grande dibattito sulla lingua italiana poteva partecipare un  quinto della popolazione, mentre gli altri quattro non potevano farlo, essendo  analfabeti. I grandi scrittori del secolo: Vincenzo Monti, Ippolito Pindemonte,  Pietro Giordani, Giacomo Leopardi, che oltre a comporre opere straordinarie  (come Leopardi, uno dei più grandi poeti universali), hanno preso posizione in questo  dibattito sulla nuova lingua italiana. Al classicismo di Giordani e anche di  Leopardi che avevano una vera avversione per i dialetti, considerati degli ostacoli  per la lingua comune, i romantici risposero con l’affermazione che i dialetti  erano lingue vive e vere, necessarie e da considerare nella rappresentazione  della cultura nazionale.
 
 Ma più di tutti loro colui che  doveva firmare il secondo certificato di nascita di questa lingua fu lo  scrittore, poeta e drammaturgo Alessandro Manzoni, il quale con tutta la sua  opera ma specialmente con I Promessi  sposi, il romanzo storico romantico, il suo capolavoro, ha aggiunto nuovi  lemmi e nuove espressioni ‘sciacquando’ la lingua nel toscano fiorentino,  diventando dopo le tre corone del Trecento – Dante, Petrarca e Boccaccio – il  quarto padre della lingua italiana. Lo scrittore ha deciso di «abbandonare  l’italiano della prosa tradizionale a favore di un italiano più attuale e  omogeneo, fondato sul parlato vivo e colto della Firenze a lui contemporanea».  Senza una capitale politica, in un paese frantumato in tantissimi stati in cui  le popolazioni parlavano dialetti diversi, Manzoni ebbe il geniale intuito  (come Dante con il volgare, nel suo tempo) di sperimentare la lingua scritta in  un genere letterario (quello del romanzo) che insieme al teatro potesse avere  espressività perché naturale e verosimile. Scritto e riscritto, il suo romanzo,  «il più amato dagli italiani» (come lo chiamò l’autore stesso nel suo quaderno  precedente) ebbe grande successo in Italia e anche all’estero. Il prof. Rizzo  accenna anche allo scandalo prodotto dalla pubblicazione di questo romanzo che  svelava la cruda realtà del suo paese descritto nel Seicento, quando il nord  era sotto il dominio spagnolo, perché l’autore denunciava ingiustizie sia nel  mondo laico sia in quello religioso (fatto per il quale la Chiesa lo proibì  fino al primo decennio del XX secolo). Ma con il suo romanzo Manzoni aveva  posto le basi dell’unificazione linguistica del paese.
 Alla pagina 1256 viene presentata la  mappa del Regno d’Italia nel 1861 (con i territori indipendenti dello Stato  Pontificio e il Regno Lombardo-Veneto. Ci sono brani dedicati alla figura di  Massimo d’Azeglio – politico, scrittore e pittore che ha sostenuto dopo l’unità  del paese l’idea di riformare anche gli italiani, il che significava farli  studiare, dunque usare una lingua nazionale. Però Graziadio Isaia Ascoli, l’autorevole  glottologo italiano fu insieme al famoso poeta Giosuè Carducci contro la tesi  manzoniana del nuovo italiano fondato sul fiorentino, definendo l’idea dell’autore  milanese «una fissazione giacobina, un cieco fanatismo». Il dibattito  linguistico è continuato con le posizioni prese sulla questione delle lingue  dialettali e della poesia satirica, per primo viene citato Giuseppe Giusti, con  la sua raccolta postuma, Versi editi e inediti. Sono menzionati anche altri autori che hanno scritto in dialetto, tra cui Carlo  Porta, Giuseppe Gioacchino Belli, Cesare Pascarella Trilussa (pseudonimo di  Carlo Alberto Salustri, i cui scritti difficilmente tradotti nell’italiano  attuale, sono ancora di difficile comprensione da parte degli stranieri.) Ma  con il loro dialetto, con le loro espressioni e parole da «plebaglia», Porta e  Belli hanno creato una lingua con forti toni anti-aristocratici, lontana dal  classicismo e dal purismo.
 
 Nel secondo Ottocento la voce più  importante è quella di Giovanni Verga, il grande scrittore verista siciliano,  che nelle sue opere – romanzi e novelle – ha messo espressioni colloquiali e  regionalismi siciliani in una lingua elevata, ma non aulica, contribuendo allo  sviluppo linguistico in una società in cui la gente, in gran parte analfabeta,  usava il dialetto, mentre nello scritto l’italiano elevato.
 La mutazione linguistica operata  da Pascoli in poesia è stata fatta dall’uso delle parole della vita quotidiana,  campestre e dalla botanica con le quali il poeta ha creato nelle sue raccolte  liriche Myricae, Castelli di  Castelvecchio un lessico naturale e spontaneo. Un altro grande contributo  allo sviluppo dell’italiano moderno si deve a Gabriele D’Annunzio, poeta,  scrittore e drammaturgo, la cui figura poliedrica (è stato anche soldato  combattente in guerra, politico, esteta decadente) resta molto emblematica ma altrettanto  di gran valore per la forza con la quale ha trattato argomenti importanti in  tutti i generi letterari. Tutte le forme artistiche impiegate, le espressioni,  con neologismi e arcaismi, parole rare, retoriche, di una raffinatezza musicale  che rende ancora più originali le sue opere, hanno assicurato al poeta un posto  speciale nel panorama linguistico italiano. E se con Pascoli e D’Annunzio si  erano fatti grandi passi in avanti nella storia della lingua, il romanzo di  Manzoni, dopo essere stato condannato dalla Chiesa come anticlericale, veniva  imposto come opera di studio obbligatorio nei licei. Come cambia la vita.
 
 Il Capitolo XII – Il Futuro della  lingua, la lingua del futuro parla sul velocissimo sviluppo della nazione  italiana, sia nell’economia che nella cultura. Classificato come «il secolo  breve», questo è anche il secolo «degli Ismi», per citare l’autore, delle  correnti. Verismo, Realismo, Impressionismo, Simbolismo, Crepuscolarismo,  Decadentismo, Estetismo, Ermetismo, Futurismo, movimenti artistici e culturali nati  prima delle guerre mondiali. È presentato Filippo Tommaso Marinetti, autore del  Manifesto dei futuristi (corrente definita come non solo provocazione, ma anche  «una deflagrazione culturale» che glorificavano l’infinita libertà  d’espressione nell’era dell’automatizzazione con conseguenze nell’uso speciale  del lessico, nella poetica, ma anche con la comparsa di molti autori stranieri  che se ne ispirarono (come Pablo Neruda). «Il flusso di coscienza» dannunziano  diventa un genere di prosa nell’opera di Italo Svevo (pseudonimo di Aron Hector  Schmitz), autore di tre famosi romanzi (Una  vita, Senilità e La coscienza di Zeno), che hanno influenzato  anche letterati stranieri come Marcel Proust e James Joyce.  E così si arriva al primo premio Nobel della  letteratura italiana, Luigi Pirandello, scrittore e drammaturgo, la cui vasta  opera ha contribuito molto alla modernizzazione del linguaggio. Nel libro di  Antonio Rizzo, libro che è una storia non solo della lingua, ma anche della  letteratura e della vita socio-politica di questo popolo, la storia si ferma al  Ventennio fascista «dell’uomo forte» Benito Mussolini, con la sua politica  linguistica – l’obbligo di usare l’allocutivo «voi» invece di «Lei» e di  tradurre i prestiti (chauffeur / autista, sandwich / tramezzino) e, quando non  era possibile, di coniare nuove parole. Si è arrivati a tradurre persino i nomi  propri: Louis Armstrong - Luigi Braccioforte, Buenos Aires – Buonaria ecc. Dopo  queste impostazioni del Duce in un capitolo come il Costume (da Il Popolo  d’Italia), finita la guerra e cambiata la storia, cambiò anche il destino  dell’italiano.
 
 Nel sottocapitolo Concludendo... italiano e italiani,  l’immagine di un suolo strutturato serve come metafora geologica per spiegare  che gli strati di una lingua sono come quelli di un terreno. «Nel corso dei  secoli la lingua italiana ha attraversato molte vicende ed è stata sottoposta a  molti dibattiti, confronti, studi, analisi, che l’hanno portata dove si trova  oggi: allo stadio di lingua flessibile, aperta agli stimoli di altre lingue,  però ‘armonica’, dolce».
 E questo per merito delle altre discipline  affiancate alla linguistica: filosofia del linguaggio, pragmatica del  linguaggio, analisi testuale, semiotica, filologia ed etimologia, senza  dimenticare la retorica, «strumento espressivo da maneggiare con cura, per non  scadere nel lezioso e nel ridicolo».
 Con la sua opera postuma, Cours de linguistique générale, del  1916, il linguista svizzero Ferdinand de Saussure, considerato il padre della  linguistica moderna, ha chiarito il problema dei processi che governano «l’atto  linguistico» stabilendo il rapporto che esiste tra il segno, o il significato e  il significante, cioè tra la forma e il contenuto della parola. Introducendo  nozioni di diacronia, lingua (langue) e parola (parole), egli ha aperto la  strada delle nuove scienze della comunicazione, a partire dalla semiologia (la  scienza dei segni).
 L’italiano è diventato oggi una  lingua parlata (e scritta) da tutti gli italiani, convivendo in armonia con i  diversi dialetti. E anche per quelli che la vorrebbero «vassallo all’inglese»,  essa resta la lingua dell’arte, della musica, della letteratura, come da  secoli. (Giuseppe Santonelli).
 Amato da tutti gli italiani, come  scriveva Edmondo De Amicis, l’autore del conosciutissimo libro dell’infanzia, Cuore, esso è oggi studiato nelle scuole  e università nei libri e dizionari scritti da celebri autori come Luca  Serianni, Giacomo Devoto e altri, in un mondo in cui i mass media (giornali, tv,  cinema) sostituiscono parole italiane con parole straniere, soprattutto  inglesi, anche a causa dell’informatizzazione elettronica che ha portato alla  globalizzazione innanzitutto del linguaggio.
 
 Nelle ultime pagine del libro di  Antonio Rizzo (Appendice) ci sono le tavole cronologiche con Mappe, Postille,  Approfondimenti, per sintetizzare la presentazione dell’evoluzione dell’italiano  nel tempo e nello spazio: dalla grammatica, la grande sconosciuta e dai «figli»  del Vocabolario della Crusca (Zingarelli, Devoto-Oli, Tullio De Mauro e altri),  alle aree dove si parla il ladino, ai dialetti italiani e alle lingue romanze.  Sono presentati anche gli scrittori che hanno contribuito alla volgarizzazione  delle forme dialettali come Eduardo De Filippo e i famosissimi attori Antonio  De Curtis (Totò), Massimo Troisi, Lino Banfi e anche Nino Manfredi, Gigi  Proietti (morto da poco tempo) e Roberto Benigni (vincitore dell’Oscar come miglior  attore nel 1999, premio ottenuto prima da Ana Magnani e da Sophia Loren). Ci  sono poi i dati bibliografici sugli autori citati, i più importanti linguisti e  glottologi italiani.
 Eppure, contro la  tendenza attuale di utilizzare l’italiese, il politichese, o burocratese  (varianti linguistiche in rapporto al tempo, alla condizione sociale, al mezzo,  o alla situazione nell’atto di parlare), l’italiano parlato e scritto continua  a evolvere e a imporsi come lingua ricca, ma soprattutto bella, perché, come si  usa dire, l’italiano non si parla, ma si canta! E per questa Storia della lingua italiana che Antonio  Rizzo ci ha così generosamente regalato in un libro scritto e pure «dipinto»,  io, da fedele lettrice, mi congratulo con lui!
 
 
 
   
 
 
 
 
  Otilia Doroteea Borcia(n. 11, novembre 2021, anno XI)
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