Liliana Corobca: «Kinderland», il paese dei bambini buoni

Liliana Corobca è nata il 10 ottobre 1975 a Săseni, nella Repubblica di Moldavia. Si è laureata alla Facoltà di Lettere presso l’Università statale di Moldavia nel 1997, nel 2001 ha conseguito un dottorato in Filologia presso l’Università di Bucarest e ha approfondito i suoi studi in Francia, Germania, Polonia, Romania e Austria.
Ha debuttato come scrittrice nel 2003 con il romanzo Negrissimo; nel 2005 pubblica Un an în Paradis, uscito in italiano nel 2009 con il titolo Un anno all’inferno. Del 2013 è invece Kinderland, romanzo bestseller al Bucarest Bookfest 2013. Vincitore dei premi Radio România Cultural e Cristal al Festival Internazionale di Vilenica, nominato al premio Augustin Frățilă e al premio nazionale di narrativa Ziarul de Iași, è tradotto in tedesco (Ernest Wichner, ed. Zsolnay, Vienna, 2015) con il titolo Der erste Horizont meines Lebens, in sloveno (Aleš Mustar, ed. Modrijan, Lubiana, 2015), in serbo (Ileana Ursu Nenadić e Marija Nenadić Jurca, ed. Arete Belgrado, 2021), in italiano (Elena di Lernia e Sara Salone, Cisla Editore, Trani, 2022) e in inglese (Monica Cure, ed. Seven Stories Press, New York, 2023); nel 2017 è stato messo in scena al Teatro Nazionale di Lubiana.

Kinderland è una storia tragicamente verosimile, comune a tante famiglie moldave infrante, nelle quali i genitori sono costretti a trasferirsi in Europa occidentale per lavoro, lasciando a casa i figli. Cristina Dumitrache ha solo dodici anni, la madre lavora in Italia come babysitter, il padre è minatore in Russia. Cristina va a scuola, è una ragazzina intelligente, ama studiare, anche se spesso durante le lezioni ha fame e sonno. È l’unica, infatti, a occuparsi dei fratelli più piccoli Dan e Marcel, della casa, degli animali, dell’orto. Una situazione certamente drammatica. Ma per Cristina e gli altri bambini nelle medesime condizioni non c’è spazio per il dramma. Quando rivolge un pensiero ai genitori assenti – soprattutto alla madre – il tono della bambina non è mai lamentoso, ma esprime una reale, dolorosa nostalgia. Cristina accetta la situazione come parte di un’identità soltanto temporanea, perché sa che prima o poi smetterà di interpretare questo ruolo; un ruolo in cui imitare i suoi genitori è vitale.
Il titolo del romanzo riprende il nome di un gioco che i bambini amano fare durante la ricreazione, a scuola, e nel tempo libero: imitare gli adulti.
Questo ‘paese dei bambini’, tuttavia, non è un mondo idilliaco dove i piccoli vivono felici sotto lo sguardo amorevole dei genitori. È un universo desolato e desolante, abbandonato da tutti quegli adulti che decidono di trasferirsi all’estero in cerca di bani lungi, soldi grossi. È l’universo dei bambini lasciati a sé stessi, a vivere in quella povertà che gli adulti cercano di contrastare. È il paese degli orfani bianchi, in cui i più grandi devono crescere in fretta, per poter badare ai più piccoli: si diventa fratelli anche senza esserlo.

Il titolo fa riferimento anche a un paese immaginario, sognato da Cristina, in cui le famiglie sono unite e non c’è bisogno di scappare. È un mondo ideale, un villaggio di soli bambini buoni; un villaggio irraggiungibile da quanti possono sciuparlo con la loro meschinità, un villaggio di bambini, privo di nostalgia, di violenza e di ingiustizia sociale.
Il padre di Cristina è emigrato in Russia. Anche se è lontano da casa, Cristina guarda all’uomo con amore e compassione, non lo odia per la sua assenza, ma lo accetta con il rispetto di un adulto che comprende il significato del sacrificio.
Al centro della nostalgia di Cristina per i suoi genitori c’è, però, principalmente sua madre, quale simbolo della famiglia, dell’amore, della protezione e della felicità. La madre le insegna come prendersi cura della casa e come accudire i suoi fratelli; è una mamma che fa bene qualsiasi cosa e che incarna perfettamente l’essenza del nutrimento e dell’accoglienza. Quando torna a casa, dopo essersi lasciata andare per un poco al pianto, rigorosamente di nascosto, la mamma cucina e rassetta, coccola i figli e si occupa della loro educazione e Cristina può tornare ad essere una bambina.
Cristina riesce, nonostante tutto, a vivere momenti di gioia e spensieratezza. Si impegna a scuola, malgrado la fame, il sonno e la stanchezza, e si fa ben volere dagli insegnanti. Gioca con i compagni di classe e, soprattutto, trova un’amica del cuore: Alisa.
Quest’ultima vive con la nonna che ha fama di vrăjitoare, di fattucchiera. Gli incantesimi di Alisa introducono Cristina e il lettore a una dimensione magica in cui riti e usanze popolari si fondono alla religione cristiana in equilibrato sincretismo.
Nella speranza che i suoi genitori tornino presto a casa, Cristina diventa il simbolo di una lunga e dolorosa attesa. Un’attesa che Corobca definisce “malattia bruciante” e “virus insistente”, qualcosa di così debilitante che solo la presenza dei genitori può guarire. L’attesa è simile a un animaletto, pacifico a volte, ma che sa anche diventare cattivo e impetuoso, incapace di sottostare alla ragione e ai pensieri rassicuranti con cui la bambina prova a consolarsi. L’unica cosa da fare è trattenere le lacrime, almeno in presenza di Dan e Marcel, e attendere. Con pazienza e coraggio, attendere.

«Dobbiamo aspettare ancora un poco. Questo poco diventa difficile da tollerare, da sostenere, da patire. Difficile, perché ci attira verso terra e noi diventiamo ingobbiti dalla nostalgia. […]
La mia attesa, come un enorme mazzo di fiori più grande di me, dal profumo delizioso, colorato, raccolto da tutte le nostre colline, che porti alla mamma, ma la mamma non è in casa. […] Un’attesa tenera e rassegnata.
L’attesa di Dan, simile a una palla dispettosa, che ha conosciuto tutti gli angoli, ha schiacciato tutte le verdure dell’orto dei vicini, è stata presa dal cane di qualcuno che ha cercato di infilarci i denti, ma non ci è riuscito. Un’attesa giovane, che non si arrende e non si stanca. Un’attesa arrabbiata e impaziente. […]
L’attesa di Marcel è come il latte che bolle, non sta più nel pentolino e si riversa sul fornello. Come nuvole nere che appaiono all’improvviso, coprono tutto il cielo e subito piove. Come un’invasione di storni nel campo di grano o di locuste, che non lasciano nulla dietro di loro. Un’attesa famelica e categorica, senza diritto di appello. […]
Ho ricevuto una telefonata da Lucian. Sapeva che nessuno me lo aveva detto. La nonna è morta ieri mattina… sto piangendo e non so nemmeno se dal dolore che provo per la perdita della nonna o dalla gioia perché, finalmente, mamma e papà torneranno a casa».





 

Sara Salone
(n. 5, maggio 2023, anno XIII)