Eugenia Bulat e la sua Venezia nel dentro

Il volume di versi Venezia ti fu data. Diario di una latitante dell’Est / Veneția ca un dat. Jurnalul unui evadat din Est (edizione bilingue, traduzione italiana di Gabriella Molcsan, prefazione di Adrian Dinu Rachieru, Ed. Cartier, Chișinău, 2007) della poetessa Eugenia Bulat, vibrante voce romena della Bessarabia, è un libro di poesia autentica e conturbante, tanto nei pezzi che lo compongono quanto nella costruzione dell’insieme. Voglio dire che le singole poesie comunicano un vissuto profondamente personale e profondamente lirico, mentre l’insieme ha delle caratteristiche foniche, grafiche e contenutistiche che lo rendono un piccolo «canzoniere», nel senso tradizionale della parola, cioè gli conferiscono un’unità stilistica e concettuale e, nello stesso tempo, un percorso spirituale chiaramente rintracciabile. L’unità è data (e fa colpo dalla prima all’ultima riga), prima di tutto, dalla musicalità – che oserei chiamare non solo acustica ma anche visiva: perché il ritmo, la misura e l’eufonia, costantemente e sapientemente perseguite a livello del verso e della strofa, cui si aggiunge sporadicamente la rima, si scompongono e sistemano a gradini, trasformando la pagina in una specie di pentagramma. Su di essa le parole o i gruppi di parole stanno come le note musicali o gli accordi, ciascuno con la propria sonorità e risonanza, e tutti insieme come una scorrevole melodia sempre in discesa, come verso il silenzio e la morte. Questa composizione musicale ‘a gradini’ discendenti non è soltanto formale; essa corrisponde anche a un intimo movimento, dell’anima e del pensiero (Scenderò le scale/ di me in me stessa,/ nella mia più nera/ solitudine,/ affrontando Dio/ per strapparmi un’ombra/ di giustizia. oppure Scale/ e scale/ e cieli...// Di persone,/ di sentimenti,/ di parole...), che diventa ancora più palese nelle ultime sette poesie, raggruppabili e raggruppate sotto il titolo-insegna Sprofondare.

Ora, una domanda che sorge spontaneamente a chi comincia la lettura di un volume che ha nel titolo il nome di Venezia, è, credo, se Venezia in questo volume ci sta e come. E forse la prima risposta potrebbe venire proprio dal suaccennato incastro di musica e di visività, che è un tratto profondo, tanto congenito quanto storico, della Serenissima. Ma non è questa la sola risposta a tale domanda; cercando le altre, ci si addentra però nell’anima stessa di questa poesia e nella storia intima della sua autrice. In parole povere e prosastiche la storia è quella di una profuga, una profuga-poetessa, dell’Est, che si era buttata anima e corpo, con fede e con ingenua speranza, nella rinascita del proprio paese, e che è stata delusa e stroncata tanto da abbandonare la patria e la lotta e da trasferirsi in una terra estranea e strana ai suoi occhi, e che in questa terra soffre, si tormenta e si rigenera, ma più di tutto tenta una discesa nel profondo della propria anima e del proprio destino per coglierne un significato e una prospettiva di futuro. E questa terra altra è strana non solo perché tanto diversa dalle montagne e dal verde della sua patria, ma anche perché terra non è, ma è acqua e cielo. Ed ecco la seconda risposta alla domanda riguardante la presenza di Venezia in questi versi: sì, Venezia è troppo speciale e troppo incredibile per non figurarci con la sua stessa consistenza fisica: con il suo grigio sotto le piogge e il bianco dei suoi ponti, con la nebbia del mattino, con i piccioni che sembrano non ricordarsi di avere le ali e tengono dentro di loro, nascosto, il volo (...! Come se dimenticassero/ di avere ali,/ il volo nascosto dentro/ come ... noi...) , con le nere gondole,  con lo sgabuzzino in cima alle scale in Calle dei Botteri, che liberano di orgoglio e insegnano la strada verso se stessi (In Calle dei Boteri,/ le scale salgono ripide/ verso un minuscolo nido sospeso.// È come salire verso se stessi), con il rumoroso  mercato del pesce che offende le nobili colonne di marmo, con il Palazzo da Mosto che congiunge nella stessa nostalgia delle cose belle che tramontano il fantasma dell’antico proprietario e il solitario emigrante dell’Est.

Si capisce già da questi pochi accenni che non ci dobbiamo aspettare una Venezia turistica né una Venezia storica, ma una Venezia ‘condizione spirituale’; più precisamente, la condizione di un vivere simultaneo in o tra due dimensioni, trasparenti l’una all’altra: il concreto e il sogno, la realtà e i fantasmi, la verità e il miraggio. E non si sa se questo sdoppiamento («gli occhi bifocaliche vedono due mondi simultaneamente...» e l’acqua che guarda la donna tanto quanto la donna guarda l’acqua) sia intrinseco a questa città e si riverberi sull’anima dell’autrice, oppure, al contrario, se sia l’intima scissione della sua anima – che si è staccata dal suo io profondo, legato alla propria terra, al proprio passato e ai propri miti – che si rispecchia sulla città e la riconfigura. Questo effetto di sdoppiamento lo troviamo soprattutto nelle prime poesie del volume, in cui la città è una presenza, benché trasfigurata, pur sempre concreta. Però all’inizio mi riferivo anche a un certo percorso personale dell’autrice, rintracciabile nel volume. Infatti, man mano che continuiamo la lettura, Venezia si dilegua, e noi assistiamo sempre di più a una discesa dentro il profondo sé dell’autrice e dentro le sue ragioni di esistere. Così, dopo una innocente telefonata che sconvolge l’apparente sedimentazione intima della poetessa, seguono gradualmente: un grido di disperazione nei riguardi della propria patria, poi l’immagine di una Bessarabia che investe e schiaccia, come un’immensa botte di vino, la città lagunare,  poi una Venezia che diventa la gigantesca placenta della gestazione di un nuovo stare nel mondo, e poi, nei numerosissimi testi che cercano ossessivamente di sorprendere e di rendere il processo di nascita della propria poesia, una Venezia presente nella generazione delle parole (-Pa-ro-le,-pa-ro-le...,/ sussurravano intorno le sete.../ Hai-bi-so-gno-di-tan-te-pa-ro-le!...// Allora capii:/ concepirò dallo Spirito/ e partorirò parole dall’acqua...  oppure ...Questa strana poesia,/ che arriva [...]...! Come una pioggia su questa laguna,/ che ti sorprende/ assetata e nuda/ e ti innoooonda.../ ti cooooolma..../ ti cooooolma... – come l’acqua che a Venezia viene dall’alto e dal basso ugualmente).

È una Venezia non sempre pronunciata eppure diventata liquido amniotico che assicura la gestazione delle parole. In una tonalità che non cessa di essere, con esaltazione e con tormento, lirica, registriamo pur tuttavia una ristrutturazione di sé dell’autrice, come se quel liquido amniotico non fosse dedito alla generazione della sola poesia ma della poetessa stessa. Appare sempre più spesso il sentimento o forse meglio l’aspirazione alla pienezza, al fiorire, la sensazione di contenere tutto il mondo dentro di sé (... Ad un tratto senti:/ il mondo intero è in te,/ sei un vaso/ compiuto/ !stracolmo), di  penetrare compiutamente in se stessa e di costruire un futuro che non abbia a che fare col passato, un futuro che è contemporaneamente una rinascita e una morte nelle acque di cui Venezia è la transustanziazione (Io sola/ verso una culla eterna/ mi tesserò la strada.//[...] In Vesuvi di braci/ nella cenere delle ossa,/ tra le acque troverò oblio?.../ Esiste l’oblio?!...// Venezia ti fu data:/ nelle acque,/ sulle acque,/ sotto le acque...), e, a dispetto dell’ossessiva caduta (nel ciclo Sprofondare...), persino la finale fusione mistica, al  di là delle parole (ultimo involucro dell’anima), con l’Essere (la luce trafiggerà/ spietata/ l’ultima veste che ho,/ la parola.// Mi dissolverò/ nell’immenso mistero,/ dal verde assorbita,/ dal grande abbandono/ vapore io sarò/ e nuda galleggerò, leggera,/ giù per il fiume,/ quasi vapore, un punto all’orizzonte.// Allora soltanto mi ritroverò in te...). Ovviamente, in questo percorso tormentoso e incerto, Venezia non è né causa né mezzo, ma è il grembo acqueo dove nascono le parole – che sono domande e al tempo stesso ragion d’essere della poesia e della stessa autrice.

Ma le parole nascono in romeno, mentre i lettori italiani hanno di fronte una traduzione. Ora tradurre una poesia travolgente e nello stesso tempo raffinata e musicale come questa è una grande sfida. Non intendo addentrarmi in un’analisi traduttologica; voglio solo osservare con piacere che Gabriella Molcsan ci offre una versione italiana che emula felicemente l’originale. Una sola constatazione che riguarda il diverso orientamento che il titolo italiano propone al lettore. In romeno il titolo è Veneţia ca un dat (Jurnalul unui evadat din Est): la seconda metà di questo titolo romeno (Jurnalul unui evadat din Est) significa esattamente «Diario di un evaso dall’Est», cioè l’accento in romeno cade sulla fuga-liberazione, pur difficile e individuale, dal proprio sé di prima; mentre la versione italiana (Diario di una latitante dell’Est) guida la lettura in un senso nuovo, a doppia valenza: prima di tutto mette in risalto la femminilità dell’esperienza esistenziale e poetica che ci si propone, e poi, sposta l’accento dalla fuga-liberazione alla fuga in un rifugio continuamente minacciato (come di qualcuno che si sottrae all’esecuzione di un mandato di cattura). Voglio dire che, a partire dal titolo stesso, il lettore italiano è più esplicitamente orientato verso la soggettività dell’autrice. La prima metà, invece, (Veneţia ca un dat) in italiano starebbe, più o meno, fra «Venezia come un dato di fatto» e «Venezia come cosa che ti si dà», varianti prosastiche e riduttive che a giusta ragione sono state evitate. Ora, ciò che voglio sottolineare è che Venezia ti fu data, titolo sicuramente convenuto fra traduttrice e autrice, mette in luce, mi pare, proprio il percorso a cui accennavo prima, cioè il ruolo latente ma essenziale di Venezia nella rigenerazione della poesia e della stessa poetessa.








Smaranda Bratu Elian
(n. 7-8, luglio-agosto 2021, anno XI)