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La grinta di Daniela Marcheschi
Il recente libro di saggi critici di Daniela Marcheschi, Il sogno di Don Chisciotte. La letteratura come necessità e riscatto (Bibliotheka Edizioni, Roma, 2025) ci avverte fin dall’inizio che propone una versione rivista, corretta e aggiornata di diversi saggi pubblicati tra il 1990 e il 2012. La domanda alla base di questa presentazione è perché l’autrice ha sentito il bisogno di una tale ripresa. Per capire il senso della domanda e poi la risposta che cerchiamo di dare, crediamo sia bene ricordare alcune cose sull’autrice, già conosciuta dai lettori della nostra rivista. Conosciuta perché dal 2022 si rivolge loro, in un modo o in un altro, ritmicamente, dalle pagine della rivista: sia che giustifichi le sue opinioni letterarie, comprese quelle riguardanti la letteratura romena – di cui si dimostra una buona conoscitrice (nell'intervista di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, pubblicata nel n. 4/2022), sia che inauguri nella rivista presentazioni di scrittori italiani di valore come Giuseppe Pontiggia e Dino Terra, che aspettano di entrare anche nel mercato editoriale romeno, scrittori che segnano l’inizio di spazi monografici in fieri (v. n. 2/2023 e 4/2024), sia che prenda posizione nel tempestoso dibattito sul premio Nobel per la letteratura assegnato a Dario Fo (n. 3/2022) o evochi un grande professore, profondamente legato alla cultura romena, come Silvio Guarnieri (n. 5/2022). Tuttavia, la personalità e l’attività di Daniela Marcheschi sono molto più vaste e diversificate, e per comprendere il suo approccio nell’ultimo volume, vale la pena ricordare ancora alcune cose.
Daniela Marcheschi è critica letteraria, ricercatrice di letteratura e antropologia delle arti, poetessa, professoressa e conferenziera in numerose università d’Europa e delle due Americhe, autrice di ben 5 volumi di poesia, 18 volumi di saggi letterari, curatrice di numerose opere di scrittori italiani di questo secolo e del secolo scorso, inoltre è poliglotta (conosce diverse lingue romanze e scandinave) e instancabile comunicatrice delle letterature del mondo. Formata in letteratura alla celebre Scuola Normale di Pisa, e in antropologia culturale in Francia, sotto la guida di grandi specialisti del settore, conosce fin da giovane personalità di primo piano della poesia italiana (come Montale o Sereni), poi una lunga serie di poeti e prosatori italiani, a cui si aggiungono, dopo un periodo fertile trascorso in Svezia, scrittori e artisti svedesi.
L’incontro decisivo, letterariamente parlando, avviene nel 1978 con l’opera di Giuseppe Pontiggia, scrittore che diventerà per lei un vero mentore e amico, a cui dedicherà una serie importante di saggi e curerà nel 2004 (a un anno dalla morte dell’autore) la grande edizione della collana I Meridiani della Mondadori. Pontiggia rafforzerà, da un lato, la sua convinzione nel legame necessario tra letteratura ed etica, dall’altro acutizzerà l’atteggiamento critico nei confronti degli epigoni del simbolismo e del decadentismo, ancora attivi nella letteratura italiana.
Ma oltre a Pontiggia, la serie di scrittori e scrittrici, di critici letterari di primo piano con cui collabora e stringe amicizie è infinita – e questo è dovuto alla sua totale apertura verso tutti, alla generosità con cui inizia nuove amicizie, all’interesse sempre vivo per tutto ciò che si scrive e alla disponibilità illimitata di coinvolgersi in nuovi progetti. Mi permetto questa caratterizzazione perché l’ho constatato da vicino. Tra i suoi numerosi progetti tengo a ricordare almeno uno duraturo, quello di membro del comitato di redazione della rivista internazionale di poesia e filosofia «Kamen’» (diretta dall’instancabile Amedeo Anelli – filosofo, critico d’arte e poeta - v. intervista nel n. 9/2022) che, oltre a promuovere nuovi valori, dedica studi sostanziali al revival di creatori di grande sostanza – siano essi filosofi o letterati – del passato che altrimenti rischiano di rimanere volumi dimenticati in biblioteca. Ho insistito forse troppo con questa presentazione, ma credo che la personalità effervescente dell’autrice spieghi in parte il tono del volume in questione.
Tornando ora al volume, esso comprende sette saggi (Il sogno della letteratura; Tradizioni e geografie; Tradizione e poesia; Che cosa è la critica?; Patologie della critica letteraria; Contro Steiner; Contro Harold Bloom), alcuni pubblicati in una prima forma nel 2012 nel volume Il sogno della letteratura – Luoghi, maestri, tradizioni recensito a suo tempo, con intelligenza e spirito critico, dal compianto italianista, nostro collega, Hanibal Stănciulescu (n. 12/2012). Come si vede, il nuovo titolo fa riferimento al titolo del 2012, e la caratterizzazione globale del libro con cui inizia quella recensione mi sembra che si adatti bene anche al volume attuale, per cui la cito: esso «pare sia il frutto delle riflessioni di una divoratrice smaliziata di libri e di idee che crede ancora nella capacità della critica di opporsi alle caotiche mercificazioni a cui viene sottoposta la cultura di oggi». Infatti, l’impressione più pregnante che ti lascia il volume (ma in generale l’approccio dell’autrice, anche nelle sue conferenze) è l’estrema facilità con cui naviga tra libri e idee al di là dei confini spaziali e temporali, spinta solo dalla tenacia di difendere una certa idea di critica, e indirettamente di letteratura, e dalla determinazione normativa che la caratterizza.
Riassumo alcune delle concezioni chiave del volume recente e le norme che esse generano, poiché Daniela Marcheschi non è solo una critica acuta ma anche una decisa segnalatrice di soluzioni: non ci dice solo cosa è sbagliato (soprattutto nella letteratura italiana – sotto vari aspetti) ma anche cosa si deve fare d’ora in poi.
Parlando della parte costruens del volume, inizierei dicendo che, in generale, per l’autrice l’idea di letteratura è luminosa e ottimista, la letteratura è vista come necessità dello spirito e, in essenza, della specie umana che attraverso essa esprime la sua essenza, attraverso essa conosce sé stessa, attraverso essa evolve e deve evolvere. La letteratura è l’essenza dell’avventura umana, è l’utopia permanente di cui l’umanità ha bisogno per andare avanti – da qui la parabola di Don Chisciotte. È il luogo in cui l’utopia si intreccia fertilmente con la realtà (Don Chisciotte con Sancho Panza). Il dovere della letteratura è, secondo l’autrice, quello di rinnovarsi, trascinando così dietro di sé il rinnovamento del mondo («Miseri coloro che, consolati del loro pessimismo, non pensano che la letteratura possa cambiare il mondo», p. 16). Da qui il rifiuto delle salme imbalsamate, cioè di quelle produzioni letterarie che prolungano ingiustificatamente tendenze e nostalgie desuete (l’obiettivo è spesso il decadentismo con le sue varie ramificazioni). Ma il rinnovamento, necessario, deve partire da una profonda conoscenza e selezione della tradizione, il nuovo deve fiorire dalla sostanza più fertile del vecchio. Cito alcune definizioni particolarmente stimolanti su questo argomento: «La tradizione è uno spazio di significati in conflitto, ciò che ereditiamo oggi dal passato» (p. 19), cioè qualcosa che obbliga ogni momento a una selezione, e la selezione viene da «una salda nozione e percezione del futuro: la tradizione è un insieme di possibilità per l’avvenire, analogamente a quanto accade nella trasmissione genetica, che riproduce e differenzia un patrimonio preesistente» (p. 20). Meravigliosamente detto!
La parte destruens su cui si erge luminosa quella costruens ha molteplici compartimenti: il simbolismo e in generale il decadentismo, già menzionato; lo stato pietoso della poesia italiana contemporanea incapace di rinnovamento, caratterizzata da un linguaggio povero e uniformizzante, da solipsismo o epigonismo; l’ottusità dell’industria editoriale italiana e, in generale, il ritardo della politica culturale dell’Italia (critiche forse condivisibili da un italiano, ma difficili da percepire nella società romena la cui cultura continua a percorrere un’incessante transizione). In tale parte si iscrivono anche i due saggi conclusivi – sui quali non mi soffermo qui – ovvero quello contro Georg Steiner e quello contro Harold Bloom (riguardo a quest’ultimo, cioè alla critica del canone letterario occidentale predicata dal critico americano nel 1994, scatenando polemiche mondiali, rimando alle osservazioni di Hanibal Stănciulescu del 2012). Quanto al versante distruens, aggiungerei che lo slancio polemico dell’autrice è pressoché permanente, per cui quando sostiene un autore, una visione letteraria o critica (ad esempio quella di De Sanctis), avverte costantemente il bisogno di muovere guerra ai suoi avversari, reali o presunti.
Cosa si trova tra questi due estremi? Si trovano innumerevoli esemplificazioni di autori, correnti letterarie o orientamenti critici, vicini o distanti nel tempo e nello spazio (tuttavia per lo più italiani). Ma il nocciolo duro del volume risiede, a mio avviso, nel confronto tra i due lati estremi sumenzionati. E per meglio capirlo bisogna, secondo me, chiarire l’approccio specifico con cui l’autrice enuclea tale nocciolo, approccio in cui riconosciamo la seria formazione filologica e classica dei normaliani. Perché la maggior parte delle nozioni chiave partono da una fine analisi etimologica delle parole che le esprimono oggi, un’analisi che costruisce ponti tra passato e presente, tra tradizione e futuro, ponti necessari alla concezione centrale del volume che riassumerei in due citazioni: «Ogni generazione di autori deve assumere le proprie responsabilità etiche e letterarie, adoperarsi per creare i valori piu adatti ad affrontare le sfide del nuovo e del mondo mutevole in cui vive, tentare di capire in profondita cio che non funziona e perché». (p. 47); e «Oggi tocca anche ai critici, oltre che agli autori, il compito di contribuire alla costruzione di una nuova società o civiltà letteraria» (p. 66). Perché, al di là del tono normativo, spesso troppo sicuro di sé e apodittico, il richiamo alla responsabilità, che caratterizza tutti i saggi, è – credo – ciò che soprattutto vale ricordare del volume e assumere.
Smaranda Bratu Elian
(n. 5, maggio 2025, anno XV)
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