A proposito di Ştefan Agopian, «Almanacco degli accidenti»

Le opere di Ştefan Agopian (1947), di cui Almanacco degli accidenti (1984) è la prima tradotta in italiano, vantano caratteristiche di particolare originalità nel panorama letterario della Romania ceauşista, votato in prevalenza – se pure con interessanti eccezioni – al realismo, quando non ai dogmi del ‘realismo socialista’. La prosa dell’autore è assimilabile piuttosto a una corrente antirealista e antipsicologica, basata sull’invenzione fantastica, sull’uso di ardite architetture temporali, sul ricorso alla parodia, al ludico, alla parabola filosofica, oltre che a una ricca e sapiente intertestualità.
In Almanacco degli accidenti, con piglio paradossale e beffardo, ‘corretto’ a tratti da una malinconica vena poetica, lo scrittore romeno di origine armena si affida soprattutto al piacere del gioco, del burlesco, cui non è però estraneo un assunto critico, rivelandosi in questo seguace e risuscitatore, in versione balcanica, della migliore tradizione del romanzo – o meglio ‘antiromanzo’ – settecentesco [1]. Ecco così che l’intertestualità agisce non solo attraverso il caleidoscopio citazionale che infarcisce i sorprendenti dialoghi dei personaggi con impliciti o espliciti rinvii a importanti testi della tradizione occidentale (dalla Bibbia a Platone, a testi umanisti, ai trattati medici di Ippocrate o Galeno…), ma anche e soprattutto attraverso una sovversività a livello tematico e d’impianto narrativo che ricorda quella del Jacques le Fataliste  diderotiano, suo più chiaro (oltre che dichiarato) [2] ipotesto. Con quel romanzo, infatti, Almanacco condivide la struttura a patchwork e vari altri aspetti, quali il viaggio picaresco, il racconto discontinuo, le digressioni, l’andamento dialogico, il motivo filosofico della fatalità. Ma ritornerò su questo, perché vorrei in primo luogo render conto della componente storica della narrazione di Agopian e del suo risvolto allegorico-filosofico rispetto alla contemporaneità, cioè agli anni ’70-‘80 del Novecento romeno, cui il testo in qualche modo rinvia.

La componente storica della narrazione

Benché i romanzi di Agopian abbiano tutti una dimensione fantastica, la loro azione si svolge sempre in un passato storico preciso: per quel che riguarda Almanacco, le vicende dei sei capitoli di cui è costituito il libro si collocano nei primi anni dell’Ottocento, ossia in epoca fanariota, un periodo travagliato della storia romena che lo scrittore stesso così illustra in una intervista del novembre 2012, rilasciata a chi scrive [3]: «All’inizio del secolo XVIII le tre province romene (Ardeal, Terra Romena e Moldavia) erano principati autonomi sotto la sovranità ottomana. […] Alla fine, i turchi si stancarono delle rivolte dei romeni e la Moldavia e la Terra Romena, rispettivamente nel 1711 e nel 1716,  furono private del diritto di eleggere principi autoctoni. I turchi misero in vendita le signorie delle due province e preferirono come acquirenti i greci stabiliti a Istanbul nel quartiere Fanar, da cui il nome di Fanarioti. Uomini molto colti, che avevano studiato in Occidente, specialmente in Italia, diventarono gli interpreti ufficiali, per non dire gli ambasciatori, dell’Impero Ottomano. […] Benché fossero dei tipi istruiti, non esitarono a derubare i territori romeni, così che le loro signorie, durate oltre cent’anni, fino al 1822, furono vissute dalla popolazione romena come una grande sventura».           
Passando a illustrare i motivi e i risvolti ‘attualizzanti’ dell’ambientazione narrativa prescelta, lo scrittore spiega il parallelismo storico su cui gioca il libro anche come una ‘risorsa’ anticensoria: «C’è stato un periodo simile nella storia moderna della Romania. Il 23 agosto 1944, per ordine del re Mihai, l’esercito romeno, schierato fino ad allora al fianco dei tedeschi, passò dalla parte degli alleati. Così i sovietici poterono occupare il paese senza colpo ferire e imporre il loro sistema comunista di tipo stalinista. Iniziò un periodo terribile per i romeni, con centinaia di migliaia di arresti, condanne a  morte, espropriazione di tutte le fabbriche, le banche e così via. Il paese fu derubato ancor più che sotto il regime fanariota. […] Ho scelto per il mio libro  il periodo fanariota perché non erano permesse critiche al regime comunista».

Personaggi e «accidenti»

Almanacco degli accidenti ha come principali attori due vagabondi, Ioan Marin (detto anche Ioan il Geografo), un tempo maestro alla scuola del monastero bucarestino di Colzia, e il compagno Zadic l’Armeno, picaro dai mille mestieri, incluso quello di cane al servizio di un voivoda [4]. Oltre allo scherzoso riferimento autobiografico nell’epiteto del personaggio, il nome Zadic richiama significativamente il romanzo filosofico di Voltaire Zadig o il destino. Storia orientale, incentrato sul tema della ricerca della felicità e dell’impossibilità di raggiungerla nel sistema politico e religioso della Parigi settecentesca, da Voltaire criticato indirettamente attraverso un’ambientazione esotica, proprio per scampare alla censura. Come vediamo, Agopian è in illustre compagnia… illuminista.
Lo scrittore romeno, nel concepire Ioan e Zadic, doveva avere ben presente la famosa coppia diderotiana di Jacques e il suo maestro, che l’enciclopedista francese così presentava nell’incipit del proprio romanzo: «Come si erano incontrati? Per caso, come accade a tutti. Come si chiamavano? Cosa vi importa? Da dove venivano? Dal luogo più vicino. Dove andavano? Si sa forse dove si va?» I due clochards di Almanacco, infatti, sudici etilisti straccioni, appaiono anch’essi come catapultati per caso in un’esistenza errante, disordinata e inconcludente, da loro vissuta, però (e in questo sta la specifica cifra della narrazione di Agopian), ora con ardore e tracotanza ora con i rallentati ritmi molli e infingardi di un’insistita pigrizia balcanica. Allucinati dall’alcol e dall’inedia, immersi in una crescente atmosfera surreale, i due assumono sempre più chiaramente la condizione di ‘captivi’, cui l’unica fuga possibile s’apre nel fantastico, nell’alterazione percettiva e mentale.
Vari sono gli «accidenti» che capitano in sorte ai Nostri durante il loro andare, stare e giacere, raccontati con una strana miscela di brio e di lentezza, comicità e mestizia, e tali (per la loro palese assenza di finalità ultima) da ricordare certe situazioni del teatro dell’assurdo [5]. Accidenti, cioè casi imprevisti e alla rinfusa: improbabili incontri (con animali parlanti, personaggi mitologici, diavoli e angeli), assurde e tragicomiche azioni (come l’elaborata preparazione di uno spezzatino a base di… topi, o l’assalto guerresco – da milites gloriosi – a una locanda-caravanserraglio, da dove una spia perlustrante il paese invia al suo Signore rapporti scritti su pretesi focolai di sovversione), strampalati racconti di trascorse avventure (fra le tante, la spassosa disputa dei «pandidascali» – oggi diremmo ‘tuttologi’ – riuniti a congresso per valutare la qualità del fagiolo kyamos, già aborrito da Pitagora). Ogni evento è trattato dall’autore con un impasto stilistico e narrativo che mischia in sapiente dosaggio il basso all’alto, lo scatologico al sublime, situazioni e linguaggio rabelaisiano a erudizione, disquisizioni filosofiche e visioni metafisiche. E molto, molto altro ancora, in un percorso costellato di fatti imprevedibili ma anche di ricorrenze, mentre le fasi della giornata, le variazioni meteorologiche, le stagioni agiscono da contrappunto agli accadimenti, di cui alcuni esempi: «La città s’imprimaverì in fretta e aprile divampò come una luce nei cuori della gente, rallegrandola. Un venticello leggero si sparpagliò tra le case, ricoprendole di una luce dorata, infinita. (p. 5); E il mondo era come una slitta silente che scivolava attraverso l’inverno e attraverso la loro stanza puzzolente. (p. 91); Con una luce bianca e farinosa il sole scolò sui muri amalgamandosi al loro bianco accecante di calce fresca, e annunciò un mattino senza fine. (p. 96); Un sole biancastro, immobile, riversò le ore sui presenti, come un meccanismo vetusto e inutile. E tacendo e guardando, i due guardarono. E, mentre guardavano, il giorno scivolò loro accanto pigramente, e si fece di nuovo un altro giorno, allo stesso modo. (pp.102-103)».
Nell’occorrere aneddotico e sconclusionato degli eventi, le conversazioni e i racconti s’intrecciano creando un effetto di suspence mai pienamente soddisfatta, persino con la ‘perdita’ di battute (quasi la voce narrante non riuscisse a tutto afferrare, o forse per sottolineare la costituzionale ‘indifferenza’ tra detto e non-detto), come nei due punti del romanzo in cui il dialogo si smarrisce in modo eclatante in un «disse»: seguìto da una riga vuota [6].

Il motivo filosofico della fatalità

Accennavo nell’introduzione al motivo filosofico della fatalità, che riprende con implicazioni del tutto originali un motivo già diderotiano. «Cosa dicevano ?» – scriveva Diderot dei due protagonisti di Giacomo il Fastalista – «[…] Giacomo diceva che […] tutto quel che ci accade di buono e di cattivo qua giù era scritto lassù». Il fatalismo e il conseguente relativismo morale propugnati da Jacques con il suo ossessivo refrain (…che le cose di quaggiù sono giù scritte lassù e pertanto non ci si può fare niente…) rappresentavano in negativo, implicitamente, nelle intenzioni dell’illuminista, una critica al potere e al conseguente asservimento dell’uomo all’uomo («i deboli» – si legge in un passo – «diventano cani dei prepotenti»). Ora, Ioan e Zadic di Almanacco, oltre a essere – come Jacques e il suo maestro – personaggi dalla biografia incerta, coinvolti in vicende scucite, sono anch’essi partecipi di una visione neoplatonica del mondo come luogo delle apparenze, predeterminato dall’alto e fatale, in cui l’impossibilità di scelta giustifica il mancato esercizio di prudenza, fortezza, temperanza e giustizia (le quattro virtù richiamate nel I capitolo del libro) da parte dell’individuo. Qui sta la componente ideologica rintracciabile nel romanzo.
«Ioan: “Siamo anche noi da qualche parte in un angolo della Mente Angelica, e ci stiamo in silenzio, mentre qui parliamo e beviamo. Ma anche queste parole e questa bevanda sono là, solo che la bevanda non la beve nessuno e le parole non le dice nessuno: stanno semplicemente tra altre parole e altre cose e non ne viene fuori nulla, dal loro stare”. “Stanno tanto per stare”, disse Zadic l’Armeno […] “Là stanno tutti i nostri atti fino alla fine e noi non li conosciamo affatto e non c’è differenza fra loro, come qui, perché all’inizio o alla fine sempre della stessa cosa si tratta”». (p.11)
In questo brano di conversazione affiorano temi nei quali è verosimile leggere allusioni alla condizione esistenziale e politica dell’uomo in un regime totalitario (allegoria, possibilmente, della vita tout court), caratterizzata dall’inazione o dall’azione velleitaria, e soprattutto dall’impotente attesa: il tema della predestinazione, ma anche quello dell’indifferenza tra un’azione e l’altra nell’ordine superiore e assoluto che regola le cose, nonostante l’apparente molteplicità e differenziazione, oltre che imprevedibilità, che queste assumono sulla terra per gli umani (gli «accidenti», appunto).
Ioan e Zadic – comicamente, ma anche, sempre, tragicamente (se visti nella prospettiva allegorica della loro vicenda) –, si mostrano privi delle virtù eroiche che favorirebbero il loro riscatto, in un mondo finzionale che svaluta l’azione e riduce l’uomo, appunto, a morto vivente («morto o come morto»): «“Stiamo come in due fosse”, disse Ioan, “come due eroi tornati a casa da Troia e aspettiamo che vengano a ricoprirci di terra con una pala”. “Stiamo, è questo che facciamo”, disse l’Armeno, “ma anche in questo stare c’è qualcosa. Infatti: chi starebbe così a far niente, se non fosse morto o come morto? Se proprio lo vuoi sapere, penso che stiamo qui per partito preso”, disse ancora, poi iniziò ad agitarsi nel suo lercio giaciglio e la sua agitazione spazientì Ioan. (p. 83)».
Se pur vittime di un ascetismo obbligato, ridotti come il cinico Diogene allo stato di natura (incalzati dalla sete, dalla fame, dagli attacchi del mondo esterno – rane, mosche, molossi, spari, percosse – oltreché controllati da forze ‘misteriose’:  l’enorme orecchio curioso che si apre a un certo punto nel muro!), ormai svigoriti e inerti, fino all’ultimo i due oppongono al mondo e ai colpi del destino («per partito preso») l’estremo strumento di resistenza che ancora resti a chi è spogliato di ogni cosa: il corpo, il loro corpo martoriato di poveri cristi. Nel capitolo conclusivo, dalla prigione-ospizio-lazzaretto in cui giacciono in stato di dormiveglia, sempre più sconclusionatamente interrogandosi e dialogando sulla malattia e sulla morte, Ioan e Zadic accedono infine – paradossalmente – all’ultima libertà, il trapasso, che, nella pietà del narratore, si manifesta come volo angelico: un volo angelico che oscura il mondo.            
Narrazione paradossale, sì, cui potremmo apporre la famosa glossa (ancora Diderot!) secondo la quale «un paradosso non è sempre una falsità».

Nessi con la tradizione letteraria di Romania

Per suggerire al lettore un qualche modello letterario, ho parlato fin qui di antiromanzo settecentesco ‘in vesti orientali’; chi ha qualche dimestichezza con la letteratura romena, tuttavia, riconoscerà in Almanacco anche molteplici nessi con la tradizione letteraria di Romania; Bruno Mazzoni, nella sua bella postfazione all’edizione italiana di Almanacco, ne ricorda opportunamente alcuni: «Il primo riferimento da cogliere è senz’altro al poema eroicomico-satirico Ţiganiada [Zingareide] di Ioan Budai Deleanu, composto a cavallo fra Sette e Ottocento, una magnifica “commedia filologica” in versi da cui Agopian prende a prestito la sensazione di un’atavica letargia, una paralizzante inazione… quale si ritrova nella migliore illustrazione novecentesca dell’omoblovismo romeno: penso inevitabilmente al suggestivo romanzo Craii de Curtea Veche [I Signori della Corte Vecchia] di Mateiu Caragiale, lo scrittore che meglio ha interpretato la crisi del mondo aristocratico fanariota e pertanto voce per eccellenza del ‘balcanismo’ in letteratura [7].
Per il ricorrere del topos letterario della ‘locanda’, importante anche nella tradizione narrativa romena come luogo di incontri, dialoghi, affabulazione, si potrebbe ricordare fra l’altro Hanul Ancuţei [La locanda della piccola Anca, 1928] di Mihai Sadoveanu, con le sue nove storie narrate dagli avventori in una sorta di gara a chi meglio racconti: «Gustînd băutură bună, ascultăm întîmplări care au fost». [8]: întîmplări, casi, accidenti, che l’atmosfera conviviale della locanda  rende, al contempo, più lievi e memorabili, e, in Almanacco, senz’altro godibilissimi.

Nota sulla traduzione

Un’ultima nota sulla traduzione. La speciale qualità della prosa di Agopian – mai banale, sorprendente a ogni verbo, avverbio, aggettivo usati, a ogni immagine, descrizione o scambio di battute – ha costituito un vero banco di prova per chi scrive. Nel tradurre, non ho mai potuto contare sul soddisfacimento di aspettative ovvie, legate alle collocazioni, cioè all’associazione abituale di parole tra loro, o a scripts/sceneggiature di riferimento, ma sempre ho dovuto misurarmi e interagire con l’incessante, effervescente, spiazzante inventività del testo. Nel cercare un’equivalenza stilistica, se a prima vista la lezione del Calvino de I nostri antenati (e non solo), pareva in qualche modo potermi soccorrere, sul fantastico ‘geometrico’ dello scrittore sanremese, sul disegno ordinato e simmetrico delle sue immagini organizzate come un cristallo a partire da una premessa [9], ho dovuto però innestare procedimenti disgreganti, affidandomi piuttosto alla sovversività di un fantastico ‘poetico’, un po’ barocco, teso a instaurare il disordine, a iniettare nella narrazione una sistematica diversione ed evasione, una dissolvenza, ora nel sensuale ora nel metafisico. Per quanto la ricerca di rendere il magistero di Agopian mi ha appassionato e divertito, ho ragione di sperare che la curiosità del lettore italiano non rimarrà delusa da Almanacco degli accidenti.

Paola Polito
(n. 5, maggio 2013, anno III)

NOTE

1. A indicare lo statuto incerto dell’opera in questione, nella riedizione 2008-2009 delle Opere di Agopian (Bucureşti, Polirom), sotto il titolo Manualul întâmplărilor si legge tra parentesi Un altfel de roman [Un romanzo diverso/Un’altra specie di romanzo], sottotitolo che rinvia all’altro, anch’esso tra parentesi, Un fel de roman [Una specie di romanzo] posto a etichetta di Însemnări din Sodoma. Portret al artistului murind [Note da Sodoma. Ritratto dell’artista morente], riedito nello stesso volume.
2. «[…], se stesse a me, mi considererei piuttosto un Diderot del Levante. Il mio libro Almanacco ha molti legami con Jacques le Fataliste dell’enciclopedista francese». Da Paola Polito intervista lo scrittore Ştefan Agopian. 'Il Borges dell’Est' o meglio 'il Diderot del Levante' (novembre 2012), in «Tellusfolio», 3 marzo 2013. URL:
3. Cfr. Paola Polito intervista lo scrittore Ştefan Agopian…,  cit.
4. «Nel libro d’oro di Mavrogheni, Zadic figura nell’elenco dei cani che abbaiavano di gioia all’arrivo del padrone, col titolo di siniscalco». (Almanacco…., cit, p. 18)
5. Del testo l’autore ha curato, significativamente, anche un’interessante ed efficacissima versione teatrale (Polirom 2008).
6. Vale la pena di ricordare, a questo proposito, il seguente passo di Jacques le Fataliste: «Quando il maestro si riprendeva d’animo, Giacomo taceva, si metteva a sognare, e spesso non rompeva il silenzio che con una dichiarazione, legata nella sua mente ma scucita nella conversazione come la lettura di un libro di cui si sia saltata qualche pagina».
7. Bruno Mazzoni, A lettura ultimata (postfazione), in Ştefan Agopian, Almanacco…., cit., pp. 118-119.
8. «Gustando del buon vino, ascoltiamo casi che furono», frase pronunciata da Leonte Zodierul nel cap. Balaurul [Il drago]. Cfr. Mihai Sadoveanu, Hanul Ancuţei, in Id., Opere, vol. 8, Bucureşti, Editura de Stat pentru Literatură şi Artă, 1957, p. 482.
9. «Al centro della narrazione per me non è la spiegazione d’un fatto straordinario, bensì l’ordine che questo fatto straordinario sviluppa in sé e attorno a sé, il disegno, la simmetria, la rete d’immagini che si depositano intorno ad esso come nella formazione d’un cristallo». Da I. Calvino, Definizione di territori: il fantastico, in «Le Monde», 13 agosto 1970; poi in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, pp. 215-216; raccolto poi in: Saggi, 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, tomo I, pp. 266-268; la citazione alla p. 267.