«Morte quotidiana»: una finestra sul mondo di Pillat

Dinu Pillat è una vittima. Lo è stato in vita, all’interno della sua amata Romania, quando insieme ad altri intellettuali fu imprigionato nel 1956 con l’accusa infamante di cospirazione e di tradimento della patria per volere di una politica stalinista che ‘metteva fuori gioco’ tutti quelli ritenuti pericolosi, a torto o ragione, per il partito. E lo è stato una seconda volta, da morto, di una politica editoriale altrettanto spietata, che lo ha visto relegato nella sua patria e non gli ha consentito di essere apprezzato e conosciuto in altre terre, Italia compresa, dove il suo nome è ancora ignoto ai più. Nonostante ciò, Pillat resta un uomo di grande spessore culturale. Poeta, saggista, giornalista e membro corrispondente dell’Accademia Romena, ma soprattutto grande conoscitore e amante della sua terra di cui offre un pittoresco quadro politico e sociale in Morte quotidiana, opera scritta a soli 25 anni, ma che racchiude in sé una sensibilità e una maturità sconvolgenti. L’edizione italiana è stata pubblicata nel 2022 da Bonfirraro editore, traduzione e cura di Luca Bistolfi.

Nessuno spazio alla fantasia o all’immaginazione. Tutte le scene di vita quotidiana che prendono forma in questo libro sono state vissute o viste dall’ autore stesso, tanto da descriverle in maniera minuziosa e con una sincerità disarmante. Tutto è talmente vero, autentico che si materializza sotto gli occhi increduli del lettore che, senza rendersene conto, si ritrova a vagare nelle stanze della casa di una normale famiglia borghese, al fianco di Ana, Justin, Sandu e Hypolit e a osservare il mondo fuori da quelle stesse finestre. Morte quotidiana trasuda di voglia di evadere dalla routine di tutti i giorni che rende tutto grigio e piatto; di paura di aver preso le decisioni sbagliate e non poter più tornare indietro; di inadeguatezza nei confronti di una vita e di una realtà che ci si ritrova a vivere. Ciascun personaggio, sebbene ognuno per un motivo diverso, è insoddisfatto di sé e della propria vita, e questa insoddisfazione si trasforma in silenzio. Si delinea in questo modo una strana ma efficace contrapposizione tra «quel bassofondo urbano, con i vicini che spettegolavano tutto il giorno l’uno alle spalle dell’altro, sempre con le orecchie incollate ai muri» e il fatto che «ciascuno viveva per i fatti propri in un silenzio che cancellava il senso di una reale comunità».

Silenzio. Credo che sia proprio questa la parola che più di tutte sintetizza e simboleggia questo libro. Le parole di Pillat scorrono, ma senza fare rumore, infrangendosi contro il silenzio assordante di chi vorrebbe urlare ma non ha più voce, di chi vorrebbe chiedere aiuto e invece si isola all’interno del proprio mondo, o in altre realtà. E così ogni personaggio rimane prigioniero del proprio silenzio, dell’impossibilità e allo stesso tempo dell’incapacità di comunicare con gli altri. Se la propria realtà delude, allora non resta che guardare fuori dalle proprie finestre che altro non sono che proiezioni della mente umana. Ed ecco che la finestra mentale di Sandu lo porta a fantasticare una vita in Sud America, mentre Ana e Justin amano rifugiarsi nei ricordi di un passato rassicurante e felice, che per lei è l’infanzia spensierata e la giovinezza, tempo indiscusso dell'amore; e per lui è il tempo trascorso a Parigi. Perfino la morte di Justin, nella parte finale del libro, passa in sordina, scorre, senza scuotere gli animi, senza dar voce al dolore. Sempre e solo un gran silenzio e la triste consapevolezza che tutto rimarrà così, e che solo la morte potrà salvarli e sottrarli a quest’agonia. È come se Pillat aprisse delle finestre per poi richiuderle, perché non c’è alternativa. I personaggi, quindi, sono destinati a trascorrere tutta la loro vita nella disperata ricerca del modo per «arrivare all’ora di pranzo», per superare la giornata, le settimane, i mesi, gli anni a venire. Rassegnati a quella routine, a quel grigiore quotidiano, consapevoli del fatto che vivere è morire un po’ per volta. Ecco perché la morte di Justin, e ancor prima il suicidio del suo collega, non fanno scalpore: si tratta di persone già morte nell’anima, senza alcuna speranza nel futuro o in una possibile nuova esistenza.

I personaggi si guardano allo specchio e non riconoscono più l’immagine che hanno davanti. Sono persone spezzate dalla vita che non hanno avuto la forza di reagire e ripartire. La guerra, la sensazione di essere un fallito: in ognuno di loro è possibile vedere un prima e un dopo uno squarcio. «Un tempo Justin svolgeva il suo mestiere con convinzione. […] Adesso, invece, si limitava alle formalità e procedeva per inerzia». La guerra l’aveva cambiato profondamente, in un qualche modo aveva lasciato un segno, una ferita. Nulla aveva più importanza per lui, ogni cosa aveva perso il suo colore e non lo interessava più come un tempo. Perfino il matrimonio era frutto di quell'inerzia e non dell’amore. Ciascun personaggio vive questa trasformazione, e per ognuno di loro il passato diventa uno straniero. Anche Sandu cercava di concentrarsi sullo studio e il progetto del ponte, per essere diverso, per non fare la stessa fine dei suoi genitori. Ma quel senso di inadeguatezza è una ferita che non smette di sanguinare e fare male, e che porta a creare un dopo fatto di avventure, alcool e serate brave. Ed è un dopo con il quale tocca fare i conti, nel bene e nel male.
Tutto è ambientato negli anni Trenta, sebbene sia possibile ritrovare elementi tipici degli anni Quaranta che sono gli anni in cui Morte quotidiana prende vita. Sono anni difficili, segnati dalla durezza e dalla violenza dei due conflitti mondiali, ma allo stesso tempo, quasi per paradosso, sono anni di progresso e sviluppo per le città. La Romania aveva non solo perso la guerra alleandosi con l’Asse, ma era stata anche invasa dai sovietici. La turbolenta situazione politica di quegli anni spiega il ritratto offertoci di una borghesia completamente smarrita e sopraffatta dal senso di insoddisfazione, essendo lontana tanto dal desiderio di rivincita del proletariato, quanto dal potere e dai privilegi della classe dominante.

È un libro che arriva dritto come un pugno nello stomaco, in tutta la sua semplicità e sincerità nel voler raccontare le cose per come sono, senza fronzoli, senza giri di parole, senza falsità. Un linguaggio asciutto, essenziale e semplice, ma in grado di toccare le giuste corde dell’animo umano. Parole che raccontano l’esistenza silenziosa di quattro personaggi, ma che fanno rumore nel cuore di chi legge e di chi sa ascoltare. Uno spunto di riflessione, un motivo per fermarsi un attimo a prendere fiato. In un’epoca in cui tutto scorre e segue ritmi frenetici, in cui si corre il rischio di trascurarsi e affossare i piedi nell’infelicità, Morte quotidiana di Pillat può rappresentare un’ancora di salvezza, un appiglio a cui aggrapparsi per non cadere nel precipizio. Una finestra da aprire e non richiudere mai più perché in grado di fare la differenza in una stanza buia.





 

Valentina Elia
(n. 5, maggio 2023, anno XIII)