«Metafisica dell’addio». Studi su Emil Cioran

La filosofia ha conservato nella nostra civiltà l'aura di materia per pochi e spesso, questi pochi, cercano nel linguaggio il punto di forza per arroccarsi in un mondo elitario. Ma la filosofia, pur presupponendo una precisione espressiva che necessita del linguaggio specifico e di un rigoroso impiego dei termini, tuttavia non persegue quell'indecifrabilità che le è aliena nel momento stesso in cui è, in primo luogo, «amore per il sapere», via di conoscenza.
La filosofia «forma» è «palestra» di pensiero e, come la letteratura, non deve mai ridursi a pura nozione, ad apprendimento mnemonico, ma deve essere strumento di analisi e di confronto che ci metta in relazione con le nostre stesse domande esistenziali. Non solo, ma la filosofia alla letteratura si affianca come ad essa complementare, fin dalle origini. Come studiare l’una senza l’altra?
Gli studenti liceali, che nella scuola italiana si confrontano, spesso con fatica, con Schopenhauer e Nietzsche, con Leopardi e il suo sistema pessimistico, con Pirandello e la sua lucida visione del reale, ma anche con la solitudine, connaturata con l’esistere, delineata proprio da questi autori – che non vedono nel mondo il progetto rassicurante di un Dio che redime la sofferenza e conferisce logica al nostro trovarci in vita – dovrebbero conoscere Cioran, voce non meno autorevole, non meno incisiva e più vicina a noi nel tempo, e la rigorosa, ma chiarissima lettura che ce ne dà Antonio Di Gennaro nel suo libro Metafisica dell'addio. Studi su Emil Cioran (Aracne 2011). Soprattutto, dovrebbero conoscerlo le troppe persone che ignorano la ricchezza della cultura che, a vario titolo, ci arriva dalla Transilvania. Eppure lo dovremmo in primo luogo ai molti studenti romeni che ormai frequentano i Licei italiani. Infatti, come ci ricorda Di Gennaro, «la riflessione filosofica di Emil Cioran occupa, nell’ambito delle posizioni speculative affermatesi durante il XX secolo, un ruolo di primaria importanza. Accanto alla metafisica di Heidegger e Jaspers, ad esempio, Cioran elabora negli anni un’ontologia del nulla, fulcro della propria tragica Weltanschauung».
Il pensatore romeno afferma che «ogni essere emerge da non si sa dove, lancia il suo piccolo grido e scompare senza lasciare traccia». Quindi, ci accompagna a capire Di Gennaro, «il non-essere… è la dimensione originaria e finale di tutto ciò che, per pura fatalità incappa nell’accidente d’essere, venendo soltanto per un poco ad essere e di nuovo sparendo nell’orizzonte del nulla (…) meglio sarebbe stato per l’ente non aver mai sperimentato l’essere… la nascita segna l’incipit di un tormentoso declino, quello del proprio essere. Nell’uomo tale declino viene consciamente vissuto, soggettivamente patito. A differenza degli altri esseri della natura l’uomo sa che tutto l’essere – e in primo luogo il proprio essere, per il tempo che gli è concesso d’essere – è nient’altro che inquietudine e dolore».

Fondamentale per capire il dolore di esistere di Cioran è il tedio, quello stesso tedio che attraversa la letteratura fin dai classici, fin dal De tranquillitate animi di Seneca: malattia mortale, male di vivere, in-sofferenza per il proprio essere, pesantezza della propria anima - lo chiama il filosofo – cafard. Dice Di Gennaro: «La noia coincide con l’esistenza stessa, in quanto, heideggerianamente, “tocca le radici dell’esserci”». E, «in quanto fenomeno patico, l’io è il tempo vissuto, percepito in termini di discontinuità, mutamento, flusso della coscienza. Ne segue che l’io è un altro rispetto a ciò che egli immagina di essere. L’identità è soltanto una maschera, una finzione, mentre il nostro vero essere si risolve in una disidentità, in una pluralità di io

«Ogni vivente è un vinto» dice ancora Cioran nei suoi Quaderni, dunque Cioran per gli studenti dell’ultimo anno di Liceo non è solo un filosofo che arricchisce il panorama culturale del Novecento, ma attraversa, dal punto di vista letterario, il pessimismo cosmico di Leopardi, lo spleen di Baudelaire, il Caos e le maschere di Pirandello, l’esistenzialismo di Sartre, perfino la visione verghiana dei vinti. Temi che costituiscono una liaison fra epoche e culture, ma cui Cioran conferisce una nuova dignità nel suo sistema di pensiero e nell'autenticità del suo percorso umano e che Di Gennaro ci aiuta a comprendere in profondità, ma senza forzature.

Tutto in questo libro si legge volentieri: Di Gennaro ha il raro dono di scrivere con mirabile precisione, senza tuttavia essere né cattedratico né ermetico e, soprattutto, non si compiace di parlare e, quindi, non annoia mai e non forza mai la mano al pensiero dell’autore. Dice esattamente quello che basta a comprendere, spaziando fra i testi di Cioran, che gli sono assolutamente familiari, in modo che ogni asserzione poggi su citazioni e il disegno logico si dispieghi chiarissimo ai nostri occhi. Quale insegnante liceale, mi piacerebbe che tutti i manuali di Filosofia fossero come questo libro, agevole e accattivante nella sua capacità di far emergere la logica stringente del pensatore. Di Gennaro non banalizza nulla, ma, così come Einstein insegna, rivela la sua intelligenza nel suo rendere tanto esaustiva quanto semplice la sua spiegazione.

Non si può scrivere bene se non si ama quello di cui si scrive ed è palese l'interesse autentico del giovane autore napoletano su Cioran. Come non comprenderlo? Ogni uomo che guardi con capacità analitica alla vita, se non confortato dalla fede, non potrà non aderire alla visione di questi grandi pensatori. Ma se gli altri ci sono più lontani nel tempo e nel linguaggio, perfino, come nel caso di Pirandello, nelle sofferte scelte in rapporto al potere, Cioran ci è più vicino nel suo essere uomo del Novecento ed è l'intellettuale esule, apolide, che tutti ci rappresenta.

Un filosofo da scoprire, ma anche un «poeta», per le peculiarità della sua scrittura, del quale ogni frase è un dono inestimabile. In qualità di poeta ritengo che conoscere pensatori come Cioran sia indispensabile per vivere la multiculturalità come quella meravigliosa avventura dello spirito che permette di conoscere se stessi nei contributi altrui e di comprendere il «fenomeno uomo» a 360 gradi e per me, da sempre innamorata di Martin Buber e del suo L’eclissi di Dio, è stata una lettura avvincente.

Significativa anche la scelta del titolo: Metafisica dell'addio. Un titolo nel quale Di Gennaro sintetizza l'esperienza dell'addio come paradigma metafisico del nostro essere al mondo. L’addio, stoicamente cercato da tutto ciò che ci lega a quella che, per tornare alla letteratura usando un'espressione di Arrigo Boito, è l’«ebete vita che ci innamora / lenta che pare un secolo / breve che pare un'ora», ma anche alla vita stessa, che per il filosofo è una breve parentesi di autoconsapevolezza sull'abisso del nulla.


Vivetta Valacca
(n. 9, settembre 2012, anno II)