Memoria intorno a Maestro Ruggero di Puglia ed il suo «Carmen Miserabile»

Fin da ragazzo avevo sentito parlare di un ‘tal’ Magister Rogerius Apuliae, molto verosimilmente nato fra il 1201 ed il 1205 in un sito non meglio specificato, ma che molti autori (Babinger, Turchányi, Juhàsz, Szwajcer, Ricciardelli) individuavano nella mia città, Torremaggiore (FG) – nell’alto Tavoliere di Puglia, al confine col Molise – che, in quell’epoca – epoca federiciana – era ai suoi albori, all’ombra del famoso monastero benedettino Terae Maioris – in seguito distrutto – forse, sorgendo come primitivo casale ante monasterium. Chi mai, storicamente, fosse stato Ruggero di Puglia e che rapporto avesse avuto, in un lontanissimo passato (poco più di otto secoli or sono) con Torremaggiore – ancorché la città avesse allo stesso dedicato una sua strada – rischiava ormai di perdersi nell’abisso del tempo. Ciò che ancora si rammentava, presso di noi, di questo personaggio – grazie anche agli ‘appunti’ di alcuni nostri storiografi locali – era, grosso modo, la sua data di nascita, il fatto che fosse monaco, fosse morto, nel 1266, a Spalato, della cui città croata era stato arcivescovo, e, soprattutto, che fosse stato storico e documentarista della conquista della Transilvania e della piana di Pannonia – all’epoca, governate dal re Bela IV – da parte dei Tartari nel 1241, producendone un resoconto, minutamente descrittivo, nel suo Carmen Miserabile (il Siralmas Éneke) super Destructione Regni Hungariae per Tartaros facta.

Occorreva saperne di più. Iniziai, così, la mia ricerca sul personaggio ed appurai che fu proprio tale prezioso documento – il Carmen – a renderlo noto, oltre che in Ungheria e Romania, in tutta l’Europa del suo tempo. Difatti, prima del racconto di Marco Polo, che nasce a Venezia il 15 settembre 1254, raggiunge l’Estremo Oriente nel 1271 restandovi per diciassette anni e redige – coadiuvato dal pisano Rustichello – la prima versione de Il Milione tra il 1298 ed il 1299, nulla dell’impero e delle gesta dei Tartari sarebbe stato scritto e tramandato, se ciò non fosse stato ad opera di Magister Rogerius Apuliae, che, per aver vissuto l’avventura di essere contemporaneo e testimone oculare degli avvenimenti da lui narrati nel suo Carmen Miserabile – relativamente alla distruzione del regno d’Ungheria da parte dei Tartari invasori – fu il primo documentarista – e, dunque, pre-poliano – a relazionare sui Mongoli. Anzi, prima che Niccolò e Maffeo Polo – padre e zio di Marco – si recassero (1254) alla corte del Gran Kan dei Tartari, il ‘Carmen Miserabile’ Magistri Ro­gerii, ossia l’Epistola super destructione Regni Hungariae per Tartaros facta, aveva già due lustri e, verosimilmente, in vari manoscritti, doveva aver avuto diffusione in Italia e fuori. Ma, in seguito, quando i due veneziani, questa volta accompagnati da Marco, partirono per il nuovo viaggio (1271) ed ancor più dopo la scrittura de Il Milione, la nuova messe di notizie che giungeva dall’Asia Centrale, superando ormai i contenuti del Carmen, spodestò quest’opera dalla sua funzione informatrice, destinandola all’oblio. Pertanto, comunque siano andate le cose, va ribadito che Maestro Ruggero resta il primo dettagliato relatore, in Occidente, sull’impero dei Mongoli.

Da quel poco che se ne sa, Ruggero si era formato nell’erudizione giuridica a Bologna, acquisendo il titolo di Magister. Presso quell’università – Alma Mater Studiorumuna fiorente scuola giuridica, infatti, esisteva già dall’XI secolo. Rogerius Mester era giunto nei Balcani, sul suolo di Pannonia, verosimilmente nel 1232 nella sua veste di cappellano, già dal 1231, al seguito del cardinale Jacopo da Pecorara (1170?-1244), durante una legazione di questi in Ungheria, voluta da Papa Gregorio IX. E deve aver trascorso gli anni dal 1232 sino all’epoca dell’invasione dei Tartari (1241), come influente cappellano, e poi arcidiacono, del capitolo della cattedrale di Nagy-Várad (Magnum Varadinum), l’attuale Oradea, la più grande città romena del Distretto di Bihor (che ha denominato un suo quartiere Rogériuszin memoria di lui). Poi Jacopo da Pecorara aveva dovuto lasciare l’Ungheria e fare ritorno a Roma – avendo il Papa indetto un concilio ecumenico per prendere drastiche misure contro l’imperatore Federico II – nell’aprile del 1241, sfuggendo dunque, provvidenzialmente per lui, all’invasione dei Tartari. Ben diversa avventura, invece, toccò a Ruggero, il quale fu travolto dagli avvenimenti così come il suo vescovo Benedetto di Gran Varadino, che, dal suo canto, era volontariamente accorso in aiuto di re Bela, ma poi, dopo uno scontro con i Tartari, illeso, aveva creduto bene di fuggire, mettendosi in salvo. Ruggero, di fronte alla distruzione di Nagy-Várad, aveva trovato rifugio in una città presso il fiume Körös, poi aveva cercato riparo, errando nei boschi, abbandonato da tutti, persino da coloro che egli aveva, nel passato, beneficato; infine, era caduto prigioniero dei Mongoli per ben due anni.

Nel Carmen Miserabile descrisse come i Tartari annientarono le popolazioni invase, non risparmiando, con le loro atrocità, neppure i bambini. Ma, oltre alle informazioni riguardanti l’occupazione della Transilvania da parte dei Tatari, il suo scritto contiene una preziosa e ricca raccolta di notizie dettagliate riguardanti, ad esempio, l’organizzazione dei ducati, detti Knyaz, con cui quelle terre venivano governate e tant’altro ancora. Interessante è leggere, ne la Storia dei vescovi di Salona e Split, quanto Tommaso di Split, suo biografo, scrive ‘de Rogerio Archiepiscopo’. La cronaca di Tommaso di Split (l’Arcidiacono), riporta, in particolare, alcune interessanti notazioni riguardanti l’indole di Rogerius, utili per un più completo inquadramento del personaggio. Nella sua Historia Salonitana, Tommaso Arcidiacono indica Magister Rogerius come «Apulum quemdam de partibus Beneventanis, Rogerium nomine, ex oppido, quod Turris Capit [alcuni leggono Cepit, altri C.pt - V’è una soluzione di continuità nel foglio originale] vocatur». Fu Franz Babinger (in Maestro Ruggiero delle Puglie relatore pre-poliano sui Tartari, nella raccolta di scritti: Nel VII centenario della nascita di Marco Polo, Venezia, Officine Grafiche Carlo Ferrari, 1955, 53-61) a sostenere, per primo: «Chi scrive non ha nessun dubbio che nella parola ‘Cepit’ si nasconda una abbreviazione di ‘Capitanata’ e quindi sia da leggere Turris Capit[anatae] o qualcosa di simile», intendendo, forse. Capitanae (La ‘magna Capitana’  di Federico II; la stessa vagheggiata da Re Enzo in Va’ canzonetta mia) con quel ‘qualcosa di simile’. E prosegue: «Dobbiamo dunque senz’altro individuare il paese di nascita in Torre Maggiore, sede, una volta, nel Medioevo, dei Benedettini». Volendosi orientare sull’ipotesi di Turris Capit come Torremaggiore secondo il pensiero di Franz Babinger, resta tuttavia da giustificare quel de partibus Beneventanis. È vero che Turris Capit – diciamo pure Turris Maior (che fosse casale od oppidum o quant’altro) – era sita in una regione già denominata Capitanata (ovvero Catapanata). Ma, poteva essa considerarsi, nella comune accezione geografica d’allora, fuori del primitivo Ducato longobardo di Benevento e, soprattutto, completamente al di fuori della soggezione gerarchica alla sede metropolitica di Benevento? E, Tommaso Arcidiacono, peraltro un ecclesiastico (e, dunque, incline a tener conto di questioni di soggezioni gerarchiche), dalmata, uno straniero, quale esatta nozione poteva avere della Capitanata e del Beneventano? Nel Medioevo, nel resto d'Europa e delle altre terre straniere, le idee sulla Puglia dovevano essere alquanto confuse.

V’è anche da considerare, stante la grande influenza che i classici latini esercitavano sugli autori medievali, quanto Daniele Farlati, in Illyricum Sacrum - Tomus III (Venezia, 1751), in riferimento alle origini (non ben definite dall’Arcidiacono) di Rogerius Archiepiscopus Spalatensis XLVI, conclude: «Caeterum Servius in suis ad Aeneidem Virgilii commentariis videtur Beneventum in Apulia collocasse, quippe tradit Diomedem, in Apuliam cum venisset, ibi Beneventum, Arpos, & alias urbes edificasse». A parte Giovanni Soranzo e lo stesso Franz Babinger, in Italia, in passato, solo il friulano Daniele Farlatiha parlato di Rogerius Apuliae e ne ha riconosciuto la nazionalità italiana in Illyricum Sacrum III, Venezia 1751, 274 e l’abate Girolamo Tiraboschi, nella sua Storia della Letteratura Italiana, IV, Modena, 1788, 452, pur dedicandogli poche righe, lo annoverò fra gli scrittori italiani. Né alcuno aveva mai prodotto una traduzione latino/italiano del Carmen Miserabile, prima che fosse realizzata, nel settembre 2012, espressamente per il mio libro. Anzi, direi che sia stato proprio questo, per me – oltre alla quaestio della ‘torremaggioresità’ di Ruggero – lo stimolo giusto a scrivere una ‘memoria’ su di lui e sul suo Carmen Miserabile, affinché, non solo, io per primo, ne avessi, come già da tempo desideravo, qualche cognizione in più, ma anche al fine di  strappare, all’oblio dei secoli, questo presbitero d’un tempo assai lontano e di riaffidare alla letteratura italiana delle origini, com’è giusto, la sua opera dimenticata.  

Walter Scudero

Da «Carmen Miserabile»

XXXIV. In che modo i Tartari espugnarono la città di Varadino
ed avanzarono più oltre verso Ponte di Thoma ed altri (luoghi)


Il re Cadan, com’è stato detto altrove [1], espugnata Rudana e preso con sé il conte Aristaldo, scelse seicento Teutoni tra i migliori che erano stati sotto la giurisdizione del detto conte. Facendo questi da guida ai Tartari attraverso selve e boschi, rupi e precipizi, in breve tempo (i Tartari) giunsero presso la città di Varadino. E, poiché la città era molto nota in Ungheria, da ogni parte erano là convenute in gran numero sia nobildonne che donne del popolo. E, sebbene il vescovo, con alcuni canonici, si fosse allontanato da lì [2], io, invece, ero là con quelli che erano rimasti. E, poiché il forte [il monastero] [3] si mostrava diruto da una parte, lo facemmo rinforzare con un largo muro, di modo che, ove non potessimo difendere la città, avremmo avuto un rifugio in un luogo fortificato. Ed essendo (i Tartari) giunti all’improvviso in un solo giorno, e poiché nella città senza dubbio avrei avuto impedimento, non volli entrare dentro il monastero, ma scappai in un bosco; a lungo, finché potei, vi restai nascosto. Quelli, occupando subito la città e incendiandola per la maggior parte, alla fine non lasciarono andare libero alcuno che fosse fuori dalle mura del monastero e, raccolto il bottino, ammazzarono sia gli uomini, sia le donne, maggiorenni o minorenni, nelle piazze, nelle case e nei campi. Che aggiungere? Non ebbero pietà né del sesso né dell’età. Dopo di ciò, rapidamente si allontanarono da lì, depositarono tutto in un luogo appartato e si stanziarono a cinque miglia di distanza dal monastero e per molti giorni, in nessun modo, si accostarono, così che quelli del monastero pensarono che si fossero ritirati a causa della inespugnabilità dello stesso. Infatti (questo) era munito di grandi fossati e torri di legno, oltre alle mura, ed erano ivi molti soldati corazzati, così che, nel momento in cui, qualche volta, si avvicinavano per spiare, i soldati ungari, con una veloce sortita, non mancavano di inseguirli. E, poiché per parecchi giorni non si avvicinarono al monastero, e si pensava che si fossero completamente ritirati, i soldati e gli altri che erano nel monastero, uscirono fiduciosamente in gran numero dal loro rifugio e presero ad abitare comunitariamente le case che restavano fuori del monastero. E così, all’alba, i Tartari, che non potevano sapere dov’essi fossero, attaccando una gran parte di quelli che non avevano potuto rifugiarsi nel monastero, li uccisero e, subito, circondando il monastero dalla parte opposta al muro nuovo, posero sette macchine da guerra [catapulte] e, giorno e notte, mai cessarono di scagliare pietre, fino a quando il nuovo muro non fu totalmente distrutto. Poi, distrutte le torri e le mura, iniziarono lo scontro e, occupato il monastero con la violenza, catturarono i soldati e i canonici e gli altri che non erano stati uccisi nell’occupazione del monastero. E dame e damigelle e nobili fanciulle si vollero rifugiare nella chiesa cattedrale. Ma i Tartari si fecero consegnare le armi dai soldati e, attraverso ferocissime torture, estorsero ai canonici qualunque cosa possedessero. E, poiché non poterono subito entrare nella chiesa cattedrale, appiccato il fuoco, bruciarono la chiesa e le dame e qualunque cosa era in chiesa. Ma, nelle altre chiese perpetrarono sulle dame così tante nefandezze, che è più prudente tacere affinché gli uomini non vengano istruiti alle pessime azioni. I nobili, i cittadini, i soldati e i canonici, fuori di città, in una pianura, furono tutti sgozzati senza pietà. Dopo ciò, distrussero completamente i sepolcri dei santi e calpestarono, con i loro piedi scellerati, le reliquie, distrussero turiboli, croci, calici d’oro e vasi d’oro ed altri arredi che servono per i ministeri dell’altare. Facevano entrare nelle chiese, insieme, uomini e donne e, dopo aver turpemente abusato di loro, li uccidevano sul posto. E, dopo che tutto fu distrutto e un fetore insopportabile emanava dai corpi dei morti, si allontanarono di lì e rimase soltanto il luogo desolato. Gli uomini che erano nascosti nei boschi, si riunirono qui (in città) al fine di trovarvi qualcosa di commestibile. E, mentre rigiravano le pietre ed i cadaveri, i Tartari tornarono e non lasciarono in vita nessuno dei viventi che trovarono lì. E così, fino allo stremo, avvenivano quotidianamente nuove stragi. E, non avendo più nessuno da ammazzare, si allontanarono di lì definitivamente. E noi che ci trattenevamo nei boschi, tra reti da caccia, di notte, intraprendemmo la fuga verso Ponte di Thoma, un grande villaggio dei Teutoni, posto sul fiume Crisio [4]. Ma i Teutoni non ci permisero affatto di passare attraverso il ponte, anzi, moltissimi fecero pressione affinché insieme con loro, difendessimo il loro villaggio ben munito. Cosa che non ci piaceva affatto. Nondimeno ci dirigemmo verso una certa isola [5] che era fortemente difesa contro i Tartari, grazie agli uomini di Agya [6]  e Waidam di Geroth [7] e di parecchi altri villaggi circostanti. Non osando procedere oltre, acconsentii all’insistenza del preposto e di tutti quelli di quel luogo, di trattenermi lì con loro. Infatti, nessuno poteva entrare nella prefata isola se non attraverso una via strettissima e minuta [fortificata] [8] a tal punto che, per ogni miglio, in quella via erano state costruite tre porte con le torri e, oltre a queste, presso al miliare (ciascun miliare) vi erano dei robustissimi meccanismi di difesa da ogni parte. E, vedendo che il luogo era così difeso, mi piacque e rimasi. Ma, la caratteristica dell’isola era questa, che permetteva l’ingresso alle singole persone, ma non permetteva a nessuno di tornare indietro. E, stando alcuni giorni lì con miei famigli, venimmo a sapere dai nostri indagatori, che i Tartari si stavano avvicinando. Sortii di nascosto dall’isola per vedere in che modo potevamo salvare i cavalli e, condotta una guida ed un servo, ed avendo ciascuno di noi tre cavalli, di notte ci affrettammo verso la città di Canadino [9], sul fiume Morisio [10], che distava da quel luogo circa otto miglia. E, viaggiando tutta la notte, per quanto i cavalli potevano portarci, all’alba giungemmo a Canadino. Ma (essa) il giorno innanzi era stata espugnata e distrutta dai Tartari, che avevano occupato completamente quella zona, cosicché non potemmo attraversare il fiume. E, poiché i cavalli erano stanchi e degli uomini si nascondevano qua e là in quella zona, non potevamo retrocedere in nessun modo e così, lasciati i cavalli in alcuni ripari, ci toccò nasconderci in alcune fosse. Infine, col sopraggiungere della notte, iniziammo, non senza soverchia difficoltà, a (tornare) al luogo di prima, passando con timore tra i Tartari e, a fronte bassa e con vergogna, rientrammo nell’isola. E mentre si stava in tale pericolo (del sopraggiungere dei Tartari), i miei servi che vigilavano all’esterno presso i cavalli ed altri che erano con me, fuggirono dall’isola col denaro che avevo ed i (miei) vestiti e, durante la fuga, scoperti dai Tartari, furono uccisi di spada ed io rimasi sull’isola, spogliato quasi di tutto, con un solo servo. Tosto, dopo ciò, presero consistenza delle voci che, all’alba, i Tartari avevano occupato Ponte di Toma, la predetta città dei Teutoni e quelli che non volevano tenere prigionieri, un’orrenda e disumana crudeltà sgozzava spietatamente con la spada. Udito questo, mi si rizzarono i peli del corpo e cominciò il corpo a tremare e ad atterrirsi, la lingua miserabilmente a balbettare, prevedendo che fosse imminente il momento d’una morte terribile che non si poteva evitare. Immaginavo i trucidatori con gli occhi della mente, il corpo emetteva il sudore gelido della morte. Notavo che gli uomini che aspettano la morte, spesso non possono protendere le mani alle armi, sollevare le braccia, muovere i piedi verso luoghi di difesa, guardare la terra con gli occhi. E che dire, ancora? Io vedevo gli uomini mezzo morti per l’eccessivo timore. E, mentre ero in questo stato di smarrimento, mi assistette la misericordia di Gesù Cristo e, come se io fossi uno dei più autorevoli, convocai la popolazione dell’isola al fine che ci difendessimo meglio / e secondo il sistema italico [11] /. Con l’occasione di ciò, uscii dall’isola con la popolazione e presi con me due ragazzi, figli del preposto che mi ospitava, e l’unico servo che mi era rimasto; simulando di andare più lontano, mi nascosi nel bosco tra le trappole, dichiarando al padre dei ragazzi che, a causa del timore, non volevo rientrare nell’isola e immaginando che, se tenevo con me nascosti i suoi figli, egli mi avrebbe fornito del necessario. E, fattosi giorno, appena dopo che (mi) erano stati inviati dei viveri, all’improvviso i Tartari piombarono circondando l’isola. E, dando ad intendere che volevano espugnare l’isola attraverso la via d’acqua, la popolazione dell’isola, ingannata, si volse a proteggere quelle zone. Ma i Tartari, irrompendo da altra parte verso le porte sguarnite di difesa, le espugnarono e, entrando nell’isola, non trovarono uno dei nostri che scoccasse una freccia (e), a cavallo o a piedi, andasse incontro a quelli. Quali e quante e quanto grandi iniquità e crudeltà qui perpetrarono, non solo sarebbero terribili da vedersi, ma gli uomini avrebbero terrore ad ascoltarle. E quindi, portate via le spoglie, lasciarono, alcuni fatti a pezzi ed alcuni integri, i corpi denudati delle donne e degli uomini. E, poiché parecchi che si erano nascosti, pensarono che essi, dopo tre giorni, si fossero ritirati, fecero ritorno all’isola per fare scorta di viveri e, sorpresi dai Tartari, che ivi s’erano nascosti, pochissimi riuscirono a salvarsi. Ed io, per i boschi, come un profugo, privo dell’aiuto di tutti, mendicavo e (anche) colui al quale avevo abbondantemente donato, a stento mi porgeva l’elemosina, così che, incalzandomi più aspramente la necessità di mangiare e di bere, di notte ero spinto ad entrare nell’isola e a rivoltare i cadaveri per trovare della farina sepolta o delle carni da mangiare o qualcos’altro di commestibile e, di notte, qualunque cosa trovassi, la portavo via più lontano nei boschi. Oh voi, fate attenzione e considerate quanto pessima fosse quella vita (!). Dopo dieci o venti giorni entrai nell’isola (ancora) a rivoltare i corpi dei morti. Considerate quanto lutto poteva qui esservi, quanto fetore e quanto timore (da parte mia). Non vi è uomo, io credo, che sia stato atterrito da così grandi varietà di sofferenze ripercosse sull’animo. Bisognava che trovassi delle caverne o scavassi delle fosse o cercassi degli alberi cavi, nei quali mi potessi rifugiare, poiché quelli (i Tartari) sembravano percorrere folti roveti, boschi ombrosi, acque profonde, luoghi solitari ed appartati, come cani che scovano lepri o cinghiali. Essi esaminarono questi boschi per un mese e più e, poiché non poterono trucidare in questi luoghi tutta la popolazione, in tale modo si volsero ad un nuovo inganno.

Traduzione dal latino a cura di Afdera Zirone

(n. 4, aprile 2013, anno III)

NOTE

[1] Al Cap. XX.
[2] Rogerius fu cappellano e poi arcidiacono del capitolo della cattedrale di Nagyvárad(o Varadino o Magnum Varadinum, l’attuale Oradea). All’epoca dell’invasione dei Tartari, il vescovo di tale diocesi era Benedetto. Questi era volontariamente accorso in aiuto di re Bela, ma poi, dopo uno scontro disastroso con i Tartari, illeso, aveva creduto bene di fuggire, mettendosi in salvo. Così, aveva lasciato la sua sede allontanandosi da quella zona che era senza dubbio da considerarsi cruciale nella contingenza dell’invasione; tant’è che, quando Varadino cadrà in mano dei Tartari, egli, al contrario del suo cappellano Ruggero, non vi si troverà.
[3] Più che una roccaforte - secondo Vincze Bunyitay, in: Un püspökség alapitásától története Váradi uno jelenkorig…, Budapest, 1883, nella Raccolta:Ungheria. La storia della Chiesa. Medioevo, 600/1500 - dovevasi trattare di un monastero fortificato.
[4] OggiTamáshida(o anche Tamásda; nella contea di Bihar), presso il fiume Fekete-Körös (Crisius) sulla sponda destra.
[5] Era un’isola senza nome nella contea di Arad tra le paludi del fiumeFekete-Körös, presso il villaggio di Nadab.
[6] Il villaggio di Agya(nella contea di Arad), non lontano dall’isola, a settentrione.
[7] Oggi Fekete-Giarmat(nella contea di Arad), presso il fiumeFekete-Körös, sulla sponda destra.
[8] Si propone di leggere ‘munita’ anziché ‘minuta’, in considerazione del fatto che essa via è già definita arctissimam, nonché considerando quanto segue, cioè la descrizione delle fortificazioni di cui era dotata.
[9] Il riferimento è alla diocesi di Csanád, antica contea ungherese presso il fiume Szamos, anche detta Chanadinus o Cenad(d. chanadiensis, ora diocesi di Seghedino (Szeged-Csanád)[Szeged: al confine tra Ungheria, Serbia e Romania].
[10] Oggi Mureş.
[11] In una sua nota al testo latino, lo Juhász [Ladislaus Juhász in Carmen Miserabile super Destructione Regni Hungariae per Tartaros (nella raccolta: Scriptores Rerum Hungaricarum - II vol., Budapest 1937-1938) pp. 543-88] propone di omettere la frase:/et more Italico/ ossia: /secondo il sistema Italico/ (sic).