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    Rinascimento a Ferrara: Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa 
 
       
     
     Spesso, quando si pensa al Rinascimento, la mente fugge e si posa su  Firenze dimenticando i quattro studioli rinascimentali: Ferrara, Mantova,  Rimini e Urbino e il loro grandissimo lascito della «nuova maniera» come  direbbe Vasari. Ferrara è la prima città che ha prodotto e incoraggiato una  vera scuola, la così detta «officina ferrarese», chiamata con questo sintagma  dal grande critico d’arte e stilista della lingua italiana che fu Roberto  Longhi. Nel lontano 1933, esattamente 90 anni fa, Longhi riportò nei libri di  storia dell’arte la scuola di Ferrara e la mise nella giusta luce che era  adombrata dal Rinascimento fiorentino così caro a Bernard Berenson e alla  scuola anglosassone del Burlington Magazine. Eccezione faceva solo l’Istituto Aby Warburg di Londra, la collaborazione  del grande esperto del Rinascimento italiano Erwin Panofsky o della storica dell’arte  Francis Yates che si occupò a lungo del ciclo pittorico di Palazzo Schifanoia.  
        L’Emilia-Romagna è stata anche vittima del terribile terremoto nel 2012,  che ha fatto chiudere tantissimi musei a Ferrara e a Mantova, ma che è servito  da spunto per la ripartenza. Finalmente, dopo quasi un secolo, torna da tutto  il mondo, da Dallas in Texas e dalla National Gallery di Londra, l’emblema del Rinascimento  ferrarese, Ercole de’ Roberti e il suo unico continuatore, di dieci anni più  giovane ma che fortunatamente ha vissuto il doppio degli anni del Maestro, il  pittore Lorenzo Costa.  
        Per me Ferrara, Ercole de’ Roberti e l’officina ferrarese è questo e  tanto altro ancora. Nel lontano 1994 io ero una studentessa della Facoltà di  Storia dell’Università di Bucarest, ma anche la giovane leva da formare alle  prese con la disciplina del mio più grande Maestro, lo storico dell’arte Remus  Niculescu, amico di Roberto Longhi, con il quale aveva un vivo scambio di  lettere in passato e di Henri Focillon. Il Professor Niculescu mi disse in una  uggiosa mattinata di novembre ricevendomi nel suo ufficio dell’Istituto di  Storia dell’Arte di Bucarest «George Oprescu»: «signorina (duduia, usava un vezzeggiativo così interbellico, volutamente  all’antica) Corina, se vuole imparare un buon italiano le consiglio di partire  dalle opere di Roberto Longhi, che non è solo il più grande storico dell’arte  italiana, ma anche il detentore di una chiave stilistica aulica e  ineguagliabile». Da allora ho lavorato per anni con Remus Niculescu, direttore  dell’Istituto di Storia dell’Arte, e ho capito che Roberto Longhi aveva  rivalorizzato «l’officina ferrarese» e riscoperto Caravaggio, così come  il mio Maestro romeno aveva riscoperto il più  grande impressionista romeno, Nicolae Grigorescu, aveva  indagato a fondo nei rapporti artistici e  culturali tra la Moldavia di Gheorghe Asachi, padre fondatore della letteratura  moderna romena, e Antonio Canova del periodo romano del grande scultore veneto.  Insomma, tutto quel poco o meno che io ho studiato nella mia vita riguardante  la storia dell’arte era sulle orme di Remus Niculescu e implicitamente di  Roberto Longhi.  
        Ed eccomi qui davanti al Palazzo dei Diamanti  appena restaurato in maniera egregia da due architetti dello studio Labics (Maria Claudia Clemente e Francesco Isidori,  fondatori nel 2002 dello studio  Labics, con sede a Roma,  hanno vinto il concorso, bandito nel 2017 dal Comune di Ferrara, per il restauro,  l’adeguamento funzionale e l’ampliamento dell’edificio disegnato da Biagio  Rossetti nel 1492).  E dentro mi ritrovo davanti a 100 opere di Ercole de’  Roberti e Lorenzo Costa. Quando si dice che nella vita niente avviene per caso.  Noi attiriamo quello che desideriamo di conoscere, la formazione è un processo,  spesso misterioso, dove l’incontro con l’opera o con Il Maestro è costruito  dentro di noi con tenacia, negli anni e non per forza in modo programmato. La  mostra è stata aperta il 18 febbraio e durerà fino al 19 giugno 2023. Quattro  mesi per ammirare i ferraresi a casa loro con prestiti unici più che rari come  i quattro quadri di Ercole de’ Roberti prestati dalla National Gallery di  Londra: Dittico di  Londra, 1490 circa, La raccolta della manna, 1490 circa e L’Istituzione dell’eucaristia,  1490-1500 circa. Dal lontano Texas è arrivata la bellissima Porzia e Bruto tempera sul tavola di  48,7 cm x 34,3 che arriva da Kimbell Art Museum (Fort Worth)  o «il più bel ritratto  a dittico di tutto il Quattrocento italiano» [5] come lo definì Roberto Longhi,  che arriva da Rotterdam, il bel Ritratto d’uomo, Museum Moijmans Van  Beuningen, attribuibile forse anche a Lorenzo Costa e non dato per certo come  opera di Ercole de’ Roberti. Questa tipologia di ritrattistica era fortemente  influenzata dall’arte fiamminga e in speciale modo da un pittore fiammingo che  completò la sua formazione in giro per l’Italia, Hans Memling, pittore  collezionato dal primo dei collezionisti, il cardinale Pietro Bembo, presunta  eredità del quadro dal padre Bernardo. Sempre dall’America arriva anche il  dittico di Giovanni II Bentivoglio e  della moglie Ginevra Sforza, bella replica sul tema della celeberrima opera  di Piero della Francesca, oggi agli Uffizi Federico  di Montefeltro e Bianca Sforza [8],  che era la sorella di Ginevra e un matrimonio altrettanto importante, che  sanciva l’unione tra il Ducato di Milano e quello di Montefeltro quanto la  città di Bologna sotto l’ultimo Bentivoglio prima dell’occupazione della Chiesa. 
         
       
      
            
          Dittico di Londra, 1490 circa, Londra, National  Gallery 
           
           
             
          Ercole de’ Roberti, La raccolta della manna, 1490 circa, Londra, National Gallery 
           
           
            
          Ercole de’ Roberti, Istituzione dell’eucaristia, 1490-1500  circa, Londra, National Gallery 
           
           
            
          Ercole de’ Roberti, Portia e  Brutus, 1486-1490, Texas, Fort Worth, Kimbell Museum 
           
           
            
          Ercole de’ Roberti o Lorenzo Costa, Ritratto d’uomo, c. 1490, olio su  tavola, 42 cm x 32,  
          Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen. Acquisito dalla collezione  di D.G. van Beuningen, 1958 
           
           
            
          Hans Memling, Ritratto d’uomo con una moneta romana (Bernardo Bembo?) 1473-1474 (?).  
          Olio su tavola, 31 x 23,2 cm, Anversa,  Koninklijk Museum voor Schone Kunsten 
           
           
          
        Ercole de’ Roberti, Giovanni II Bentivoglio, 1473-74, Ginevra Sforza, 1473-74,  
        tempera su tavola, 54 cm x 38, 1,  Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection 
         
         
           
        Piero della Francesca, Federico da Montefeltro e Battista Sforza, Firenze, Uffizi,  1465-1472 
         
         Per capire il modo in cui le opere di Ercole de’  Roberti sono state portate via da Ferrara e collezionate subito dopo la sua prematura  morte, basti pensare che a Ferrara sono rimasti soltanto due piccoli quadri e l’affresco  del mese di Settembre nel Palazzo Schifanoia a lui attribuito da Roberto Longhi  pur in assenza di alcun documento, ma per la genialità d’osservazione che il  grande critico possedeva [9]. Si  presume che l’autore sia un Ercole de’ Roberti ancora giovanissimo, con una  forza riconoscibile nel paesaggio «brullo», come diceva Longhi dei paesaggi di  Piero della Francesca, ma un brullo geometrizzato. Dentro il fregio in alto, come in un fumetto, tre scene  principali: a destra Marte e Venere sotto un candido lenzuolo a pieghe  marmoree, come fosse una vera scultura; ai piedi degli innamorati la bella  veste fatina di lei e la possente corazza lucente di lui; dal letto pende un  cuore da una catena, simbolo dell’amore. Dalla parte opposta Vulcano (Hefaistos) e i suoi aiutanti lavorano il  ferro nella fucina e in un medaglione spunta una lupa capitolina che sta  allattando i due gemelli, Romolo e Remo, segno che alla corte del ducato di  Ferrara erano ben consapevoli della classicità e dei valori antichi e romani di  cui si sentivano continuatori i duchi D’Este. Questo ciclo pittorico è il più  grande del Rinascimento arrivato fino a noi e ha attirato l’interesse di  storici tra i più svariati come gusto e tempo, da Aby Warburg [1] a Vittorio  Sgarbi [2], che è anche l’organizzatore della splendida mostra in corso e ha reso  in questo modo, con l’inaugurazione del Palazzo dei Diamanti, un sentito  omaggio alla sua città.   
       
       
             
          Ercole de’  Roberti, Settembre, Palazzo  Schifanoia, Ferrara 
        
         Dalla Città del  Vaticano sono arrivati I miracoli di san  Vincenzo Ferrer, 1470-73 ca., tempera su tavola di 29,6 cm x 214,6, con la  lezione della prospettiva di Piero della Francesca, data dalle colonne antiche,  dal gesto dello Spinario qui dipinto  e scolpito nell’antichità e presente nei Musei del Campidoglio dal 1471, dono di  Papa Sisto IV e i tre misteriosi personaggi di cui uno ci dà le spalle come  nella Flagellazione di Cristo sempre  di Piero della Francesca [12]. Da Bologna, dalla Pinacoteca Nazionale è stato  prestato alla mostra il Volto di Maria  Maddalena piangente, 1482-85 ca., affresco staccato, 39,3 cm x 39,3. Prima  di lui soltanto Giotto aveva dipinto le lacrime. Pochi lo sapranno fare dopo. 
           
        
   
          Ercole de’ Roberti, I  miracoli di san Vincenzo Ferrer, 1470-73  ca., tempera su tavola di 29,6 cm x 214,6 dalla Città del Vaticano 
             
             
              
            Ercole de’ Roberti, Volto di  Maria Maddalena piangente, 1482-85  ca., affresco staccato, 39,3 cm x 39,3 
             
         
      Ma cosa fa di Ercole  de’ Roberti un pittore così unico? Secondo la mia opinione due sono le  caratteristiche indistinte della sua arte: il dinamismo delle figure, il loro  movimento che è dato non solo dalla infilata delle immagini nelle scene dei  miracoli che si susseguono come in un fumetto ante litteram, ma anche dal drappeggio delle vesti, da questi  tessuti che prendono pieghe da sculture barocche, dai colori forti, quasi  veneti, ma ammorbiditi da veri e propri capi di abbigliamento di una alta moda  rinascimentale con capolavori da modiste nel realizzare le reti dorate che  tengono fermi l’intreccio dei capelli, come sorrette dal sogno di una  imperatrice cinese, fine, eleganti, voluttuose. Il secondo tratto  caratteristico è contenuto nelle mani, mani affusolate, mani che parlano, che  gridano di dolore o insegnano le maniere, con anelli semplici, spesso le fedi  delle Madonne, simbolo di devozione casalinga e religiosa, mani che benedicono  e mani che indicano la retta via (Odigitria),  mani teatrali, che recitano, Le Mani della bellezza rinascimentale che emerge dai gesti come dalle parole. 
        Purtroppo Ercole de’ Roberti muore giovane (1451-56 – 1596) e il suo  posto è preso subito da Lorenzo Costa, di dieci anni più giovane e che, fortunatamente,  vivrà a lungo (1460-1535). La lunga vita gli permette di fondere gli stili e le  diverse scuole del Centro e del Nord con l’Italia Centrale, la scuola veneta di  Giovanni Bellini e di Andrea Mantegna con l’astro nascente umbro di Perugino.  Ne esce uno stile composito di una lezione imparata per bene e riprodotta con  maestria, ma senza il patos e il genio di de’ Roberti. Questo paragone non vuol  mettere però in minor luce Costa, ma è solo una osservazione per capire il suo  stile completo, portato a compimento con sapienza di chi vive e impara a lungo,  di chi ha il tempo per formarsi e affermarsi a Ferrara, a Mantova e a Bologna,  dovunque la politica del momento lo portava. In piccolo, nei quadri «da stanza»  il capolavoro di Costa è Fuga degli  Argonauti dalla Colchide, 1483 ca., tempera e olio su tavola, 35 cm x 26,5,  Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza.  
         
       
        
          Lorenzo Costa, Fuga  degli Argonauti dalla Colchide, 1483 ca.,  
          tempera e olio su tavola, 35 cm x  26,5, Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza 
           
       
      Dallo stesso  soggetto ai musei Eremitani di Padova esiste un altro quadro dal paesaggio più  completo. Il quadro mi ricorda il più bel sonetto sull’amicizia di Dante  Alighieri, Guido, i’ vorrei che tu e lapo ed io dalle Rime: 
         
          Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io  
          fossimo presi per incantamento,  
          e messi in un vasel ch’ad ogni vento  
          per mare andasse al voler vostro e mio,  
          sì che fortuna od altro tempo rio  
          non ci potesse dare impedimento,  
          anzi, vivendo sempre in un talento,  
          di stare insieme crescesse ‘l disio.  
          E monna Vanna e monna Lagia poi  
          con quella ch’è sul numer de le trenta  
          con noi ponesse il buono incantatore:  
          e quivi ragionar sempre d’amore,  
          e ciascuna di lor fosse contenta,  
          sì come i’ credo che saremmo noi. 
           
        Ma «la migliore e la più dolce  maniera» come dice Vasari dell’opera di Lorenzo Costa è raggiunta in un quadro  del 1492 dipinto per la famiglia Rossi. Qui abbiamo un compendio completo di  tre quarti di secolo di pittura rinascimentale italiana: la Madonna è seduta in  trono dolce e serafica come nei quadri migliori di Giovanni Bellini, san  Sebastiano è saettato su una colonna delle quattro all’antica come in Mantegna.  La Madonna posa su un piedestallo con fregio con le scene prese da un sarcofago  romano ma con i corpi messi in rilievo in maniera emiliana, con lo sfondo  dorato, come le grottesche nel Duomo di Ferrara, il San Giorgio da bravo  soldato è qui con la sua armatura luccicante come poi Giorgione ci ha abituati  a vedere nei suoi quadri i soldati italici, i colori sono forti, vivaci come nei  veneti, ma con un qualcosa di dolce nelle carni, con una corporalità bonaria da  emiliano doc, con quella summa pittorica che solo in Emilia si raggiunge alla soglia del Cinquecento e sarà  una chiave distintiva della pittura ferrarese e bolognese del tempo. Su questa  scuola dell’officina ferrarese si costruirà il futuro barocco che ha fatto  distinguere l’Emilia-Romagna fino alla Roma dei papi, con pittori del calibro  di Giovanni Lanfranco, Carracci, Domenichino, Francesco Albani e Guido Reni. 
        Esco dalla manica lunga della mole centrale del  Palazzo dei Diamanti costruito da Biagio Rosetti e passo attraverso un «Jardin d’hiver» tutto in vetro,  ottone e cemento e percorro un vero giardino per vedere le ultime stanze della  mostra nel vecchio museo del Risorgimento spostato in un’altra ala per far  spazio alle ultime sale con un bel pavimento in cotto e poi andare verso il bookshop,  la caffetteria e l’uscita nel bel mezzo della estensione erculea dove si trova  al centro il Palazzo dei Diamanti. La prima voglia che mi passa per la testa e  di rivedere il Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia per guardare il mese di  settembre, opera di un Ercole de’ Roberti giovane, vibrante e tumultuoso come la  fucina di Vulcano che la fa da padrone. Ritorno ai miei anni romeni, al mio  Maestro Remus Niculescu e penso che un po’ anche per lui ho visto questa  mostra, che in un certo senso, per vie misteriose, la «duduia» (signorina) Corina di allora ha compiuto un giro di boa  della sua paideia e che l’Italia non  finisce ancora di stupirmi.  
        Dopo novant’anni da quando Roberto Longhi ha sottratto  all’oblio la scuola ferrarese, cento opere sono di nuovo in mostra nel Palazzo  dei Diamanti messo a punto per l’inaugurazione in un restauro moderno,  azzeccato, dove la contemporaneità della riqualifica di zone come il giardino o  le dependance dell’ex museo del Risorgimento dialogano con l’urbanistica  lungimirante della prima città rinascimentale che ha pensato a un piano del  genere, come l’estensione erculea compiuta dall’architetto Biagio Rosetti. Sarà  il genius loci? Sicuramente! È forse inoltre  un modo per ritornare alle origini della storia dell’arte, con la pittura di  Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa, la scultura di Niccolò Baroncelli e  Domenico di Paris e il loro Madonna, Cristo  Crocefisso e San Giovanni, l’architettura di Biagio Rosetti, ma anche con la  storia dell’arte insieme a Roberto Longhi e Remus Niculescu, Maestri dell’italiano  e dello stile. 
         
       
        
          Lorenzo Costa, Madonna  col Bambino e i santi Sebastiano, Giacomo, Girolamo e Giorgio (pala Rossi),  1492,  
          tempera e olio su tavola, cm 252 x 177, Bologna, Basilica di San Petronio 
           
       
        
          Niccolò Baroncelli e Domenico di Paris, Madonna, Cristo Crocefisso, San Giovanni,  1450-55,  
          Bronzo dorato e argentato, 205 cm x 90 x 60, 235 cm x 210 x 60, 200 cm  x 80 x 60, Capitolo della Basilica Cattedrale di San Giorgio di Ferrara 
       
       
       
      Liana Corina Tucu 
      (n. 3, marzo 2023,  anno XIII)       
       
       
      NOTE       
       
      1. Aby Warburg, Italienische  Kunst und internationale Astrologie im Palazzo Schifanoja zu Ferrara (1912), in La Rinascita  del paganesimo antico, Sansoni, Firenze, 1966; Aby Warburg, Arte e  astrologia nel palazzo Schifanoja di Ferrara, 2006, Abscondita. 
      2. Vittorio  Sgarbi (a cura di), Per Schifanoia. Studi e contributi  critici, Liberty Hoise, Ferrara, 1987. 
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