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Rodney Smith a Rovigo: i cento scatti più conosciuti del celeberrimo fotografo
Ma chi era Rodney Smith? Il percorso espositivo si apre con una serie di proiezioni che raffigurano le foto e alcuni dei suoi pensieri poetici che le accompagnano. La mostra è suddivisa in sei sezioni che rappresentano veri scenari visivi e spesso una crestomazia della conoscenza delle opere d’arte e dei fotografi e cineasti moderni, dove l’eleganza della Natura o la bellezza marmorea delle donne ci spingono in un mondo che del reale ne ha ben poco e che ci sprona a ricordare quadri, statue, testi filosofici, immagini già viste, ma che l’artista ricompone nella sua visione originale, intrigante e piena di buon gusto. La sua fotografia era declinata spesso in una visione poetica a volte classica, fatta di armonia formale e narrazione simbolica, come nelle fotto che raffigurano le modelle e in special modo nella foto Bernadette si spruzza il profumo, del 1996, Burden Mansion, New York City. Si sente il suo amore per l’essenziale, per il bianco e il nero. Persino la fiamma di un gruzzolo di papaveri rossi è ridotta alla sua materialità nei due colori originari, dove il fusto dei fiori ha le sembianze delle corde delle navi che si aggrovigliano l’un l’altro come il collo dei fenicotteri innamorati e i petali hanno le venature di una pensilina di un bel palazzo del secolo passato – Papaveri rossi, Waterside, Connecticut, 1978. La stessa forza visiva è messa nella fotografia Pere, Clinton, Connecticut, 1974 – dove la fruttiera colma è poggiata sul bordo di una tavola vicino alla finestra e la luce la fa da padrona proiettando dei fasci sul tavolo come nella pittura fiamminga di Johannes Vermeer. Il taglio è anch’esso audace, come nelle stampe giapponesi Obon che poi furono riprese dagli impressionisti, verticale come per una volontà di mettere insieme alla fondina con le pere imbevuta di luce l’immensità dell’oscuro che la circonda e che le dà con il suo volume la giusta enfasi. Quando la fotografia è a colori la materia diventa un pretesto per una metafora come nella fotografia Erin in verde, Snedens Landing, New York, 2014. La modella dalle labbra porpora ha le spalle scoperte ed emerge dalla siepe che, al posto del bosso dei giardini italiani, ha le piante del tè; s’intravede un vestito dello stesso colore verde, come una metamorfosi ovidiana, tiene nelle mani una tazza di tè che, guarda caso, riprende nella sua decorazione ceramica lo stesso fogliame verde della natura da dove è sbucata questa Dea come una Imera con le braccia avvolte in un tulle leggero come un Sogno di una notte d’estate. Il volto è coperto dal capello a falda larga dal quale s’intravede, in questa fotografia fatta un po’ dall’alto, soltanto la punta del naso e le focose labbra della modella. Il colore è un pretesto per giocare con le metamorfosi di berniniana memoria come Apollo e Dafne della Galleria Borghese, un colore che viene declinato in maniera anche comica, con un umorismo raffinato, dove al posto del bosso della siepe abbiamo le piante del tè, lo stesso tè del contenuto della tazza … del tè e della nuance del vestito di Erin, la modella, il capello è realizzato con piccoli pezzettini a forma di foglie del tè e con una foggia che ricorda gli omonimi copricapo che adoperano le donne asiatiche, dall’Indocina francese alla Manciuria, quando raccolgono lo stesso… tè. Il tè diventa il pretesto di un gioco intellettuale profondo e raffinato, nonché il simboleggiare un rinvigorire di colui che sta guardando questo scatto dalle dimensioni e dal formato di un quadro di Claude Monet dal nome suggestivo Primavera che si trova al Wolters Art Museum di Baltimora. Impressionano anche le fotografie che vogliono come sfidare la gravità, fotografie dove il personaggio è un adulto ma dal comportamento fanciullesco, che si appoggia come un elfo addormentato alla massa di fieno – Uomo appoggiato a una balla di fieno, Alberta, Canada, 2004, oppure la foto di una silhouette umana inclinata come un birillo che sta per cadere e ha sullo sfondo un aereo, che non è altro che una citazione dell’antico mito di Icaro, povero sognatore – Robert che cade, Rhinebeck, New York, 2009, oppure l’inquietante Casa che pende, Alberta, Canada, 2004 dove pende non solo la casa, ma anche il personaggio che sta per varcare la soglia di questa catapecchia pericolante che si tiene in piedi per miracolo, come per dire che la gravità è stata abolita per un attimo nel mondo della fotografia di Rodney Smith. Tutto è irreale, senza gravità, pericolante e di conseguenza pericoloso in questi scatti magistrali che fanno della vita reale solo un pretesto per riflettere sulla caducità dell’essere umano e della vita stessa. C’è in queste fotografie anche la volatilità del piccolo borghese con la bombetta di Magritte, il mistero delle case inabitate, délabré, case misteriose come la casa di Psycho di Hitchcock che riprende le inquietudini dei quadri di Edward Hopper, case come L’impero delle luci di Magritte della Collezione Peggy Guggenheim a Venezia, case come le fattorie abbandonate della Gran Bretagna che Smith fotografa con avidità, come un gesto per conservarle nel tempo se non è possibile nella vita reale – Fattoria Penlwn, Lialthdu, Wales, United Kingdom, 1980, oppure Fattoria abbandonata, vicino a Crossgates, Mid Wales, United Kingdom, 1980. Le scandole antiche, il muro di mattoni «mangiati» dall’umidità, la geometria delle porte realizzate con delle travi di legno messe su diagonale per far sì che il vento e la pioggia non riescano a penetrare, case che sono poesie di un artigianato che non c’è più, un mondo dei saperi che non è stato tramandato alle generazioni venute dopo, una genealogia interrotta che pende sulla coscienza contemporanea. A proposito di temi d’attualità, Rodney Smith è stato anche un fotografo appassionato della teologia, nella quale si è laureato alla Yale e forse come tributo alla sua formazione poliedrica si è recato a Gerusalemme nel 1976 dove Smith ha trascorso cento giorni a fotografare la popolazione della Terra Santa. Dagli 88 rullini di pellicola scattati, Smith pubblicò il suo primo libro: Nella Terra della Luce: Israele, un ritratto del suo popolo (1983), pubblicato dalla Houghton Mifflin Company in Israel. Un omaggio all’Italia sono due foto della mostra che mi hanno molto colpita. La prima è una strada con i pini romani dalla folta e tonda corona, una via Appia dei giorni nostri, monumento alla vegetazione mediterranea – Strada con alberi no. 3, Roma, 1990. L’altra fotografia è un riflesso di un personaggio, Jerome, in uno specchio sul bordo della tortuosa e pericolosa strada della Costiera Amalfitana – Jerome riflesso, Amalfi, 2007. Davanti al fotografo Rodney Smith e a noi che guardiamo oggi il suo capolavoro, c’è uno specchio convesso che riflette l’angolo di una strada che segue tra i terrazzamenti di muretti a secco e dove è riflesso Jerome che ci guarda, ma – come nei quadri di Velázquez e delle sue stupende Las meninas – davanti a noi sta oltre l’immagine dello specchio che riflette l’entroterra, anche l’immagine della sua maestà il Mar Tirreno e l’Infinito che lo contiene oltre una ringhiera metallica che ci protegge per non cadere a strapiombo e non finire nel «dolce naufragar in questo mare», come direbbe Giacomo Leopardi. Rodney Smith è stato allievo e seguace di grandi maestri come Walker Evans e Cartier-Bresson, come loro è stato ispirato dal cinema e dalla filosofia e la sua fotografia è un attimo strappato all’eternità che si rivela folgorante nel mondo del reale e che l’artista «ruba» per donare a noi comuni visitatori curiosi e incantati da questo mondo magico che si sprigiona dal centinaio di fotografie che la mostra del Palazzo Roverella propone fino all’inizio di febbraio del prossimo anno. La mostra fotografica è diventata un’abitudine di questo meraviglioso museo e arriva dopo quella di due anni fa delle opere rarissime di Tina Modotti, dell’anno scorso di Henri Cartier-Bresson e di quest’anno con l’incontro della mostra su Rodney Smith. Ormai Rovigo è diventato una tappa fissa e importantissima sulla mappa delle mostre con argomento la fotografia e meta di un pubblico molto raffinato e di nicchia che predilige tali mostre.
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