Rodney Smith a Rovigo: i cento scatti più conosciuti del celeberrimo fotografo

Per la prima volta in Italia, tra il 4 ottobre 2025 e il 1° febbraio 2026 al Palazzo Roverella viene ospita una grande mostra dedicata a Rodney Smith, fotografo newyorkese importantissimo del XX secolo. L’esposizione ripercorre l’intera carriera dell’autore in più di cento scatti che dimostrano eleganza, e il rigore compositivo mescolate con un «non so che cosa» che ricorda il surrealismo, la cinematografia di Hitchcock, Chaplin e gli uomini con bombetta di Magritte, il cinema di Wes Anderson e la musica di Leonard Bernstein.

Ma chi era Rodney Smith?
Rodney Lewis Smith (24 dicembre 1947 – 5 dicembre 2016) è stato un fotografo di moda e ritrattista newyorkese e ha fotografato preferendo la luce naturale per illuminare i suoi soggetti, ma occasionalmente utilizzava anche l’illuminazione continua. Smith ha scattato soprattutto in bianco e nero, fino al 2002, quando ha iniziato a sperimentare con la pellicola a colori. Il suo lavoro è comunemente definito classico, minimalista e stravagante.

Il percorso espositivo si apre con una serie di proiezioni che raffigurano le foto e alcuni dei suoi pensieri poetici che le accompagnano. La mostra è suddivisa in sei sezioni che rappresentano veri scenari visivi e spesso una crestomazia della conoscenza delle opere d’arte e dei fotografi e cineasti moderni, dove l’eleganza della Natura o la bellezza marmorea delle donne ci spingono in un mondo che del reale ne ha ben poco e che ci sprona a ricordare quadri, statue, testi filosofici, immagini già viste, ma che l’artista ricompone nella sua visione originale, intrigante e piena di buon gusto.

La sua fotografia era declinata spesso in una visione poetica a volte classica, fatta di armonia formale e narrazione simbolica, come nelle fotto che raffigurano le modelle e in special modo nella foto Bernadette si spruzza il profumo, del 1996, Burden Mansion, New York City. Si sente il suo amore per l’essenziale, per il bianco e il nero. Persino la fiamma di un gruzzolo di papaveri rossi è ridotta alla sua materialità nei due colori originari, dove il fusto dei fiori ha le sembianze delle corde delle navi che si aggrovigliano l’un l’altro come il collo dei fenicotteri innamorati e i petali hanno le venature di una pensilina di un bel palazzo del secolo passato – Papaveri rossi, Waterside, Connecticut, 1978.  La stessa forza visiva è messa nella fotografia Pere, Clinton, Connecticut, 1974 – dove la fruttiera colma è poggiata sul bordo di una tavola vicino alla finestra e la luce la fa da padrona proiettando dei fasci sul tavolo come nella pittura fiamminga di Johannes Vermeer. Il taglio è anch’esso audace, come nelle stampe giapponesi Obon che poi furono riprese dagli impressionisti, verticale come per una volontà di mettere insieme alla fondina con le pere imbevuta di luce l’immensità dell’oscuro che la circonda e che le dà con il suo volume la giusta enfasi.

Quando la fotografia è a colori la materia diventa un pretesto per una metafora come nella fotografia Erin in verde, Snedens Landing, New York, 2014. La modella dalle labbra porpora ha le spalle scoperte ed emerge dalla siepe che, al posto del bosso dei giardini italiani, ha le piante del tè; s’intravede un vestito dello stesso colore verde, come una metamorfosi ovidiana, tiene nelle mani una tazza di tè che, guarda caso, riprende nella sua decorazione ceramica lo stesso fogliame verde della natura da dove è sbucata questa Dea come una Imera con le braccia avvolte in un tulle leggero come un Sogno di una notte d’estate. Il volto è coperto dal capello a falda larga dal quale s’intravede, in questa fotografia fatta un po’ dall’alto, soltanto la punta del naso e le focose labbra della modella. Il colore è un pretesto per giocare con le metamorfosi di berniniana memoria come Apollo e Dafne della Galleria Borghese, un colore che viene declinato in maniera anche comica, con un umorismo raffinato, dove al posto del bosso della siepe abbiamo le piante del tè, lo stesso tè del contenuto della tazza … del tè e della nuance del vestito di Erin, la modella, il capello è realizzato con piccoli pezzettini a forma di foglie del tè e con una foggia che ricorda gli omonimi copricapo che adoperano le donne asiatiche, dall’Indocina francese alla Manciuria, quando raccolgono lo stesso… tè. Il tè diventa il pretesto di un gioco intellettuale profondo e raffinato, nonché il simboleggiare un rinvigorire di colui che sta guardando questo scatto dalle dimensioni e dal formato di un quadro di Claude Monet dal nome suggestivo Primavera che si trova al Wolters Art Museum di Baltimora.

Impressionano anche le fotografie che vogliono come sfidare la gravità, fotografie dove il personaggio è un adulto ma dal comportamento fanciullesco, che si appoggia come un elfo addormentato alla massa di fieno – Uomo appoggiato a una balla di fieno, Alberta, Canada, 2004, oppure la foto di una silhouette umana inclinata come un birillo che sta per cadere  e ha sullo sfondo un aereo, che non è altro che una citazione dell’antico mito di Icaro, povero sognatore – Robert che cade, Rhinebeck, New York, 2009, oppure  l’inquietante Casa che pende, Alberta, Canada, 2004 dove pende non solo la casa, ma anche il personaggio che sta per varcare la soglia di questa catapecchia pericolante che si tiene in piedi per miracolo, come per dire che la gravità è stata abolita per un attimo nel mondo della fotografia di Rodney Smith. Tutto è irreale, senza gravità, pericolante e di conseguenza pericoloso in questi scatti magistrali che fanno della vita reale solo un pretesto per riflettere sulla caducità dell’essere umano e della vita stessa.

C’è in queste fotografie anche la volatilità del piccolo borghese con la bombetta di Magritte, il mistero delle case inabitate, délabré, case misteriose come la casa di Psycho di Hitchcock che riprende le inquietudini dei quadri di Edward Hopper, case come L’impero delle luci di Magritte della Collezione Peggy Guggenheim a Venezia, case come le fattorie abbandonate della Gran Bretagna che Smith fotografa con avidità, come un gesto per conservarle nel tempo se non è possibile nella vita reale – Fattoria Penlwn, Lialthdu, Wales, United Kingdom, 1980, oppure Fattoria abbandonata, vicino a Crossgates, Mid Wales, United Kingdom, 1980. Le scandole antiche, il muro di mattoni «mangiati» dall’umidità, la geometria delle porte realizzate con delle travi di legno messe su diagonale per far sì che il vento e la pioggia non riescano a penetrare, case che sono poesie di un artigianato che non c’è più, un mondo dei saperi che non è stato tramandato alle generazioni venute dopo, una genealogia interrotta che pende sulla coscienza contemporanea.  

A proposito di temi d’attualità, Rodney Smith è stato anche un fotografo appassionato della teologia, nella quale si è laureato alla Yale e forse come tributo alla sua formazione poliedrica si è recato a Gerusalemme nel 1976 dove Smith ha trascorso cento giorni a fotografare la popolazione della Terra Santa. Dagli 88 rullini di pellicola scattati, Smith pubblicò il suo primo libro: Nella Terra della Luce: Israele, un ritratto del suo popolo (1983), pubblicato dalla Houghton Mifflin Company in Israel.

Un omaggio all’Italia sono due foto della mostra che mi hanno molto colpita. La prima è una strada con i pini romani dalla folta e tonda corona, una via Appia dei giorni nostri, monumento alla vegetazione mediterranea – Strada con alberi no. 3, Roma, 1990. L’altra fotografia è un riflesso di un personaggio, Jerome, in uno specchio sul bordo della tortuosa e pericolosa strada della Costiera Amalfitana – Jerome riflesso, Amalfi, 2007. Davanti al fotografo Rodney Smith e a noi che guardiamo oggi il suo capolavoro, c’è uno specchio convesso che riflette l’angolo di una strada che segue tra i terrazzamenti di muretti a secco e dove è riflesso Jerome che ci guarda, ma – come nei quadri di Velázquez e delle sue stupende Las meninas – davanti a noi sta oltre l’immagine dello specchio che riflette l’entroterra, anche l’immagine della sua maestà il Mar Tirreno e l’Infinito che lo contiene oltre una ringhiera metallica che ci protegge per non cadere a strapiombo e non finire nel  «dolce naufragar in questo mare», come direbbe Giacomo Leopardi.

Rodney Smith è stato allievo e seguace di grandi maestri come Walker Evans e Cartier-Bresson, come loro è stato ispirato dal cinema e dalla filosofia e la sua fotografia è un attimo strappato all’eternità che si rivela folgorante nel mondo del reale e che l’artista «ruba» per donare a noi comuni visitatori curiosi e incantati da questo mondo magico che si sprigiona dal centinaio di fotografie che la mostra del Palazzo Roverella propone fino all’inizio di febbraio del prossimo anno. La mostra fotografica è diventata un’abitudine di questo meraviglioso museo e arriva dopo quella di due anni fa delle opere rarissime di Tina Modotti, dell’anno scorso di Henri Cartier-Bresson e di quest’anno con l’incontro della mostra su Rodney Smith. Ormai Rovigo è diventato una tappa fissa e importantissima sulla mappa delle mostre con argomento la fotografia e meta di un pubblico molto raffinato e di nicchia che predilige tali mostre.

Tornando all’immagine scelta a rappresentare la pubblicità della mostra rodigina, non possiamo non ricordare in questo Lanscape newyorkese la pellicola Tempi moderni di Charles Chaplin, dove Charlot e Paulette Goddard nella scena finale sono visti di spalle, eccetto una donna che però è ritratta di profilo. Smith dà un tocco di nostalgia nel suo scatto rispetto alla pellicola di Chaplin e accompagna ognuno dei suoi cinque personaggi riparati sotto l’ombrello. Rodney Smith piazza in mezzo l’uomo, appeso a una scala come un punto acuto di una partitura musicale che si sente nelle lontananze della Grande Mela, sulla riva del golfo che separa il mondo delle marionette ben vestite alla città, il surreale alla realtà e in sordina mi pare di sentire New York, New York dal musical On the Town di Leonard Bernstein
La mostra di palazzo Roverella è un’iniziativa dove strutture del pubblico e del privato hanno collaborato in maniera attiva per fare di Rovigo un centro non solo dell’Accademia dei Concordi come fu nel passato, ma anche dell’arte contemporanea così necessaria per una buona formazione della gioventù d’oggi.  E a proposito dell’Accademia dei Concordi di Rovigo è importante sapere che questa istituzione è una delle più importanti istituzioni culturali italiane che non ha mai interrotto la sua attività dal 1580 quando fu fondata dal conte Gaspare Campo. La città di Rovigo conserva in essa la sua identità culturale da 400 anni e come dice pure la sua presentazione:

«Oggi l’Accademia mette a disposizione del pubblico una Biblioteca ricca di oltre 300.000 documenti, una Pinacoteca che conta più di 400 opere (alcune molto note come Il Cristo portacroce e Madonna con Bambino di Giovanni Bellini) e una preziosa sezione archeologica costituita da materiali di diversa natura e provenienza tra cui, in particolare, la Collezione di Camillo Silvestri e la Collezione Egizia di Giuseppe Valsè Pantellini.
L’Accademia dei Concordi, inoltre, arricchisce l’offerta culturale del territorio attraverso la promozione di convegni, mostre, conversazioni letterarie, rassegne sui maestri dell’arte contemporanea, corsi di formazione, iniziative scientifiche, con l’obiettivo di raccordare il patrimonio di arte e cultura – che l’Istituto conserva – ai grandi temi del dibattito culturale contemporaneo. L’attività dell’Accademia cresce e si sviluppa anche attraverso l’importante collaborazione da parte di enti, istituzioni e associazioni culturali, nonché attraverso le generose donazioni di numerosi mecenati tra i quali si ricordano Maria Nagliati, Maria Felicita Mattarello Oliva, Bona Campo, Giovanni Federspil e Gian Antonio Cibotto: persone illuminate che – riconoscendosi nelle parole di Girolamo Silvestri – hanno devoluto all’Accademia buona parte dei loro preziosi patrimoni spinte dall’«amor del pubblico bene».

La mostra è promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, in collaborazione con diChroma photography, il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, con il sostegno di Intesa Sanpaolo, e prodotta da Silvana Editoriale. La curatrice della mostra è Anne Morin.
Un ringraziamento doveroso mi sento di fare all’ente organizzatore della mostra – Studio Esseci, che mi ha abilitata alla visita.
Per approfondimenti: info@palazzoroverella.com

                                                                                   


Liana
Corina Țucu
(n. 11, novembre 2025 anno XV)