Alberto Cristofori: «Il Decamerone in italiano contemporaneo, un’opera di impegno civile»

Ospite questo mese dei nostri Incontri critici è Alberto Cristofori (Milano, 1961), traduttore e editor che collabora con varie case editrici milanesi e insegna alla «scuola di linguaggi della cultura» Fenysia di Firenze. Con Bompiani ha pubblicato un romanzo (Ultimo viaggio di Odoardo Bevilacqua, premio Comisso 2014) e un libro di racconti (Nudità, 2017). Ha fondato e diretto per sei anni una casa editrice per bambini e ragazzi ed è autore di numerose riscritture di classici destinate ai ragazzi, nonché di alcuni manuali scolastici.
Tra gli ultimi libri che ha firmato, le traduzioni dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (2022), del Canto di me stesso di Walt Whitman (2024), e il saggio La traduzione letteraria. Esperienze e metodo (2023). Nel maggio 2025 uscirà la sua traduzione in italiano contemporaneo del Decamerone di Giovanni Boccaccio.

Nel trasporre il Decameron in italiano contemporaneo, quale bilanciamento ha ritenuto opportuno mantenere tra la necessità di una fruibilità moderna e il rispetto per la sintassi obliqua e l’incomparabile tessitura retorica del volgare boccacciano?

La domanda chiama in causa il problema complessivo dello stile – di cui sintassi e tessitura retorica sono elementi costituitivi di primaria importanza. Premesso che nessuna traduzione può pretendere di riprodurre pedissequamente le scelte sintattiche e retoriche dell’originale, io mi sono chiesto quali effetti intendeva ottenere Boccaccio presso le sue lettrici ideali (le donne colte a cui l’opera è dedicata) e ho immaginato un lettore o una lettrice ideali del nostro tempo, per avvicinarmi il più possibile alla sua modalità di comunicazione.
È evidente che alcuni artifici che nel Trecento erano noti e percepiti da qualunque persona colta oggi non rivestono più alcuna importanza – penso per esempio alle «regole» del cursus, che oggi vanno tradotte con una più libera ricerca di musicalità, di euritmia. In generale, il tono del Decameron risponde a una ricerca di medietas, e quindi mi sono proposto un obiettivo simile: quando non ho rispettato l’originale, l’ho fatto per avvicinarmi a una medietà stilistica quale la intendiamo oggi.
D’altro canto, sia nella cornice, sia nelle novelle, non mancano scarti verso l’alto o verso il basso – passi in stile sublime, ricchi di subordinate, soprattutto implicite, e di figure del suono e della dispositio che conferiscono alla pagina un tono più sostenuto; e altri in stile umile, in cui la sintassi procede molto più semplice, e il lessico, le metafore, il tono della pagina è opposto. Boccaccio è anche un autore a tratti frettoloso, che ricorre a ripetizioni ingiustificate e cade in anacoluti sicuramente non desiderati. Ho rispettato queste differenze di tono, senza rinunciare alle modulazioni di Boccaccio, ma nello stesso tempo senza scoraggiare chi legge; e non ho «corretto» le irregolarità dove mi sembrava che avessero un valore espressivo, mentre ho cercato una soluzione diversa negli altri casi.


Quali sono state, se ve ne sono state, le resistenze linguistiche che ha incontrato nel traghettare un’opera così radicalmente immersa nella vis comica, erotica e filosofica del Trecento verso le rive, spesso afone, del nostro lessico quotidiano?

L’espressione «lessico quotidiano» non è stata tra quelle che hanno guidato il mio lavoro. Io ho pensato piuttosto all’italiano letterario contemporaneo, che a me pare una lingua tutt’altro che povera o poco espressiva, al contrario, credo che sia uno strumento meravigliosamente duttile, capace di confrontarsi con tutte le sfumature dell’originale.
È vero tuttavia che i punti di maggiore resistenza, in cui ho dovuto concedermi qualche libertà, sono quelli in cui Boccaccio vuole ottenere effetti di comicità: il comico, come è noto, è time- e site-specific molto più del patetico o del tragico, e una traduzione troppo fedele rischia di suonare quasi come una «spiegazione», annullando l’effetto risata. Questi sono dunque i casi che hanno richiesto un tasso di invenzione maggiore da parte del traduttore: per esempio nella predica di frate Cipolla, o nei dialoghi tra il prete di Varlungo e monna Belcolore.


In che modo la sua riscrittura si pone nei confronti della lunga tradizione di «traduzioni» interne del Decameron, da Francesco Fiorentino ad Aldo Busi? È stata la sua un’operazione di affronto, di dialogo o di superamento?

Bisogna intendersi sul termine «traduzione». Quella di Busi, che tra l’altro ha ormai 35 anni, a me non sembra una traduzione, ma una libera riscrittura, perché non solo taglia una quota rilevantissima del testo (quasi tutta la cornice), ma fa ricorso a termini e riferimenti volutamente antistorici (da «Grande Raccordo Anulare» a «marketing»). Operazione legittima, sia chiaro, ma che rende quel testo un’opera diversa dall’originale: chi pensasse di aver letto il Decameron avendo tenuto tra le mani la versione di Aldo Busi sarebbe vittima di un inganno, come chi pensasse di leggere Omero e Virgilio tenendo tra le mani l’Iliade di Vincenzo Monti o l’Eneide di Annibal Caro – sono altra cosa.
Le vere traduzioni integrali (non antologiche) del Decameron sono state poche. Quella di Ettore Fabietti, a cui sono particolarmente affezionato, è del 1906: inevitabilmente «vecchia» all’orecchio di un lettore del XXI secolo. Le più recenti, per vari motivi, sono difficilmente reperibili. Il mio primo obiettivo è stato di fornire ai lettori e alle lettrici uno strumento utile; mi sono messo cioè a tradurre con lo stesso spirito con cui traduco per esempio i romanzi del premio Nobel tanzaniano Abdulrazak Gurnah: per garantire l’accesso all’opera a chi non può leggere il testo originale. Ben sapendo che tra il testo di partenza e il lettore di arrivo esiste una grande distanza, che nel caso di Boccaccio è legata al tempo, nel caso di Gurnah allo spazio, ma è sempre fondamentalmente una distanza culturale, «enciclopedica». È questo l’ostacolo che una traduzione deve tentare di superare.


Nel rendere attuale la voce boccacciana, ha privilegiato una strategia mimetica, volta cioè a ‘rendere invisibile’ il filtro del riscrittore, oppure ha assunto una postura autoriale dichiarata, quasi postmoderna, inserendosi nella tradizione della «scrittura riscritta»?

Rispondo con un esempio, assumendo ancora una volta il punto di vista del lettore. Se compro una traduzione di Moby Dick, non voglio una riscrittura, o una reinterpretazione d’autore, voglio uno strumento per conoscere l’opera di Melville, che non riesco ad affrontare nel testo originale. So di non avere davanti il testo di Melville (l’originale), ma il nuovo testo (la traduzione) mi consente di accedere alla stessa opera. Se viceversa compro un fumetto che racconta la storia di Moby Dick, o se guardo un film ispirato al romanzo di Melville, o se ancora mi viene fornita una versione semplificata dell’originale, per ragazzi, o per stranieri – in tutti questi casi so che non sto leggendo l’opera di Melville, ma qualcosa di diverso: la storia potrà anche essere la stessa, ma la voce, il ritmo, i particolari, lo stile, non sono quelli.
Naturalmente, nella prassi concreta, ogni traduzione è per sua natura, inevitabilmente, una interpretazione, cioè un’attività ermeneutica. La risposta va quindi completata: il lettore sente la mia voce, non è possibile che avvenga altrimenti, ma ho cercato, attraverso la mia voce, di far trasparire quella di Boccaccio, non di sovrappormi a lui.


La cornice decameroniana – con il suo raffinato gioco di specchi narrativi, la sua mise en abyme ante litteram – come si è tradotta, se si è tradotta, nel suo italiano contemporaneo? È rimasta intatta o è stata, per così dire, rifocalizzata per il lettore moderno?

Se ci riferiamo non solo al gioco di rimandi tra la cornice e le singole novelle, ma anche ai casi in cui, all’interno della novella, viene narrata una novella, direi che tutto è stato rigorosamente rispettato. E ho rispettato anche, nella misura in cui sono riuscito a farlo, il gioco delle citazioni (per esempio da Dante) e delle parodie (per esempio dalle prediche, dalle quaestiones scolastiche e così via).
Come tutti i grandi libri, il Decameron è molto stratificato e si può leggere quindi con diversi gradi di consapevolezza e di approfondimento; ma chi non coglie stratificazioni e rimandi non per questo deve sentirsi inadeguato rispetto al testo: Boccaccio prevedeva sicuramente letture diverse, da quella più ingenua a quella intellettualmente più consapevole, e lo si capisce da certe ripetizioni, da certe sottolineature, che sono veri e propri indizi, aiuti al lettore, diciamo così, per muoversi nel complesso universo narrativo del libro.


Ritiene che l’attualizzazione linguistica del Decameron comporti, inevitabilmente, una de-familiarizzazione o addirittura una desacralizzazione del testo? E se sì, è per lei una perdita, un’opportunità o una necessità pedagogica?

Vorrei rovesciare la domanda: traducendo Amleto o La tempesta (cosa che non ho mai fatto, ma immagino come imposterei il lavoro), inevitabilmente interviene un processo di attualizzazione – le versioni che tentano di ricorrere all’italiano seicentesco mi sembrano inefficaci, prima ancora che ridicole. Ma perché mai questo dovrebbe coincidere con una de-sacralizzazione? A meno che, naturalmente, non si faccia per partito preso una cosa del tutto diversa – ma anche in questo caso: io non mi scandalizzo se un regista mette in scena Amleto ambientandolo al giorno d’oggi, con costumi e linguaggio che nulla hanno a che vedere con Shakespeare (Pasolini l’ha fatto, proprio con il Decameron: il suo film è una continua e coerente presa di distanza dalla visione del mondo, dall’ideologia e dallo stile di Boccaccio). L’importante è che sia chiaro il senso dell’operazione: se ho visto a teatro l’Orlando furioso di Luca Ronconi non devo illudermi di aver letto il poema di Ludovico Ariosto.


In un’epoca in cui il rischio di ‘semplificare’ i classici è costante, come ha evitato che la riscrittura degenerasse in una mera operazione di addomesticamento del sublime a beneficio del ‘lettore pigro’?

A me pare che il rischio, nella nostra epoca, non sia tanto quello della semplificazione dei classici, quanto della loro scomparsa. Il Decameron viene studiato attraverso una presentazione, più o meno ampia e dettagliata, e una scelta antologica di novelle e di qualche pagina della cornice. Chi non fa il letterato di professione, o lo storico della letteratura e della cultura, non solo non legge tutto il Decameron, ma quasi mai sente il bisogno di riprendere in mano i testi conosciuti sui banchi si scuola. Perché? La mia risposta è: perché a scuola si impara a studiare i classici, non a leggerli.
Paradossalmente, il Decameron si legge di più all’estero, grazie alle traduzioni, che in Italia. Perché mai una traduzione in una qualsiasi lingua diversa dall’italiano dovrebbe costituire una semplificazione o un addomesticamento? A me pare che costituisca invece un’occasione utile (ripeto volutamente questo aggettivo) per il lettore non specialista. Non c’è bisogno di ribadire che lo studioso deve lavorare sull’originale. Ma studiare un’opera e leggerla sono operazioni molto diverse.
Aggiungo che chiunque di noi, non potendo conoscere tutte le lingue che sarebbe bello conoscere, ha il diritto di leggere le grandi opere in traduzione – e come avrei fatto, altrimenti, non sapendo né il giapponese, né il tedesco, né il persiano, né lo svedese, a conoscere Tanizaki e Goethe, Omar Khayyam e Astrid Lindgren, e le centinaia di autori e di opere che mi hanno suscitato pensieri meravigliosi ed emozioni profonde senza che io abbia potuto nemmeno gettare un occhio sui loro testi originali? Erano tutte semplificazioni? Non credo: quando mi è capitato di parlare di Raskol’nikov o di Faust con altre persone, che avevano letto altri testi, cioè altre traduzioni delle stesse opere, abbiamo scoperto di possedere un patrimonio comune che rendeva possibile la gioia della condivisione, lo scambio, il dialogo. Perfino su alcune questioni di stile, perché lo straniamento in Tolstoj, o le sinestesie in Baudelaire, si riconoscono in qualsiasi traduzione...


Quali novelle le hanno posto i dilemmi più vertiginosi, non tanto per la lingua quanto per la loro audacia tematica? E come ha deciso di restituirne il pathos o l’ironia in un italiano che non conosce più né la peste né l’onore, né i santi né i falò?

Questa è una domanda che mi piace molto, perché io credo che Boccaccio, come tutti grandi autori, ci inviti a essere radicali, nel senso proprio del termine: ci invita cioè ad andare alla radice dei problemi che solleva, a essere intellettualmente arditi. Questo vale sia per le novelle erotiche, sia per quelle di satira anticlericale, sia per quelle d’amore o di beffa. È l’opera nel suo complesso, quindi, a sembrarmi audace. Se devo indicare un esempio di radicalità quasi sconvolgente, scelgo la novella di Griselda, l’ultima del libro, che infatti è stata «addomesticata» quando Boccaccio era ancora in vita, dal suo amico Petrarca, il quale ne ha fornito una traduzione (oggi la definiremmo un rifacimento) che elimina le punte più inaccettabili della storia per darne un’interpretazione allegorica, in chiave religiosa.
La seconda parte della domanda chiama in causa il «doppio movimento» che, come spiega molto bene Schleiermacher, è alla base di ogni traduzione. Il traduttore da un lato avvicina il testo a chi legge, e quindi compie una «attualizzazione» (come si diceva sopra) dell’originale; ma dall’altro costringe chi legge ad avvicinarsi al testo (e quindi a inoltrarsi in un mondo altro dal suo, lontano nel tempo, nello spazio, nei riferimenti e così via. L’equilibrio è sempre difficile – ed è affidato a dettagli minimi, più che ai grandi temi della peste, della religione e simili: per esempio, come si indicavano le ore nel Trecento? Lascio «nona» e «vespro» (e quindi porto il lettore nell’epoca di Boccaccio) o traduco «le tre del pomeriggio» e «le sei» o «il tramonto» (e quindi porto il testo nel nostro tempo)? Non esiste una risposta univoca, nel caso delle ore ho tenuto le indicazioni medievali, nel caso dei luoghi ho attualizzato, senza esagerare (quindi «Garbo», che avrebbe richiesto una nota, è diventato «Marocco», anche se allora il Marocco non coincideva esattamente con quello di oggi).


Si potrebbe dire che la sua riscrittura si inscriva in una sorta di umile omaggio o, piuttosto, in una audace usurpazione del canone? Ovvero: sente di aver restituito Boccaccio al presente o di aver sottratto il presente alla sua povertà narrativa offrendogli Boccaccio come antidoto?

Mi permetto di osservare che la ricchezza o la povertà narrativa di un’epoca non si riescono a giudicare tanto bene standoci dentro, potranno giudicarle meglio i posteri, se ci saranno. E non so se il Decameron o qualunque grande classico del passato possa costituire un «antidoto» all’eventuale povertà di oggi. Mi riterrei contento se la mia traduzione permettesse a qualche lettore spaventato dall’originale di affrontare il Decameron; se rappresentasse cioè uno stimolo a riprendere in mano l’opera incontrata da studenti, nell’adolescenza, e a riscoprirne senza timori reverenziali e senza sguaiataggini la straordinaria ricchezza e la capacità di parlarci ancora, a distanza di quasi settecento anni.


Infine, in questa operazione di ‘traduzione intralinguistica’, quanto ha pesato la sua visione dell’educazione letteraria? Ha pensato ai lettori adolescenti, ai docenti, ai fruitori occasionali, o ha scritto, prima di tutto, per sé, come gesto di devoto furto d’autore?

Ho pensato senza dubbio ai giovani, perché negli ultimi quattro o cinque decenni, per una molteplicità di ragioni, si è verificato un cambiamento profondo nelle competenze linguistiche degli italiani, e testi che una persona di media cultura era in grado di leggere senza eccessive difficoltà quando io ero un ragazzo oggi presentano ostacoli insormontabili. C’è chi si strappa i capelli per questo, io penso invece che si tratti di un fenomeno da osservare con attenzione e da affrontare con delle proposte, non con dei rimpianti. Così come gli inglesi leggono Chaucer in traduzione, gli italiani leggeranno in traduzione Boccaccio? Altre mi sembra che siano le tragedie del nostro tempo.
Quando si imposta un lavoro così impegnativo, d’altro canto, deve intervenire una componente soggettiva, edonistica, se vogliamo chiamarla così: il desiderio di restare per parecchi mesi in compagnia di un libro amato, di instaurare un dialogo a distanza con un grande autore. Non di evadere però (questo vorrei che fosse chiaro) dalle tristezze e dalle brutture del mondo che vediamo intorno a noi. Al contrario: il Decameron, come tutti i grandi capolavori, semmai ci fornisce lenti per vedere meglio il mondo, per conoscerlo e per conoscerci meglio. Perché solo su questa conoscenza può fondarsi una speranza, per quanto tenue, di progresso e di miglioramento. Ecco perché ritengo la mia traduzione, prima di tutto, un’opera di impegno civile.



A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 5, maggio 2025, anno XV)