Ana Blandiana: «L’amore può esistere solo da pari a pari. Non si può amare in ginocchio»

Cristina Hermeziu intervista Ana Blandiana all’ombra della Torre Eiffel in un dialogo che spazia in lungo e in largo toccando temi dell’attualità e della sua poesia in occasione della pubblicazione della versione francese per le edizioni Black Herald Press di Patria mea A4 e dell’uscita del suo ultimo volume di liriche Variațiuni pe o temă dată (Humanitas 2018). L’originale romeno è accessibile sul sito del quotidiano «Adevarul», cliccando qui.


Ogni volta che Ana Blandiana arriva a Parigi, incontrarla è come una urgenza, qualcosa di naturale, come un rito benefico, ambito, unico. Molto spesso il suo arrivo è preceduto dai suoi libri, spediti per posta dagli editori, come il volume di poesie Ma patrie A4, tradotto in francese da Muriel Jollis-Dimitriu per le edizioni Black Herald Press.  Ho scritto qui delle sue «eresie d’amore».

La lettura intima di chi legge si fa ancor più intensa quando si ha il doppio privilegio di ascoltare delle confessioni o una messa a nudo del mondo dei nostri giorni, più malato che mai. Se è vero che stiamo vivendo gli ultimi sussulti della civiltà europea giunta al suo crepuscolo, dov’è la speranza, ho domandato ad Ana Blandiana, sedute in un caffè non lontano dalla Torre Eiffel, sul finire del 2018, e come può la poesia trasformare il distacco – quello definitivo fra tutti – di un amore senza fine? La risposta è nel suo ultimo volume di versi, Variațiuni pe o temă dată (Humanitas, 2018): una lunga poesia d’amore dedicata a Romi, un dialogo emozionante con Romulus Rusan che, diventato libro, trascende la letteratura per sublimarla.

Dopo l’incontro con Ana Blandiana, si ritorna alle sue poesie e si porta con sé come inestimabile segnalibro una eco inconfondibile: appassionata e discreta allo stesso tempo, la voce della poetessa è intensamente ilare e calda anche quando formula diagnosi allarmanti sul mondo in cui viviamo. L’ombra di una speranza, benefica, solare. Una possibile definizione della poesia.

Ana Blandiana, è contenta di essere a Parigi?

Per me esistono tante Parigi, a seconda del posto in cui ho vissuto o della circostanza che mi ci ha condotta. Alcune sono state delle grandi scoperte, o gioie, o sorprese, o hanno fatto sorgere in me alcuni interrogativi. Fra la Parigi del Maggio ’68 (dove ero stata invitata da Pierre Emanuel a leggere dei versi sul palcoscenico del teatro Odéon e dove avevo assistito all’assalto e alla devastazione dello stesso teatro da parte dei rivoluzionari) e la Parigi delle fiere del libro degli ultimi anni o la Parigi degli esami medici fatti in cliniche dei sobborghi in cui gli unici francesi erano i dottori, non c’è quasi più alcun legame. Però, per quanto mi riguarda, c’è comunque un punto in comune: ogni volta che vengo a Parigi, vado al Museo Cluny. Per me «La dama e l’unicorno» è molto più che arte, è qualcosa di magico. Innanzitutto perché non sappiamo bene che cosa sia «l’unicorno». Inoltre, fra «la dama» e «l’unicorno» è evidente che non c’è un nesso definibile in senso logico. E questa cosa è la migliore materia prima per la poesia. È l’opera d’arte più poetica che io conosca. Vado a rivederla non solo per l’ammirazione che ne ho, ma per un mio semplice interesse, è come immergermi in un mare di poesia nel quale posso nuotare molto tempo dopo.

È uscito di recente in traduzione francese il volume Patria mea A4, il cui titolo è in sé una professione di fede rispetto a un territorio intimo, quello della scrittura. È stato un sacrificio per Lei esporsi, negli ultimi trenta anni, sulla scena pubblica?               

Senza dubbio. Ma io sono un caso meno drammatico di quello di mio marito, Romulus Rusan. In primo luogo, credevamo che sarebbe durato poco, e penso che non ci saremmo fatti coinvolgere, se avessimo saputo che sarebbe durato alcuni decenni. Lavoravamo da mattina a sera – prima alla sede di Alleanza Civica, poi al Memoriale di Sighet – pensando che una volta finito, saremmo tornati a scrivere, ma ogni volta saltava fuori qualche imprevisto. Io ho continuato a scrivere, perché la poesia si può scrivere anche sulle proprie ginocchia, mentre la prosa no. Neppure io ho più scritto prosa fatta eccezione per Fals tratat de manipulare, che ho ripreso a scrivere solo dopo aver terminato il Memoriale. Solo che io non ero impegnata nelle ricerche storiografiche come mio marito, io sono stata una semplice spettatrice piena d’ammirazione. D’estate ci dedicavamo a scrivere. In settembre ritornavamo al Memoriale. Gli avevo proposto di rimanere a scrivere ma ha voluto ritornare e con mio grande stupore ha detto: «Vorrei che portassimo avanti insieme un ultimo progetto, trasformare in libri le centinaia di ore di registrazioni delle interviste con i contadini». Ed è stato fatto da un ragazzo straordinario, che nel frattempo è emigrato e di cui abbiamo perso le tracce. Romi era molto corretto, voleva rintracciare questo ragazzo per poter pubblicare i libri: il progetto ne ha previsti e pubblicati sei, ognuno dedicato a una provincia. Sono eccezionali. Ha portato a termine il progetto, eccetto per un solo volume che dovrebbe uscire adesso. Aveva subìto purtroppo un infarto e non ha più potuto ritornare alla scrittura vera e propria. Ho 70 quaderni che racchiudono i suoi diari, che non possono essere pubblicati tali e quali, perché contengono moltissimi nomi; il diario potrebbe semmai essere interessante fra qualche decina d’anni. Dai suoi quaderni scritti a mano spero di poter estrarre alcuni pensieri. Un lavoro molto deprimente, perché lui stesso era sempre depresso da quello che scriveva. La conclusione è che ci siamo spesi inutilmente, che ci siamo profusi in tante cose che neppure io ricordo più bene e per le quali all’epoca abbiamo sofferto come dei cani. È la nostra vita vissuta sempre insieme e donata sempre agli altri…

È come una minuta della storia della nostra transizione…

Sì. Ma io ho resistito meglio di lui.

La poesia, una questione di intensità…

La poesia l’ha aiutata?

Sì, perché non dipendeva da me. Non ci sono parole vuote, nessuna. Le confido qualcosa che in genere non dico, perché sembra qualcosa fra il mistico e il ridicolo. Trovo spesso nei miei manoscritti un certo errore che non mi so spiegare. Faccio confusione fra le consonanti labiali e non labiali, per cui al posto di «ponte» scrivo «bonte», al posto di «nemico», «memico», cosa che si può spiegare in modo logico solo come un difetto di udito.  Quindi devo accettare il fatto che qualcuno mi ha detto qualcosa che io non sentito bene. Capisce? Ma non posso spingermi ad affermare che ci sia del misticismo, come se ci fosse qualcuno che mi suggerisce i versi all’orecchio…

È come dire che è attraversata dalla poesia?

Sì, e ora ho scritto un libro d’amore per Romi. Non si tratta di un libro dedicato e indirizzato a. È un libro che non si è proposto come tale. Io mi ero proposta infatti di terminare Fals tratat de manipulare - seconda parte, che probabilmente avrà un altro titolo. E semplicemente, una volta sedutami per mettermi a scriverlo – stavo da sola con il mio gatto – d’un tratto ho cominciato a scrivere come se qualcun altro mi guidasse la mano sul foglio. Si tratta di Variațiuni pe o temă dată (Humanitas, 2018), che non assomiglia a nessuno degli altri miei libri. Ora ho la sensazione che sia il miglior libro che abbia mai scritto, ma forse non ho ragione, perché ho la sensazione che non sia un libro nato come atto interno alla letteratura, ma che si tratti piuttosto di un’esperienza spirituale.        

In che senso? Sono, in effetti, varianti colme di emozioni su un argomento specifico – «senza di te» –, versi di una grande semplicità, frammenti di ricordi che parlano di «un insieme» e di una grande assenza, qui e ora. Come una sorta di incarnazione, possibile solo attraverso la parola. La poesia diventa un luogo, una dimensione, un corpo per poter abbracciare l’altro? Un’idea che mi ritorna alla mente secondo cui, sulla scia del cristianesimo, delle scritture, del vangelo – quindi la scrittura, il verbo – è questo il suo significato concreto: la sostituzione del corpo venuto a mancare…

Da sempre credo che tra poesia ed esperienza esicastica ci siano molte somiglianze, perché non ho mai considerato la poesia come una questione di forma («Una ricerca e un’esperienza di linguaggio, un certo ordine delle parole», afferma Gaetan Picon), bensì di intensità, e la sua intensità poteva essere paragonabile solo con l’esperienza religiosa.
Nel caso di questo libro, l’intensità è andata oltre il dato consueto, e poiché l’argomento è la morte, la ricerca delle varianti per eluderla e la poesia sconfinano nell’assoluto, come accade nella fede. Ciò non significa che sia una poesia religiosa, ma una metafisica, nella quale l’amore viene trasportato al di là delle definizioni e delle barriere fisiche, in una zona (difficile dire se sia di tempo o di spazio) intensamente luminosa, incandescente, imponderabile. La cosa strana e ciò che conferisce a questa poesia un aspetto strano è che stilisticamente si tratta di una poesia post-moderna. Si pensi ai rimandi a H. G. Wells o ad Agatha Christie, usate come zavorre per evitare che la macchina volante sparisca in cielo. Un postmodernismo monouso.    

Perché si ha la sensazione, come lettori, che i versi d’amore di questo volume, nonostante parlino di un immane e incomprensibile (non-)distacco, contengano invece qualcosa di estremamente solare? Come nella splendida poesia di pagina 75: «Îmi va rămâne, zestre, durerea,/ Ca o junglă cu păsări și fiare/ Crescând din amintirile/ Pe care tu le-ai uitat.»

Quando ho terminato di scriverlo e ho scoperto che quello che avevo scritto erano poesie, ho avuto qualche reticenza a pubblicarle, avevo paura che – trattandosi di un dialogo con qualcuno che non era più in vita – sembrassero troppo tetre, macabre. Dopo averle consegnate alla casa editrice, sono stata felice che la mia prima reazione sia stata di scoprire la loro luminosità. E, in effetti, che cosa ci può essere di più luminoso che scoprire che la morte non esiste, che è di fatto proprio l’idea principale del libro.

«Mereu/ Am visat să fiu singură/ Pentru că întotdeauna/ Erau prea mulți oameni/ În jurul meu.» La solitudine annulla la poesia? La poesia è l’unica forma di solitudine tollerabile?

La poesia nasce nella solitudine, non può esistere al di fuori di essa. La solitudine è gravida di poesia. Certo, si può discutere se, dopo che l’ha partorita, la solitudine continua a essere legata alla poesia. Non la poesia, ma l’amore annulla la solitudine, e in questo senso può diventare – per quanto possa sembrare incredibile – un pericolo per la poesia, nella misura in cui non sia capace di inventare «una solitudine in cui possiamo starci entrambi».

Anche in Patria mea A4 sono ravvisabili sia il filone spirituale, sia un certo tono elegiaco… Sono eresie d’amore?

C’è anche una componente scismatica, in queste poesie, da cui nasce l’inquietudine che le governa. Io non so pregare perché non so né chiedere né lodare. In generale si prega o per chiedere qualcosa o per tributare lodi. Ma questa idea che tu, un semplice essere umano, tessi lodi a Dio mi imbarazza. Che bisogno a Lui delle tue lodi o adulazioni? Perché, in ogni epoca e in tutte le religioni, la preghiera è solo per tessere lodi, inni? L’amore può esistere solo da pari a pari. Non si può amare in ginocchio. Tuttavia lei ha ragione: sono eresie d’amore.

La cultura suicida dell’Europa

Tempo fa Lei ha affermato che il motore della storia è l’odio, nella poesia il motore è l’amore. Quasi sono oggi i nostri dei? A quali dei ci prostriamo oggi per portare avanti la Storia?

Se parliamo dell’Europa, è proprio questo il punto: non ci sono più dei. In Istoria ca viitor, un libro che raccoglie alcune mie conferenze, dicevo che nello scontro tra le civiltà è chiaro che chi vince è colui che crede nelle proprie verità. Non conta se siano buone, cattive, corrette, scorrette, si tratta solo del fatto che alcuni credono con fanatismo nelle loro idee, come gli islamici, contro alcuni che non credono più in nulla. È una dura critica nei confronti dell’Europa, ma formulata con la speranza che forse può essere convinta a tornare a rispettare la propria definizione. Quando, anni addietro, nel dibattito per la votazione della Costituzione europea, la frase «le radici cristiane dell’Europa» è stata respinta ai voti, gli europei hanno detto di non credere più nella loro propria definizione. È sufficiente entrare in un museo per rendersi conto che le radici cristiane sono una realtà. Una volta, a Londra, portavo al collo un piccolo crocefisso e aspettavo il mio turno per salire sul palcoscenico durante un festival di poesia. Un organizzatore mi si è rivolto dicendomi: «Le dispiacerebbe nascondere il crocefisso?: i non-cristiani potrebbero sentirsi offesi». Le donne che vanno in giro col chador non offendono i cristiani, ma un piccolo crocefisso è offensivo per loro? Mi sembra una follia.

Sembra una civiltà giunta al crepuscolo. C’è qualche speranza?

Non sarebbe la prima volta che nella storia scompare una civiltà su cui ne nasce un’altra. Il problema esiste in tutti i settori, non è solo culturale o politico, ed è in primo luogo demografico, gli europei hanno un indice di natalità di 1,2 figli, mentre presso gli islamici è di 8, e i sudamericani ne hanno uno ancor più elevato. Ho avuto una vera e propria rivelazione due anni fa. Mi trovavo a Guadalajara e una domenica avevamo il pomeriggio libero durante una fiera del libro. Sono andata a vedere, in centro, la piazza della cattedrale della città che ha una popolazione di 12 milioni di abitanti (Città del Messico ne ha 20). C’erano persone semplici che la domenica pomeriggio uscivano a passeggiare con la famiglia: marito, moglie e, incolonnati dietro, 4, 6, 8 figli, tenuti per mano due a due. Per un attimo ho avuto la rivelazione che appartenessero a una razza in via di estinzione. Vedevo qualcosa che non era possibile vedere in Europa. Ma stiamo scomparendo non solo dal punto di vista demografico, ma anche per non essere più attaccati ai nostri stessi valori, e non penso solo al cristianesimo, ma anche al fatto che non siamo più fieri di essere europei, artefici della cultura europea.

Ciò si può osservare agli inizi del XX sec., quando Picasso ha scoperto l’arte africana opponendola ai maestri europei. Anche Brâncuși è un non figurativo, ma lui non prende in prestito la modernità, la ricrea. E questa differenza si nota. Nel grande museo di Philadelphia, per esempio, si trovano i grandi nomi dell’arte moderna riuniti insieme e di colpo si ha la sensazione di entrare in una cattedrale dove si vede solo Brâncuși, esposto con una sorta di ammirazione quasi mistica. È evidente che le sue opere hanno un altro statuto rispetto alle altre. Perché? Perché mentre gli altri artisti erano estasiati dall’arte e dalle tradizioni altrui, lui scendeva fino alle proprie radici, lui aveva una profondità che gli altri non potevano avere, perché si muovevano in orizzontale, mentre lui scendeva in verticale, e ciò si sente.

Ma per ritornare al nostro discorso, ho avuto la rivelazione in che modo assurdo accadono le cose nel nostro mondo del pensiero democratico, a cui non possiamo rinunciare e che non siamo in grado di perfezionare. Con le migrazioni, per esempio, il problema non è che verranno e faranno molti più figli degli autoctoni europei, diventando la maggioranza, ma che vengono in base ai diritti dell’uomo e se gli autoctoni europei si estingueranno, spariranno anche i diritti dell’uomo, perché solo loro credono a essi. Per più di un secolo ci si è battuti per i diritti umani e ora si dimostra essere una forma quasi suicida di costruzione di un meccanismo in base al quale coloro che l’hanno edificato spariranno.

Se ci troviamo in un vicolo cieco, che ruolo può ancora svolgere la letteratura in questo mondo senza uscita?

Penso che la poesia potrà salvare ancora qualcosa. La frase di Dostojevskij, «La bellezza salverà il mondo», contiene in sé qualcosa di assurdo se ci si riflette, e se la poniamo accanto alla Seconda guerra mondiale, è totalmente assurda! Tuttavia c’è del vero in essa. In molti paesi ci sono straordinari festival di poesia. In Inghilterra, Spagna, Portogallo, Italia, Olanda, Svezia, Romania… In Slovenia, un paese grande quanto l’Oltenia, il festival più importante dell’anno è un festival di poesia, quello di Vilenica, un luogo che abbiamo imparato a conoscere da Sadoveanu o dai cronisti per i superbi cavalli di Lipica, un villaggio vicino a Vilenica. Sono cavalli che nascono col manto tutto nero, crescendo diventano prima bigi e poi, da adulti, si fanno candidi come la neve. Quando sono in branchi sembrano volare, vedendoli si entra in una forma di bellezza sconosciuta. I poeti del mondo vengono portati al luogo della cerimonia in un calesse con un tiro di sei cavalli lipizzani e la cerimonia, essendo questa una zona carsica, si svolge sotto terra, in una sala con stalattiti e stalagmiti illuminate con luci colorate, e prima di entrare, i poeti piantano un albero che porta il loro nome. Tutto è pensato come un grande spettacolo. Le nazioni più piccole, in special modo, sfruttano i festival di poesia come vetrine per farsi conoscere. La gente si è stancata di tanto consumo e da qui potrebbe esserci una rinascita. Non si può vivere all’infinito lavorando sempre di più per guadagnare sempre di più, per poi mangiare sempre di più e fare poi la dieta per dimagrire… Malraux diceva che il XXI secolo sarà religioso o non sarà. Penso che le persone o tornano a una forma di spiritualità oppure non saranno più umane. Forse è una visione ingenua, ma in tutta la mia vita ho cocciutamente coltivato una forma di ingenuità.

Da quanto ha raccontato sulla Slovenia, sembra che i poeti potrebbero diventare i nuovi sacerdoti di questo finale di civiltà…

Esatto, ha riassunto in modo molto bello.

Lei sente che la Romania sia attraversata da una vena poetica? Le dice qualcosa la poesia delle nuove generazioni?  

Alecsandri ha detto che i romeni sono nati poeti e da adulti ne sorridiamo come se si trattasse di una battuta infantile. Eppure c’è qualcosa fuori del comune nel fatto che – nelle condizioni in cui diventare poeti è quasi una forma di suicidio e nessuno può lontanamente pensare di poter campare scrivendo poesie – si pubblicano ininterrottamente libri di poesia di cui alcuni anche di buona qualità. Libri che i poeti pubblicano con i propri soldi, o con i soldi chiesti ai genitori o a uomini d’affari che sono riusciti a far impietosire. E sempre più numerosi sono i premi per la poesia, specie quelli conferiti per il debutto, c’è quindi in questo settore un’effervescenza che non ha basi logiche.   

È il miracolo dell’unicorno?

È il miracolo dell’unicorno.

En aparté

Qual è l’ultima poesia che ha scritto sulle ginocchia?

Sono stata a Chișinău, collaboriamo molto bene per il Memoriale con gli storici del posto. L’ultima volta che c’ero stata sono stati sette o otto anni fa, ora e ho avvertito una evidente decadenza nel senso cioè di una russificazione. Solo negli anni ’90 si sentiva parlare russo così tanto e ovunque. E l’hotel in cui stavo, di livello internazionale, aveva quindici canali tutti in lingua russa, compreso quello nazionale, che dovrebbe essere bilingue, e invece era solo in russo. Abbiamo passeggiato per il parco, era un autunno splendido, e tornata a casa ho scritto una lunga poesia, in qualche modo post-moderna, che è stata pubblicata in «Revista literară» di Chișinău. Non ha alcun legame con il mio modo di scrivere.

 

PARCUL DIN CHIŞINĂU

Pe aleile lui
ca roiuri de frunze trec anii,
şi printre statui
vântul îi toarce în jurul poeţilor de marmură sau de bronz.
Mai mult decât oamenii el ştie visa
în limba vechilor cazanii
şi o sută de ani nu i-au fost îndeajuns să uite ce-a fost.

Mai puţin străină decât în muzeul de istorie,
umblu prin iarba uscată
care scoate un zumzet abscons,
generaţiile frunzelor îmi urcă până la glezne
ca nişte cătuşe pe care le ştiu pe de rost.

Aici am stat şi am plâns uitările succesive
spălate-n amestecul toxic al sângelui de mai multe culori
şi peste mine-au trecut mulţimile ca nişte valuri
de multe, de nenumărate ori:
valuri de umbre sălbatece de invadatori,
valuri de umbre speriate de refugiaţi,
valuri de umbre zadarnice de eroi,
şi-n cele din urmă-n convoi
doar valuri de umbre de deportaţi.

Peste toate umbra statuii lui Stefan,
lunecând şi ea, pribegită în ţară,
adusă-napoi, alungată din nou, şi din nou revenind,
marmură hăituită şi aproape povară…

Încorsetat în statuie, sfinţenie şi cult,
Ştefane, Maria Ta,
Tu pe soclu nu mai sta, coboară!
Coboară în azi din demult,
fii Oaspetele de Piatră pedepsitor
care se-ntoarce din moarte în viitor!
Intră cu paşi de ciment
asurzitor
în clădirea Guvernului, în Parlament,
în televiziunile străine fără ruşine,
spulberă-le batjocura, manipulările, sfruntata minciună,
striveşte-i fără milă ca-ntr-un blestem împlinit,
înspăimântă-i, alungă-i, răzbună
crima fără sfârşit
şi umilinţa curgând din dispreţ
ca sângele dintr-o rană!

...Apoi ,dacă vrei,
poţi să te-ntorci pe alei
printre poeţi
fără prihană.

Lungo i suoi viali,
come sciami di foglie passano gli anni,
e fra le statue,
il vento li cinge attorno ai poeti di marmo o di bronzo.
Più degli uomini lui sa sognare
nella lingua di antiche omelie
e cent’anni non gli son bastati per dimenticare chi è stato.

Meno assorta che nel museo di storia,
cammino sull’erba secca
da cui sale un fremito enigmatico,
generazioni di foglie mi si inerpicano sulle caviglie
come catene apprese a memoria.

Qui sono stata e pianto ho in successivi oblii,
lavati nel tossico miscuglio di sangue dai molteplici colori
e sopra di me son passate le folle a ondate,
tante, innumerevoli volte:
ondate di spietate ombre d’invasori,
ondate d’impaurite ombre di esuli,
ondate di vane ombre di eroi,
e nelle ultime, dentro convogli,
solo ondate di ombre di deportati.

Su tutto della statua l’ombra di Stefano,
instabile pure essa, raminga in sua stessa terra,
riportata indietro, allontanata di nuovo,
e di nuovo ricondotta qui,
marmo braccato e diventato fardello …

Stretto in statua, santità e culto,
o Stefano, Altezza,
Abbandona Tu quel piedistallo, scendi!
Scendi dal passato nel nostro tempo,
sii spietato Convitato di Pietra
che torna al futuro dalla morte!
Entra coi tuoi passi di cemento,
assordanti,
nel palazzo del Governo,
nel Parlamento,
nelle televisioni straniere prive di vergogna,
spazza via la loro tracotanza, le manipolazioni, la sfacciata menzogna,
schiacciali senza pietà come maledizione esaudita,
terrorizzali, discacciali, vendica
gli infiniti crimini
e l’umiliazione stillante dal disprezzo
come sangue di piaga!

… Poi, se vuoi,
il tuo posto lungo i viali
rioccupare puoi
fra poeti
a coscienza paga.





Intervista realizzata da Cristina Hermeziu
A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 4, aprile 2019, anno IX)