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    Angelo Fàvaro: «Pasolini, un poeta veramente nostro contemporaneo» 
       
     
       Al centro di questa intervista, il volume Pier Paolo Pasolini. 6 domande a giovani poeti, a cura di Angelo Fàvaro, prefazione  di Giulio Ferroni, Delta3, collana Aeclanum, 2022. 
        Angelo Fàvaro è professore incaricato  di Letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Roma «Tor Vergata» e  insegna come docente a tempo indeterminato nei licei. Ha curato il numero unico  monografico, dedicato a Moravia oggi, della rivista internazionale di studi  «Mosaico». Ha curato inoltre il volume Alberto  Moravia e gli amici (Sinestesie, Avellino 2011), e i quattro volumi di atti  delle rispettive edizioni di convegni internazionali dedicati ad Alberto  Moravia e a La ciociara. Da ultimo Moravia, Pasolini e il conformismo (Sinestesie, Avellino 2018). Per il  volume Il contributo italiano alla storia  del pensiero - Letteratura (Istituto  dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2018) ha scritto il saggio su Alberto Moravia.  Si occupa e ha pubblicato lavori di letteratura teatrale, comparatistica  letteraria, studi inerenti alla mediterraneità europea. Ha studiato regia  teatrale e lavorato nel campo, anche scrivendo per le scene. Ha partecipato su  invito e partecipa a convegni internazionali. Ha studiato e ha pubblicato  contributi sull’opera di Dante, Foscolo, De Sanctis, Carducci, D’Annunzio,  Pirandello, Pasolini, Sanguineti, Tondelli, Luzi, Giudici. Per l’Edizione  Nazionale dell’Opera Omnia di Pirandello sta lavorando al volume sul mito  religioso Lazzaro. È membro dell’ADI, della SEI, fa parte del Comitato  Scientifico della Fondazione Ippolito e Stanislao Nievo, e della Fondazione  Carlo Gesualdo; è nel Comitato Scientifico della Rivista Internazionale di  Studi «Sinestesie». Suoi saggi compaiono nei due volumi pasoliniani a cura di  Maura Locantore: La sfinge nell’abisso (2021), Io lotto contro tutti (2022). È  membro del Comitato Scientifico Internazionale afferente al Comitato Nazionale  per il Centenario dalla nascita di Pier Paolo Pasolini del Ministero dei Beni e  delle Attività Culturali. 
         
         
        Pasolini: nome suggestivo. Pasolini, come ha asserito Ferroni, «buono  a tutti gli usi, sacramentale e terragno, infernale e divino»? La sua malìa  consiste nell’essere «carico di tutte le possibili tensioni umane, artistiche,  ideologiche, antropologiche, morali, politiche e oltre»? 
         
        Credo che non tanto Pasolini, in quanto  uomo e nella sua speciale umanità, ma la sua molteplice e multiforme Opera, fra  letteratura, critica, cinema, teatro, giornalismo polemico e molti altri generi  che si intrecciano e ibridano, sia «buona a tutti gli usi», ovvero sia e sia  stata nel tempo variamente usata, criticata, distorta, ripresa, abbandonata,  nuovamente esaltata e denigrata a seconda di tesi e necessità particolari.  Pasolini è autore prolifico e sempre preda di una vena sperimentale  inesauribile. La sua malia consiste in quella capacità, unica nel panorama  letterario e artistico italiano, di essere originale, nella propria peculiarità  e unicità, praticamente ineguagliabili e inimitabili, e rimanere inconsumabile,  nonostante tutto e tutti. 
         
         
        «Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore  della sconfitta». Per quale ragione, Professore, ha sostenuto che anche in questo  pensiero vada ricercato «il valore dell’eredità del Pasolini poeta»? 
         
        La sconfitta e non la vittoria è il valore per antonomasia in  un’epoca di superficiali e continui, insolubili conflitti. C’è un film nel  quale Totò, attore amato da Pasolini, pronuncia una battuta: «Oggi per far  colpo bisogna essere futili. Fatti futilizzare!». Il film è del 1949, ma  quell’esortazione sembra essere contemporanea, e soprattutto sembra contenere  tutto quanto contro cui Pasolini ha lottato nel corso della sua vita: il suo  imperativo era «non farti futilizzare». Non divenire qualcosa di futile, o per  dirla pasolinianamente: non ti trasformare in merce. In un momento nel quale i  giovani e giovanissimi vengono manipolati e ingannati dai media, che  intontiscono con sempre nuove strategie di «futilizzazione», ecco Pasolini  mostra il valore e dimostra con la sua stessa esistenza la forza della sconfitta,  dell’essere contro i valori-poteri dominanti, contro la mercificazione di  tutto, anche di ciò che dovrebbe essere sacro, puro, non mercificabile. La  sconfitta è esattamente il contrario della vittoria a tutti i costi. La  vittoria è nel denaro e nella possibilità di acquistare facilmente oggetti dei  brand più costosi. Oggi, credo, abbiamo veramente bisogno di resilienza e di  capacità di accogliere la sconfitta come monito alla felicità e alla verità. La  lettura dei testi in poesia di Pasolini è un’esperienza, un esercizio  spirituale, una prova di intelligenza e di cuore: chi ha scoperto, come me a 16  anni, le poesie delle sillogi Poesia in  forma di rosa o Transumar e  organizzar ha cambiato il punto di vista sul mondo, sulla vita, sull’amore.  La poesia di Pasolini consente di cambiare prospettiva su noi stessi e scoprire  la sconfitta come valore. 
         
         
        Michele Bordoni, Simone Burratti, Riccardo Canaletti, Mariapia Crisafulli, Riccardo Delfino, Claudia Di  Palma, Giorgio Ghiotti, Federica Gullotta, Gianluca Michelli, Antonio Francesco  Perozzi, Antonio Perrone, Sacha Piersanti, Eleonora Rimolo, Mara Sabia, Daniele  Sannipoli, Mattia Tarantino, Rudy Toffanetti, Sonia Ziccardi.: «giovani poeti». Qual è il lascito  pasoliniano che li accomuna? 
         
        I 18 poeti selezionati per il volume hanno consentito, grazie alle  risposte alle domande, di comprendere innanzitutto la complessità e la varietà  degli approcci di lettura e di interpretazione dell’Opera pasoliniana. In tale  direzione è evidente ciò che differenzia l’esperienza con il testo e con la  creatività di Pasolini: ognuno di loro, come in un puzzle di molti pezzi e  molto variopinto, ha posto esattamente nell’esatta collocazione una tessera.  Lascio a critici ma anche ai lettori comuni la possibilità di disegnare un  itinerario di coincidenze e di elementi comuni. A me preme, invece, evidenziare  che i 18 poeti hanno tutti segnato un elemento peculiare del cosmo pasoliniano,  esibendo, fra l’altro la sua intelligenza costante, anche nel contraddirsi. Nel  costruire un’estetica e un’etica della contraddizione. 
         
         
        La poesia di Pasolini è al contempo avvilita accusa e mesta malinconia; è l’effige di  una realtà che instancabilmente cambia, peggiorando. Ritiene corretto che sia stata  l’ultima prova di poesia civile italiana? 
         
        Forse non proprio l’ultima, come alcuni dei poeti coinvolti nel volume  dimostrano, penso per citarne solo due a Eleonora Rimolo e ad Antonio Francesco  Perozzi. 
        È poesia civile quella di Pasolini perché poesia di civiltà: tanto della  civiltà occidentale quanto della tradizione millenaria dell’Occidente  greco-latino, cristiano e medievale, razionale e illuminista, poi marxiano,  infine gramsciano. La poesia di Pier Paolo Pasolini quanto più è espressione di  sé, del proprio e singolare male di vivere, sentimento di uno stare al mondo  essendo innamorato della realtà al punto di morire per quest’amore, tanto più  espone e si espone a divenire poesia civile. Si accolga così come lo formulo il  paradosso e lo si metta alla prova della scoperta dei testi in poesia di  Pasolini. 
        Mi tornano alla mente i celeberrimi  versi su Roma, emblema dell’odi et amo,  che Pasolini dedica all’urbe, dopo essere stato accolto, in fuga da Casarsa per  i fatti di Ramuscello, dalle Ceneri di  Gramsci: 
        «Stupenda e misera  città, /che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci /gli uomini imparano  bambini,le piccole cose in  cui la grandezza /della vita in pace si scopre, come /andare duri e pronti  nella ressadelle strade,  rivolgersi a un altro uomo /senza tremare, non vergognarsi /di guardare il  denaro contatocon pigre dita dal  fattorino /che suda contro le facciate in corsa /in un colore eterno d’estate;a difendermi, a offendere, ad avere /il mondo  davanti agli occhi e non /soltanto in cuore, a capireche pochi conoscono le passioni /in cui io  sono vissuto: /che non mi sono fraterni, eppure sonofratelli proprio nell’avere /passioni di  uomini /che allegri, inconsci, interivivono di esperienze /ignote a me. Stupenda e  misera /città che mi hai fatto fareesperienza di quella vita /ignota: fino a  farmi scoprire /ciò che, in ognuno, era il mondo». 
         
         
        Professore, Pasolini è stato scrittore, regista, sceneggiatore,  attore e drammaturgo. Si riesce a scorgere un tratto comune tra i differenti  linguaggi adottati? 
         
        Sono molti i tratti comuni, in primis la categoria del poetico.  Pasolini è poetico sempre, qualsivoglia opera tenti di creare: essere poetico  sempre significa dimostrare la propria fragilità, la paura, la solitudine, gli  amori e i fastidi, soprattutto, lo ripeto, un vero e proprio incantamento per  la realtà, non così come brutalmente appare, ma come il Poeta delle Ceneri la  percepisce, la sente, filtrata da una passione incontenibile e da un’ideologia  così personale, da non poter essere esportata o utilizzata direttamente in  alcun ambito, né politico, né sociale, certamente non in poesia o in arte, da  nessun altro. In secundis, il  desiderio di erotizzare l’esistenza, in qualsivoglia manifestazione o forma di  scrittura. Erotizzare l’esistenza significa provare fino in fondo l’esuberanza  dei sensi nel dono di sé, fino alla consunzione, alla morte. Una condizione  interata senza sosta, senza reticenze o timori, senza falsi pudori, che si  estenua in una autoesposizione senza protezione o scudo. Tutto diventa  problematico e difficilmente contenibile, afferrabile, definibile quando i  corpi e il corpo entrano nel conflitto dell’erotizzazione col potere,  necessario rivedere le sequenze filmiche di Salò  o le cento giornate di Sodoma. L’erotizzazione della realtà è il tentativo  di far divenire nella realtà quotidiana, in ogni manifestazione della realtà,  il corpo fisico, i corpi nella loro fisicità, una prova della metafisica. Oltre  ogni giudizio morale o speculazione intellettuale.  
        «Nello  sviluppo del mio individuo, della diversità, sono stato precocissimo; e non mi  è successo, come a Gide, di gridare d’un tratto ‘Sono diverso dagli altri’ con  angoscia inaspettata; io l’ho sempre saputo» così Pasolini. 
         
         
        Mediante le raffigurazioni del  femminile, Pasolini accusa i processi di corruzione, lo svuotamento di valori,  contestando altresì l’ideologia dominante. I personaggi femminili, pensando a  Bruna e Biancofiore, vanno intesi in rapporto di ‘alterità’ e non di  ‘alternativa’? 
         
        Pier Paolo Pasolini elabora una  figurazione del femminile che dai romanzi procede nel cinema: la donna nella  scrittura e nel cinema diventa emblema di contestazione e ricusazione della  società dei consumi, della corruzione politica, del dominio del potere. In  particolare, a mio avviso, è nella barbarie incompresa e incompresiva,  incomprensibile di Medea che si possono cogliere fusi insieme questi elementi.  Certamente Bruna e Biancofiore, in Mamma  Roma, insieme alla protagonista stessa della novella-pellicola, avvalorano  un dissenso fortissimo nei confronti di una società che rinuncia a una cultura  ‘pura’ e fondata sulla sincerità delle borgate, per un riscatto impossibile.  Mamma Roma è interpretata da Anna Magnani che incarna la romanità proletaria,  nel film, è una prostituta che vuole salvare il figlio, sottraendolo al  passato, con una fiducia incrollabile in un futuro che emancipi madre e figlio  dalla loro bassa condizione sociale. Ma quasi verghianamente, quando ci si  stacca dallo scoglio, ecco la rovina! Ettore e Mamma Roma vanno a vivere in un  nuovo quartiere, la donna lavora come piccola imprenditrice in un banco al  mercato, il figlio come cameriere. Bruna e Biancofiore invece continuano a fare  le prostitute: la prima svia Ettore, che si innamora di lei, riconducendolo ad  un mondo perduto, l’altra viene chiamata dalla madre del ragazzo affinché  attraverso il sesso possa far dimenticare Bruna. Entrambe le donne sono  funzionali, nel film, a dimostrare come non vi sia alternativa, rispetto alla  loro condizione, e che l’alterità alla quale aspira Mamma Roma non si raggiunge  che a prezzo di tutto un passato, di un tutto un essere stato, dal quale non è  semplice liberarsi. La scalata sociale verso la borghesia si rivela ingannevole  e impossibile, nonostante l’appartamento e la motocicletta acquistati per  Ettore. Non c’è scampo al passato, che a proprio modo ritorna a funestare le  vite di Ettore e di Mamma Roma.  
        C’è un’altra donna che ritengo debba  essere segnalata: Maria sotto la croce di Gesù ormai prossimo a morte, nel Vangelo secondo Matteo: è la complessità  del femminile come dono, come sostegno, come maternità, ma soprattutto come  sacrificio. Giova rimembrare che Pier Paolo fece interpretare la parte alla  madre, Susanna Colussi, e prima di girare le sequenze, con la donna ai piedi  della croce, le chiese di ripensare alla morte del giovane Guido, il figlio,  fratello di Pier Paolo, morto lottando nella Resistenza. 
         
         
        Pier Paolo Pasolini  giunge a Roma con sua madre il 28 gennaio 1950. Hanno dovuto lasciare la loro  casa di Casarsa, è un periodo di profonda miseria, ciononostante Pasolini  s’innamora perdutamente della città: «Roma è divina» sostiene. Quanto  il sottoproletariato che vive in miseri sobborghi, le borgate hanno contribuito  a definire l’uomo, i suoi incontri entusiastici, il suo disincanto politico, i  suoi amori, il suo radicalismo, i suoi attimi di avaria e di fuga? 
         
        Roma per Pasolini è al contempo la scoperta di un infernale  spazio di frustrazione sociale, laboratorio di osservazione linguistica e  culturale del sottoproletariato suburbano, dove si colgono le differenze  brutali, la violenza bestiale, una miseria dolorosa e inaccettabile; ma anche  un paradiso di possibilità: è nella capitale che incontra e diviene amico di  Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Giuseppe Ungaretti, Alberto Moravia, Elsa  Morante, Amelia Rosselli, Federico Fellini, e molti altri poeti, intellettuali,  registi. Tuttavia, se dovessimo individuare almeno un elemento nodale di questo  rapporto fra Pasolini e Roma, andremmo a scavare in alcuni versi di Le  ceneri di Gramsci, specificatamente nel poemetto omonimo: si tratta di sei  lasse, o stanze, dove si apprende e si constata la scoperta e l’innamoramento  del Poeta per i giovani rappresentanti del proletariato delle borgate. Pasolini  scruta, apprende, comprende, assorbe, in un eros incantato e che incatena, i  ragazzi che gioiosamente tornano dal lavoro. Leggiamo insieme: 
         
        […]  verso il monte che cela in mezzo a sterri/ fradici e mucchi secchi  d'immondizia/ nell'ombra, rintanate zoccolette// che aspettano irose sopra la  sporcizia/ afrodisiaca: e, non lontano, tra casette/ abusive ai margini del  monte, o in mezzo// a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi/ leggeri come stracci  giocano alla brezza/ non più fredda, primaverile; ardenti// di sventatezza  giovanile la romanesca/ loro sera di maggio scuri adolescenti/ fischiano pei  marciapiedi, nella festa// vespertina; e scrosciano le saracinesche/ dei  garages di schianto, gioiosamente,/ se il buio ha resa serena la sera,// e in  mezzo ai platani di Piazza Testaccio/ il vento che cade in tremiti di bufera,/  è ben dolce, benché radendo i capellacci// e i tufi del Macello, vi si imbeva/  di sangue marcio, e per ogni dove/ agiti rifiuti e odore di miseria.// È un  brusio la vita, e questi persi/ in essa, la perdono serenamente,/ se il cuore  ne hanno pieno: a godersi/ eccoli, miseri, la sera: e potente/ in essi, inermi,  per essi, il mito/ rinasce... Ma io, con il cuore cosciente// di chi soltanto  nella storia ha vita,/ potrò mai più con pura passione operare,/ se so che la  nostra storia è finita? (1954) 
         
         
        Scompare, finisce una parte della  storia, e inizia una nuova fase: Pasolini rimane affezionato ai quartieri  operai, al mondo violento e puro dei Ragazzi  di vita; non accetta questa fine, non ammette che quel mondo venga divorato  e annientato dalla società dei consumi, dal conformismo omologante.  
        Possiamo certamente affermare che l’esperienza linguistica,  esistenziale e artistica che Pasolini effettua nelle borgate contribuisce a una  consapevolezza dei processi di accelerazione dell’omologazione, della fine di  un mondo, del rapido affermarsi di una società violenta, avida, che tende a  disumanizzarsi. Da questa acquisizione di dati di realtà derivano sia il  disincanto politico, sia il radicalismo, ma mai la fuga o la stasi. Fino alla  fine, come testimoniano Petrolio e il film Salò, Pasolini lotta e  dichiara il suo dissenso. Pasolini si contrappone, divenendo un antesignano, un  uomo capace di avvertire prima, di preconizzare temi e problemi che ci si trova  ad affrontare, oggi, nella contemporaneità. 
         
         
        Montale sosteneva pressappoco  che, probabilmente, per molti anni la poesia avrebbe taciuto e che si sarebbe  scritto prosa. Come  considera inserita nel Novecento la poesia di Pasolini? 
         
        La  produzione poetica di Pasolini non è di semplice lettura, nonostante la deriva prosastica  di alcuni testi. È una poesia «verbosa», dove all’amore per la realtà si  coniuga un lirismo quasi innato. Uno sguardo sul mondo, quello dell’uomo-poeta  Pasolini, che appare sovente strabico: innamorato e spaventato, critico e  ammaliato, colmo di meraviglia e di orrore, critico e sedotto. Rimane,  tuttavia, una poesia irrinunciabile, potente, sia negli scorci lirici, sia nei  versi civili. Un poeta veramente nostro contemporaneo, perché della  contemporaneità è in grado di restituire la complessità, l’impossibilità  riduzionistica e di semplificazione, i paradossi, ma soprattutto è capace di  insegnare la contraddizione come strumento ermeneutico e più ancora come  valore.  
        Vorrei  congedarmi, ringraziando sia chi ha formulato le domande per l’intervista, sia  i lettori, che auspico ne abbiano tratto un qualche giovamento (divertimento?),  con una poesia nota, e che amo molto (la rileggo da quanto a 16 anni scoprii le  raccolte poetiche di Pasolini): 
      
      
 Bisogna  essere molto forti 
        per amare la solitudine; bisogna avere buone  gambe 
        e una resistenza fuori dal comune; non si deve  rischiare 
        raffreddore, influenza e mal di gola; non si  devono temere 
        rapinatori o assassini; se tocca camminare 
        per tutto il pomeriggio o magari per tutta la  sera 
        bisogna saperlo fare senza accorgersene; da  sedersi non c’è; 
        specie d’inverno; col vento che tira sull’erba  bagnata, 
        e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi; 
        non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è  dubbio, 
        oltre a quello di avere davanti tutto un giorno  e una notte 
        senza doveri o limiti di qualsiasi genere. 
        Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli  incontri 
        – e anche d’inverno, per le strade abbandonate  al vento, 
        tra le distese d’immondizia contro i palazzi  lontani, 
        essi sono molti – non sono che momenti della  solitudine; 
        più caldo e vivo è il corpo gentile 
        che unge di seme e se ne va, 
        più freddo e mortale è intorno il diletto  deserto; 
        è esso che riempie di gioia, come un vento  miracoloso, 
        non il sorriso innocente, o la torbida  prepotenza 
        di chi poi se ne va; egli si porta dietro una  giovinezza 
        enormemente giovane; e in questo è disumano, 
        perché non lascia tracce, o meglio, lascia solo  una traccia 
        che è sempre la stessa in tutte le stagioni. 
        Un ragazzo ai suoi primi amori 
        altro non è che la fecondità del mondo. 
        E il mondo così arriva con lui; appare e  scompare, 
        come una forma che muta. Restano intatte tutte  le cose, 
        e tu potrai percorrere mezza città, non lo  ritroverai più; 
        l’atto è compiuto, la sua ripetizione è un rito.  Dunque 
        la solitudine è ancora più grande se una folla  intera 
        attende il suo turno: cresce infatti il numero  delle sparizioni – 
        l’andarsene è fuggire – e il seguente incombe  sul presente 
        come un dovere, un sacrificio da compiere alla  voglia di morte. 
        Invecchiando, però, la stanchezza comincia a  farsi sentire, 
        specie nel momento in cui è appena passata l’ora  di cena, 
        e per te non è mutato niente: allora per un  soffio non urli o piangi; 
        e ciò sarebbe enorme se non fosse appunto solo  stanchezza, 
        e forse un po’ di fame. Enorme, perché vorrebbe  dire 
        che il tuo desiderio di solitudine non potrebbe  essere più soddisfatto 
        e allora cosa ti aspetta, se ciò che non è  considerato solitudine 
        è la solitudine vera, quella che non puoi  accettare? 
        Non c’é cena o pranzo o soddisfazione del mondo, 
        che valga una camminata senza fine per le strade  povere 
        dove bisogna essere disgraziati e forti,  fratelli dei cani.  
      (P. P. Pasolini, Trasumanar e  organizzar – 1971)
        
         
         
        
         
           
         
 
           
           
          A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone 
          (n. 12,  dicembre 2022, anno XII)        | 
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