Da Rosmunda a John Keats. In dialogo con l’autrice teatrale Benedetta Carrara

Con la giovane autrice teatrale Benedetta Carrara parliamo dei personaggi che animano la sua scrittura: Rosmunda, regina dei Longobardi, che fa parte del patrimonio culturale dell’Italia (e non solo) fin dal Medioevo, a partire dalla canzone popolare Donna Lombarda fino alle numerose riletture della sua vicenda, soprattutto in ambito teatrale. C’è poi il poeta John Keats (Londra, 31 ottobre 1795 – Roma, 23 febbraio 1821), un giovanotto inglese, scomparso ormai 200 anni fa, che ha scritto versi che ancora oggi riescono a toccare la nostra anima. Una cosa bella (Divergenze, 2020) è un testo teatrale che parla di abbracci sospirati e mai raggiunti fra il poeta John Keats e la sua musa, Fanny Brawne. Tocca all’amico Joseph Severn il compito di spezzare il gioco delle illusioni spinte ai confini di un risveglio non voluto, che tiene conto della distanza fra le parti ma non intacca la bellezza di un amore già amato da tanti, un tributo di incanto e delicatezza.
Questi e molti altri temi nell’intervista a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone.


Paolo Diacono e l’Historia Langobardorum, Machiavelli e le Istorie Fiorentine: a 1450 anni dalla morte di Rosmunda lei ne delinea il ritratto: qual è l’interesse attuale verso la regina dei Longobardi?

La storia di Rosmunda è radicata in un preciso contesto storico e sociale, cioè l’alto medioevo e la società longobarda. Ma è la storia di un essere umano, in particolare di una donna: questo la rende universale. Perché se è vero che la sua vicenda non può prescindere dai dati storici, è altrettanto vero che l’animo umano si mantiene costante. È quindi possibile leggere, nella storia di Rosmunda, la storia di migliaia e migliaia di donne del passato, del presente e del futuro.
Il passato è vivo, lo possiamo interrogare, possiamo scavare in esso per trovare domande – non risposte, perché quelle variano in continuazione, e forse non è nemmeno compito del teatro andarle a cercare – e in quelle domande trovare spunti di dialogo e di conflitto. Rosmunda è giovane, destinata a ricoprire un ruolo, quello di regina, che dovrebbe tenerla al sicuro. Ma la sicurezza tanto desiderata continua a sfuggirle, e la sua inesperienza e immaturità la spingono a prendere scelte avventate, i cui esiti sfuggono al suo controllo. Quante donne, oggi, si sentono minacciate? Quante soffrono sotto il giogo del patriarcato? Quante oscillano tra il sogno di un cambiamento e il pensiero che forse è meglio lasciar correre, restare in un male noto per paura di quello che potrebbe essere? Per questo reputo la storia di Rosmunda attuale, per questo credo fermamente che essa debba essere portata in scena. È una storia nota, certo, ma proprio per questo è necessario guardarla da un altro punto di vista: leggerla e interpretarla come artiste e come donne. E ho avuto la fortuna di imbattermi in due attrici, Alex Cimafonte e Giulia Montessoro, che hanno voluto rivivere questa storia con me, oltre che di trovare un teatro, Spazio Centrale (SO), che ha creduto in noi.


«In quanto poeta, era una creatura impoetica, un camaleonte capace di mettersi in dubbio, di abbandonarsi al mistero e alla confusione intellettuale per riuscire ad afferrare una visione di Bellezza artistica».
Lei ha raccontato John Keats. Quali sono gli elementi che lo rendono «un classico»?

Per Calvino, un classico è un testo che non finisce mai di dire quel che ha da dire. Io porto più in là questa osservazione: un essere umano è un classico, perché la sua storia non esaurisce mai di dire qualcosa. Certo, la morte lo rende più facilmente conoscibile, operando un montaggio della sua vita, dando a essa un inizio e una fine. Ma ridurre a un montaggio i moti dell’animo di una persona è praticamente impossibile, soprattutto quando l’animo in questione è complesso come quello di Keats.
Perché, dunque, portare in scena Keats? Per le sue poesie, certo. Anche per le sue lettere. Ma soprattutto per la sua umanità, che è ciò che davvero lo rende immortale. Quando ho scritto Una cosa bella infatti ho strappato versi e frasi da diversi suoi scritti: parole cesellate incastonate in composizioni calibrate. Dietro a ogni parola, anzi, quasi dietro a ogni sillaba si apre un mondo. Le paure di Keats – essere dimenticato, non avere fatto abbastanza, non avere il tempo per vivere appieno l’amore per Fanny – parlano ai giovani di oggi. Durante la preparazione dello spettacolo, io e i ragazzi di Matrice Teatro abbiamo preso il testo, lo abbiamo interrogato, e ne abbiamo cavato fuori delle domande; le abbiamo poste ad alcune delle persone che frequentavano il teatro in cui stavamo lavorando in quel periodo, a San Giovanni Lupatoto (VR). Era la primavera del 2021, e noi ci eravamo riparati in teatro mentre il resto d’Italia oscillava tra le zone arancioni e rosse. Eppure davanti a questo isolamento forzato noi abbiamo voluto cercare il rapporto con l’esterno, lo abbiamo desiderato. E quando abbiamo potuto organizzare le interviste, giovani e anziani hanno risposto alle nostre domande in base alla loro sensibilità. Ci hanno raccontato cos’è, per loro, «una cosa bella», ci hanno parlato delle loro paure, delle loro fragilità, ma anche di ciò che li riempie di gioia. Devo ammettere che è stato in quel momento che il mio interesse storico e filologico, prima preponderante nella mia scrittura, ha iniziato a mostrare delle crepe, in cui pian piano si è insinuato l’interesse per il dialogo con l’umanità presente ed eterna.


In un tempo politico, sociale ed economico che grida l’impellente bisogno di tessere un dialogo con sé stessi, la conflittualità interiore può essere lenita dal Teatro?

Bisogna, a mio parere, distinguere tra due modi di intendere il Teatro: uno che tende all’individuo, e uno che tende alla collettività. Se la pratica teatrale tende all’individuo, al dialogo con la sua interiorità in un’ottica di autopenetrazione, allora ovviamente il Teatro può favorire la conoscenza della conflittualità interiore, e certo può arrivare a lenirla. Ma non a risolverla. Anzi, il solo contatto con la propria interiorità rischia di portare a uno scollamento dalla realtà esterna, che è invece necessario al mantenimento dell’equilibrio personale (e anche professionale).
Credo infatti che sia il secondo modo di intendere il Teatro – ovvero quello che tende alla collettività, si occupa di essa e la pone al centro della propria riflessione – a offrire un vero contatto con sé e con gli altri. Il Teatro, sia da artista sia da spettatore, è un’esperienza collettiva: gli artisti collaborano alla realizzazione di uno spettacolo insieme, unendo le loro sensibilità e armonizzandole; gli spettatori assistono a questa rappresentazione, e nel farlo concorrono al risultato finale. È, in sostanza, un rituale laico. Gli attori sono gli officianti, il pubblico i fedeli. Se cade una delle due componenti, l’altra vacilla, fino a cessare di avere senso Ridurre il compito del Teatro al rapporto con l’io, al tentativo di risolvere la conflittualità interiore sarebbe limitante, e soprattutto non risponderebbe alla vera necessità della società contemporanea: non il dialogo con sé stessi, ma un rinnovato dialogo con la comunità. Non un ripiegamento sulla propria persona, ma un’apertura sincera e disinteressata agli altri. Perché certo, oggi è facile perdersi nel continuo fluire degli eventi, ma siamo animali sociali, animali politici, e solo nel rinsaldamento del nostro rapporto con gli altri possiamo arrivare a ricostruire quello con noi stessi. Questo è, con tutta la cautela del caso, la mia opinione. E questo è ciò che mi spinge a fare Teatro.


La sua attività professionale, senz’altro, la conduce a incontrare un cospicuo numero di persone quotidianamente: qual è il ruolo dell’immaginazione nel percepire chi è ignoto e vestirlo di realtà?

L’immaginazione è uno degli strumenti più potenti del mondo. Essa prende la realtà, ne coglie le potenzialità e la trasforma in qualcosa di diverso. Devo ammettere di non essermi mai soffermata a definire quanto l’immaginazione concorra nella mia percezione della quotidianità. Forse perché non amo solo raccontare storie, ma anche ascoltarle. Non servono le parole, il più delle volte: le persone si raccontano in tutto quello che fanno, nei loro gesti, i tic, il portamento, persino nei vestiti. Le si osserva, e già si intuisce molto delle loro storie. Forse è qui che interviene l’immaginazione, nel mettere insieme i frammenti per cercare di avere un quadro. O forse l’immagine del quadro non rende giustizia a questa operazione, e sarebbe più corretto parlare di un mosaico: tante tessere di vari colori e materiali affiancate le une alle altre, e poi saldate con la malta. Ecco, mi piace conservare questi mosaici, e calarli poi nelle storie che tesso nella mia mente. A volte li modifico, altre volte li uso solo come fonte di ispirazione. In questo, nel loro essere mosaici di complessità, persone e personaggi si somigliano molto.


La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?

La mia infanzia e adolescenza sono state fortemente influenzate da scrittrici che hanno rivoluzionato il panorama editoriale. Tra i primi libri che ho letto, ad esempio, c’è Harry Potter, figlio della penna di J.K. Rowling; una saga che ha avuto un grandissimo successo economico, creando un franchise tutt’ora molto popolare, e da cui sono nate migliaia di altre storie con ambientazione e trama simili. Nell’adolescenza, poi, ho consumato le pagine di Twilight, scritto da Stephenie Meyer, e di Hunger Games di Suzanne Collins. Entrambe queste autrici hanno cambiato il panorama della letteratura young-adult degli anni a loro immediatamente successivi, tanto che per anni si sono visti in libreria romanzi rosa popolati da vampiri e licantropi e giovani donne che cercano di sopravvivere in mondi distopici e oppressivi. Certo, ci sono state rivoluzioni letterarie più importanti, ma sarebbe sciocco non citare questi casi, che sono stati colonne portanti della cultura pop giovanile, e sono stati per molti via di accesso alla lettura in generale.                                                                                                                         
Anche restando nel solco della tradizione le donne danno prova del loro talento letterario. Basti pensare a Donna Tartt: pubblicato un libro ogni dieci anni, riconfermandosi sempre un successo di critica e di vendite, e confermandosi tale nel lungo periodo (Dio di illusioni, edito nel 1992, è addirittura diventato uno dei romanzi più discussi del bookstagram, ossia l'insieme delle pagine Instagram dedicate ai libri). Mi sembra inoltre doveroso parlare di Sally Rooney: classe 1991, ha esordito nel 2017 con il romanzo Conversations with friends, per poi pubblicare, l’anno dopo, Normal people. Descrivendo le difficoltà degli anni tra l’adolescenza e l’età adulta, rappresentando relazioni complicate ma non melodrammatiche, ha fatto breccia nel cuore delle persone, tanto da essere definita «la voce dei millennials».


Le scrittrici sono e sono state sensibili a diverse ideologie, visioni del mondo, sensibilità politiche e filosofiche; personalità diverse tra loro e spesso assolutamente inconciliabili. Riesce a scorgere un fil rouge che annoda le plurime e molteplici anime della letteratura declinata al femminile?

La più grande qualità della letteratura femminile credo sia la sensibilità delle donne. Crescendo, le donne si sentono spesso ripetere che sono esseri più emotivi, inclini all’accudimento e fragili. Sono luoghi comuni che il patriarcato vuole a tutti i costi farci introiettare, nel tentativo di ridurre le nostre ambizioni. Tentativo, perché le donne hanno lottato e lottano tutt’ora per la possibilità di autodefinirsi. Per secoli, le donne sono state messe a tacere; relegate ai margini della storia e dell’azione, hanno osservato il mondo circostante. Quello che potremmo definire «spirito di sopravvivenza» ha portato le donne a diventare esperte nei moti dell’animo: una capacità di analisi pungente, spesso accompagnata da grande empatia. Quando scrivono, quando fanno arte, le donne pungolano gli animi dei loro soggetti, tengono traccia di ogni loro movimento, e poi traducono su carta ogni piega del loro essere. Con questo non voglio negare che una simile dote caratterizzi anche diversi uomini; ci sono uomini che hanno preso l’inchiostro e l’hanno reso carne viva, ma in modo diverso. C’è qualcosa, nella scrittura femminile, di diverso: come se essa scaturisse da una fonte non migliore o peggiore, ma semplicemente diversa.


Taluni reputano che la Letteratura non prescinda dal tempo per interpretare semplicemente lo spirito della Storia universale e che, ciononostante, essa sia congiunta alla finalità delle mode ed a qualsivoglia ambito del gusto. Quali direzioni, mete o deviazioni vede attualmente caratterizzare il panorama letterario italiano e internazionale? Quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

Annalisa Sacchi, parlando della regia teatrale, individua due approcci: quello dei sopravvissuti, che guardano con nostalgia al passato e cercano di riviverlo, e quello dei moderni, che dal passato rifuggono, non riconoscendolo o desiderando di affrancarsi da esso. Questo binomio può descrivere anche lo stato della letteratura: ci sono autori che si nutrono, vivono e cercano di rivivere le grandi opere del passato, e ci sono autori che invece si distaccano da esso, alla ricerca di un linguaggio nuovo, capace di cogliere la contemporaneità. Poi, ovviamente, ci sono gli ibridi, autori e autrici che hanno l’anima scissa tra passato, presente e futuro. È difficile, però, cogliere una meta comune: l’offerta è talmente ampia e diversificata da confondere il lettore, che tende per questo a rifugiarsi in una confortevole nicchia. Inoltre non ci sono più movimenti unitari, coesi e ben definibili come quelli che hanno costellato il Novecento. Una condizione non nuova, se si pensa alle difficoltà che già le nuove avanguardie degli anni ’70 ponevano ai critici, costretti a trovare nuove etichette ogni due o tre anni.
Anche la funzione della scrittura è una questione complessa. Come sempre, ci sono libri la cui unica funzione è quella di fornire un divertimento – nel senso etimologico della parola, ovvero di-vertere, portare altrove la mente del lettore, dandogli un attimo di tregua dalla realtà quotidiana. Questi libri, spesso poco considerati da chi si autodefinisce un intellettuale, svolgono invece una funzione vitale: rendono la vita più sopportabile.
Accanto a questi, ci deve essere una letteratura coraggiosa, una letteratura che ponga domande scomode, che colpisca il lettore anche a costo di trascinarlo lontano dalla sua comfort zone. Oggi, come anche in passato, è necessario che questi libri siano scritti; non è detto che abbiano subito il giusto riconoscimento, come spesso capita alle opere più innovative e audaci. E soprattutto oggi è necessario che queste opere siano accessibili a tutti, ovvero che la forma non vada a ostacolare la comprensione del tema. La cultura non può e non deve essere elitaria: si deve quindi operare non un abbassamento della cultura, ma un suo avvicinamento alla società. Viviamo in un’epoca in cui tutto è alla portata di tutti, e sarebbe decisamente anacronistico cercare di restare arroccati in una torre d’avorio. Che bene farebbe all’Arte? E che bene farebbe agli Artisti? Nessuno dei due può vivere così, nutrendosi di idee astruse e solitudine: sfiorirebbero come fiori recisi e lasciati in un vaso senz’acqua.


Le donne sono state costantemente presenti da quando esiste l’Arte stessa, intesa in tutte le sue sfumature; tuttavia, il loro tributo documentato rimane comunque scarsamente visibile. Quali sono, a suo avviso, le ragioni per le quali è stato così arduo sottrarsi all’invisibilità e come vede oggi la condizione della letterata in Italia?

Quando un sistema culturale è pensato e retto da una categoria specifica di persone, emergere e vedersi riconosciuti i propri meriti è difficile. Il potere non è una condizione necessaria per fare arte: l’impulso creativo non discrimina su basi politiche. La diffusione e la conservazione delle opere sono però subordinate a meccanismi politici, oltre che economici: essi operano una selezione tra ciò che deve essere ricordato e ciò che deve scivolare nell’oblio. Spesso non si pensa a come gli archivi influenzino la nostra percezione del panorama culturale, abituati come siamo a sentirci dire che internet ha reso tutto accessibile a tutti. Ed è vero, le risorse online hanno facilitato l’accesso alle fonti, anche quelle poco discusse a livello accademico o popolare. Sono però tantissimi i materiali non conservati negli archivi analogici, ergo nemmeno in quelli digitali. Se la produzione culturale di tutte le categorie discriminate, tra cui anche le donne (ma non solo, e questo è importante ricordarlo), fosse arrivata a noi intatta, avrebbe maggiore visibilità, ora? Purtroppo non posso fingermi ottimista. La nostra società continua a prediligere il lavoro delle figure maschili, a tramandare e celebrare quello in misura maggiore. Si pensi anche solo alla scuola: le donne incluse nei programmi di letteratura sono poche, e spesso sono proprio loro a essere sacrificate dai professori in continua lotta col poco tempo a disposizione. Sacrificabili. Anche se Isabella Andreini è stata una poetessa raffinata, oltre che una delle prime vere dive del teatro italiano. Anche se Mary Shelley è stata pioniera della fantascienza. Anche se Elsa Morante è stata la prima donna a vincere il Premio Strega.
Chiusa questa parentesi forse un po’ polemica (ma a mio parere necessaria), riconosco che oggi le letterate italiane sono più valorizzate, anche se la discriminazione dei secoli passati continua a riverberare.
Personalmente, la mia preferita è Francesca Diotallevi, autrice capace di unire storia e arte in opere raffinate e intense, che ha anche offerto un grande esempio di cura artistica, pubblicando una edizione rivista e rimaneggiata del suo romanzo d’esordio, Le stanze buie. Un’operazione che ho molto apprezzato, e che si oppone alla continua ricerca della novità che sembra invece dominare il mercato editoriale.
Recentemente ho invece letto l’esordio di Stella Poli, La gioia avvenire, che sta avendo molta attenzione mediatica. Ormai qualche anno fa avevo avuto l’opportunità di conoscerla attraverso la rivista efemera (in cui ricoprivo il ruolo di editor), e già allora mi ero innamorata della sua prosa; sentimento che riconfermo oggi, perché il suo romanzo racconta il trauma di un abuso e l’impossibilità di trovare giustizia con delicatezza e forza al tempo stesso.
Le letterate italiane vivono oggi un periodo sostanzialmente fortunato, soprattutto se paragoniamo la situazione italiana con quella di altri Paesi, dove le donne vedono continuamente negati i loro diritti. Purtroppo bisogna riconoscere che nel nostro sistema culturale e sociale persistono ancora delle incrinature, ma fare e condividere Arte è certo uno dei modi migliori per curarle.






A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 2, marzo 2023, anno XIII)