Il cinema, la scrittura, lo sguardo. Intervista a Bruno Oliviero

Regista e sceneggiatore, Bruno Oliviero ha il dono di farti perdere la nozione del tempo quando apre le porte della sua mente e ti accompagna alla ricerca di definizioni, di cause, di effetti, di riflessioni.
Al cinema in questo periodo con Ariaferma – un film sorprendente, che racconta il carcere da una prospettiva inconsueta, ovvero stando dentro le sue mura in una specie di declinazione moderna di En attendant Godot –, Bruno Oliviero è impegnato, al fianco di Valia Santella, presso la Fondazione Fare Cinema di Marco Bellocchio, dove tiene un corso di sceneggiatura.
Di cosa lo convinca in una storia, di Ariaferma e di molto altro, ne abbiamo parlato direttamente con Bruno Oliviero.



Che cosa cerchi in una storia? O meglio, che cosa deve possedere perché ti convinca di scriverla?
 
Domanda difficilissima. Sarebbe bello avere una risposta. Provo a formularne una. Per una serie di vicende – misteriose – ho fatto (scritto e diretto) solo film ancorati a cose accadute. Fatti veri. Tratti da storie vere o strettamente ispirate da esse. Altre volte, si è trattato di un collage di storie vere che si è sviluppato dentro la cornice narrativa di un’idea molto forte. Un esempio: Ariaferma. Ciò che mi interessa in una storia sono i limiti del credibile. Nel quotidiano non si vive dentro la credibilità, bensì come capita, in una serie di coincidenze. Alle persone capitano cose incredibili. Se provi a trasporre questo in una narrazione cinematografica, il rischio di risultare poco credibile è molto alto. Non succede lo stesso nel documentario: chi guarda ci crede perché la narrazione è ontologicamente credibile.
Lo scontro allora è tra ciò che tu vuoi rendere credibile e il modo in cui il lavoro rendere credibile il cuore della tua narrazione. Sto facendo un percorso al rovescio, in questo momento, ma credo che sia questo ciò che cerco in una storia, a livello profondo.
A livello più cosciente, le storie che mi colpiscono parlano di uomini che stanno nella Storia (quella con la maiuscola) e la cambiano con piccoli atti, aprono faglie e ferite negli eventi. Da qui, nascono spesso film in cui non si racconta il conflitto, ma il modo per trovare una strada per la pace e questo, paradossalmente, crea suspence.


Penso ad Ariaferma e al fatto che, in un modo che definirei brillante, sei riuscito (siete riusciti) a narrare una storia in assenza della narrazione. Per lo meno, intesa in un senso classico in cui si parte da A, si passa per B e si arriva necessariamente a C. In che modo è stata ragionata la storia? Quali le difficoltà affrontate?

Non so se sia vero quello che dici. La narrazione, per mia esperienza, è ciò che non fa questo tipo di passaggio, da A a B a C. Penso all’Odissea o all’Iliade: entrambe partono da B, da un punto della storia esterno. Cioè, non parte con il rapimento di Elena, bensì con la fine della guerra tra i troiani e i greci. Siamo – questo capita spesso nella narrazione – negli effetti che le cause producono sugli uomini. Ci sono molti altri esempi, oltre all’Odissea. A un certo punto, il canone occidentale (mi viene in mente, per esempio, Dostoievski) è diventato più lineare. Ma credo che ciò accade poiché si introduce una esplorazione della mente umana.
Questa digressione mi serviva per poter rispondere alla domanda su Ariaferma. Lo spettatore ha già un insieme di elementi per costruire l’idea, la realtà di un carcere, ci sono molti film che lo raccontano. Noi volevamo raccontare il «farsi» di un carcere, mostrare il processo attraverso cui si crea un carcere. Quindi, abbiamo raccontato il conflitto e la sua composizione.
I film sui carceri, in generale, pongono qualcosa fuori. Infatti, chi è dentro vuole scappare e raggiungere quel qualcosa. Nascono storie forti e commuoventi. Penso a Il miglio verde, per esempio. Noi volevamo stare dentro al carcere. Raccontare la condizione umana all’interno del luogo che produce violenza. Ci siamo chiesti «cos’è il carcere?». La difficoltà in questo tipo di ambizione? Non puoi provocare l’interesse attraverso la costruzione delle biografie dei personaggi, quindi procedendo in modo classico. In assenza di questo, sei costretto a stare passo passo con i piccoli mutamenti di narrazione per andare avanti. È difficile perché mentre scrivi procedi sempre per piccoli passi, come se mancasse una visione a maglie larghe.


A un occhio a digiuno di cinema, il suo linguaggio appare misterioso. In che modo si differenzia da quello della letteratura, per esempio?

Credo che la cinematografia abbia una difficoltà, rispetto alle altre arti, e questa difficoltà la avvicina alla musica. Si tratta del tempo. Il tempo della fruizione. Se passi davanti a un quadro un minuto o un giorno, qualcosa ti resterà in entrambi i casi. Il tempo è elastico. Nella musica e nel cinema bisogna rispettare il tempo imposto da chi ha creato l’opera. Cioè, il cinema racconta un tempo, e questa è una sua innegabile caratteristica. E, a mio avviso, è la sua caratteristica più importante.
Lo spettatore e il personaggio abitano la storia nello stesso tempo. Non a caso, la nascita del cinema stimolava nella filosofia pensatori come Bergson e Heidegger, che hanno dedicato molto spazio alla questione del tempo e dell’essere.
Ai bravi cineasti, questa questione del tempo viene in modo naturale e credo sia anche difficile da spiegare. Di certo, nel cinema si impone il presente, anche i flash back, quando vengono usati, si coniugano al presente. L’imperfetto o il futuro sono tempi che arrivano dopo aver visto il film.


A Bobbio, presso la Fondazione Fare Cinema di Marco Bellocchio, stai tenendo un corso di sceneggiatura, assieme a Valia Santella. Quali sono le sfide? Nelle varie edizioni a cui hai partecipato, ti è capitato di pensare di esserti imbattuto in un giovane – giovane inteso come acerbo – talento, che hai deciso di voler tenere d’occhio nel futuro?

Bobbio è un’esperienza recente, si tratta del secondo anno. Ho insegnato a lungo nell’ambito dei documentari, che, con la pandemia, ha subito una battuta di arresto. Mi è capitato di trovare talenti che ho seguito poi. Molti dei miei corsisti sono diventati autori di documentario o sono passati alla finzione. Anche nell’ambito della scorsa edizione del corso che teniamo io e Valia ci sono stati progetti interessanti. Ma può succedere che io non capisca il talento di qualcuno, perché magari il suo talento sta in un tempo successivo al nostro incontro, e, anzi, questo è anche auspicabile. Il conflitto tra il maestro e il suo allievo fa progredire l’arte.
Quello che cerco di fare non è insegnare, bensì accompagnare. E, cosa molto importante, non inibire le intuizioni dell’allievo che sono strumenti preziosi per il suo percorso da artista. Tutto ciò diventa una sfida nella misura in cui gli studenti richiedono regole e tu, insegnante, non dài linee guida ma, al contempo, non li lasci nella confusione. Le grandi questioni, allora, restano legate alla storia e sono: funziona?, ci credi?, è bello?. Sono questioni che non si possono insegnare a priori, altrimenti basterebbe imparare le regole per diventare grandi cineasti.
Attraverso il corso si può raggiungere la liberazione del proprio talento che è già lì, in nuce. Chi pretende di capire troppo durante il corso, credo finirà come Orfeo. Bisogna fidarsi e andare avanti senza verificare se le forze in campo abbiano prodotto l’uscita di Euridice dagli Inferi.







A cura di Irina Turcanu
(n. 4, aprile 2022, anno XII)