Letteratura, quella capacità di porci domande che ci rende liberi. In dialogo con Carlo Varotti

Carlo Varotti, laureato nel 1985 presso l'Università di Bologna, con una tesi sui rapporti tra Tacito e il pensiero politico e la storiografia di Francesco Guicciardini, è professore presso il Dipartimento di Lettere, Arti, Storia e Società dell'Università di Parma e specialista di pensiero politico e storiografia del Rinascimento. Autore di saggi e volumi di riferimento come Gloria e ambizione politica nel Rinascimento (Bruno Mondadori, 1998) o la monografia Francesco Guicciardini (Liguori, 2009), si è dedicato soprattutto alla cura di edizioni fondamentali commentate dei grandi classici, come i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (Bollati Boringhieri, 1993) e Il principe (Bruno Mondadori, 1993) di Machiavelli, poi il Dialogo del reggimento di Firenze di Francesco Guicciardini (Bollati Boringhieri, 1994/ 2006) e, più di recente, l’edizione critica (con A. Montevecchi) con commento delle Opere storiche, vol. II (in due tomi) dell'Edizione Nazionale delle opere di Machiavelli (Salerno editrice, 2010) e l’edizione commentata dei Ricordi di Francesco Guicciardini (Carocci, 2013). Inoltre si è interessato del Romanticismo italiano, del teatro romantico e dell’opera e della personalità di Alessandro Manzoni, cui ha dedicato un’altra monografia,  ma anche di teoria della letteratura (con L. Chines ha scritto Che cos’è un testo letterario, Carocci, Roma, 2001, II edizione ampliata 2015) e di narrativa del Novecento (imminente l'uscita per l’editore Carocci di una monografia dedicata a Luciano Bianciardi). Oltre alle sue ricerche di critico e storico letterario, si è occupato attivamente di didattica della letteratura come autore di manuali per i licei (Calderini; La Nuova Italia; Bruno Mondadori) e come docente presso i corsi della Scuola Superiore per l'insegnamento secondario (SSIS e TFA) di Bologna, Parma e Bressanone, e come redattore della sezione didattica della rivista «Griseldaonline» del dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna. Collabora alla collana bilingue Biblioteca Italiana della casa editrice Humanitas, in particolare con la prefazione al volume (ora in corso di preparazione) di Francesco Guicciardini, Dialogo del reggimento di Firenze. I ricordi (a cura di Corina Anton).


Tutti si lamentano che oggi i giovani non leggono più, che la letteratura è sempre meno considerata e studiata, in scuola e all’università, che il nostro modo di trasmetterla ai giovani non riesce a interessarli. Io non do credito alle lamentele, ma qualcosa di vero forse c’è. Lei cosa ne pensa? 

Che lo studio della letteratura abbia perso ovunque terreno in questi ultimi venti o trenta anni è un dato sotto gli occhi di tutti. Ma è una crisi che va oltre quella più generale degli studi umanistici. Se penso ad esempio al caso italiano (non so se succede qualcosa di analogo in Romania) debbo constatare come l’interesse del pubblico per gli studi storici è florido. Nelle edicole proliferano testate divulgative di storia non solo contemporanea, ma anche medievale (il medioevo adesso, in Italia, tira tantissimo) e di archeologia. Così nelle librerie la critica storica anche di alto livello occupa intere pareti, mentre la critica letteraria sta praticamente scomparendo, emarginata in pubblicazioni puramente accademiche che non hanno alcuna circolazione (fatte naturalmente poche fortunate eccezioni). Prima di lamentare la crisi dell’interesse per la letteratura dovremmo anche interrogarci se – come storici della letteratura o studiosi in genere dei fenomeni letterari – non pecchiamo spesso di una certa autoreferenzialità.
Ma a parte questo, da tempo rimango colpito da un paradosso. Si parla ovunque di crisi della letteratura, mentre sul piano filosofico ed epistemologico si parla continuamente di primarietà della ‘narrazione’. Si pensi alle «grandi narrazioni» in cui Lyotard identificava il Moderno (l’idea di progresso; l’emancipazione dell’uomo; il pensiero alternativo dell’utopia). Si pensi alla centralità della narrazione di cui parlava in psicologia l’appena scomparso Jerome Bruner. Ma si pensi a come gli storici hanno profondamente ripensato in questi decenni lo statuto della loro disciplina nei termini di ‘narrazione’, sottolineando le interferenze necessarie tra ricostruzione storica e organizzazione narrativa del discorso (per cui non è neppure pensabile il passato se non nei termini di una ricostruzione narrativa che non può non coinvolgere le dinamiche conoscitive del letterario). Ma persino le scienze dure hanno scoperto in anni recenti il ruolo dell’intuizione narrativa come motore dell’immaginazione dalla quale prendono le prime mosse i paradigmi innovativi di spiegazione fisica del mondo. Valga per tutti l’esempio di Einstein che nell’Autobiografia racconta di quando sedicenne si era immaginato a cavallo di un raggio di luce; e si pensi agli studi di un filosofo della scienza come Daniel Dennett sul ruolo della metafora come stimolatrice di conoscenza e meccanismo produttore di modelli alternativi di spiegazione dei fenomeni.
Se la letteratura è per eccellenza il luogo della rielaborazione narrativa del mondo e della sua traduzione in forme simboliche, allora essa è ineludibile, anche se magari vive sotto altre forme, ma comunque rispondendo al bisogno primario di raccontare storie di costruire miti. Credo che occorra partire dalla consapevolezza di questi bisogni. Senza reprimende e senza esclusioni pregiudiziali. Vediamo ogni giorno come i grandi archetipi della tradizione narrativa occidentale non sono certo scomparsi, ma sono rimodulati attraverso grammatiche narrative diverse (il cinema; le serie televisive). Il bisogno primario di raccontare storie si manifesta nei modi più diversi. Averne consapevolezza non può che aiutare la pratica della lettura, soprattutto se la scuola saprà trasmetterne il senso. Se la letteratura viene trattata come una vecchia zia che va rispettata per dovere, ma che si può ignorare sapendo che ripeterà per la millesima volta uno dei suoi ricordi giovanili, non si va da nessuna parte. Se un giovane è portato a scoprire che Ludovico Ariosto ha inventato il fantasy; o che il Re leone di Walt Disney riracconta Hamlet di Shakesperare, allora un’opera altrimenti per specialisti, ricoperta dalla «polvere della scuola» e dall’odore stantio dei vecchi quaderni e dei calamai, potrà acquistare nuove potenzialità comunicative e nuovo fascino. Certo, non si tratta di impartire ai giovani una lezione semiologica o strutturalista che ‘faccia vedere’ tali persistenze (che va benissimo a livello universitario); ma si tratta di farle vivere nella pratica della lettura; trasformando l’esperienza della lettura in curiosità, scoperta e svelamento. In qualcosa di vitale, capace di rispondere a un bisogno di consumo di ‘miti’, di storie appunto, che è dell’uomo, che è faber e sapiens non meno che fabulans, capace di raccontare le esperienze e di immaginarne storie.

È una visuale speranzosa la sua, ma oggi la scuola non sembra aver imboccato questa strada, dato che da più parti e ai più alti livelli – antropologia e sociologia anzitutto – si dà l’allarme sul pericolo costituito dal disinteresse verso le scienze umanistiche. Quale potrebbe essere a suo parere il ruolo delle scienze umanistiche, in particolare della letteratura, nella formazione delle future generazioni?

È una questione di una portata enorme, che vorrei trattare su due piani distinti, ma strettamente connessi: quello del ruolo delle discipline umanistiche nella formazione scolastico-universitaria e quello della funzione delle discipline umanistiche per la cultura complessiva di un paese.
Se diamo un’occhiata agli indicatori internazionali sui livelli della formazione scolastica troviamo ovunque una segnalazione allarmante: l’alto numero di studenti che anche a conclusione di lunghi percorsi formativi risultano avere una capacità di lettura, di comprensione e di rielaborazione di un testo scritto appena elementare o addirittura caratterizzata da gravi deficit funzionali. Anche chi è tanto miope da concepire la scuola come pura agenzia di formazione al lavoro (una sorta di preparazione all’ufficio di collocamento), dovrà riconoscere che lo studio serio delle discipline umanistiche è imprescindibile anche per avere buoni «produttori». Possiamo rimanere colpiti dal dinamismo e dalle capacità multitasking dei ragazzi (che davanti a un monitor riescono a fare dodici cose contemporaneamente), salvo scoprire che occorre anche una mente fornata all’approfondimento di un problema, capace di seguire un pensiero organizzato attraverso la forma del percorso logico-argomentativo. Non c’è solo l’intuizione del vedere sinotticamente mille cose; esiste anche il pensiero che procede come un cammino, va dal punto A al punto B, con l’andamento lineare (e lento, digerito) del ragionamento della parola, o della parola che racconta. E questo costituisce un aspetto essenziale di una mente ben fatta, che sappia muoversi nel mondo degli uomini e nella realtà pragmatica del lavoro.
Ma è su un piano ben più alto che non possiamo rinunciare al sapere umanistico, alle scienze umane e alla conoscenza storica (e così dunque a un approccio storico alla letteratura). Se la scuola serve a educare, a formare cittadini consapevoli e menti libere, allora non può rinunciare a ‘leggere’ il passato. Una pratica che ci rende intellettualmente liberi (e quindi fecondi) perché ci mostra che non esiste una sola visione del mondo; ci libera (per riprendere una bella immagine di Eliot), dal «provincialismo» cronologico di chi è imprigionato nel proprio tempo e nei suoi valori (e quindi è votato alla povertà intellettuale: la stessa del «provinciale geografico» – che ora televisione e Internet hanno fatto scomparire – che misurava tutte le cose secondo il metro mentale del proprio villaggio, unica realtà di cui avesse esperienza). Di solito sono a disagio quando sento dire: «Dante è attuale»; «Virgilio è come uno di noi»! Se così fosse probabilmente mi interesserebbe meno. E invece leggo Dante proprio perché mi fa capire che ogni costruzione mentale umana non è naturale, ma storica  e convenzionale, e che esistono società che hanno ritenuto imprescindibili e ovvii valori completamenti ‘altri’ rispetto a quelli che fondano la nostra realtà antropologica.
Ma nel misurarsi con il passato è in gioco anche un fondamento etico necessario alla società. Come fa a concepire il futuro chi vive il presente come unico orizzonte possibile? Esiste un futuro se la vicenda dell’uomo sulla terra (del singolo uomo e della sua generazione) non è sentita come assoluta e isolata nel vuoto, ma se è concepita come il succedersi delle generazioni nella trasmissione del loro tesoro di sapere e di conoscenza. Solo se sono figlio (e sono figlio non ingrato) del passato posso vedere la mia breve esperienza sulla terra come parte di un processo, e posso quindi concepire il futuro e la faticosa lungimiranza progettuale che esso richiede. Tutti abbiano sotto gli occhi la miseria di una politica che si fonda sui sondaggi quotidiani, che misura il consenso sul momento o nell’arco delle settimane. La crisi che ovunque si lamenta delle attuali classi dirigenti (lo storico americano Christopher Lasch parlava qualche anno fa, parafrasando Ortega, di «ribellione delle élites») è in primo luogo incapacità di pensare i grandi orizzonti. Ma quali orizzonti del futuro può avere una cultura che perde il senso della continuità storica?

Il senso della continuità storica ha a che fare, anch’esso, con l’educazione. Ritorniamo perciò alla scuola e alla letteratura nella scuola. L’Italia possiede, secondo me, una serie invidiabile di manuali di letteratura per le scuole, molti eccezionali, scritti da grandi specialisti. Secondo Lei quali dovrebbero essere le caratteristiche imprescindibili di un manuale di letteratura oggi?

È vero. Anzi è un dato che continua a stupire lo studioso italiano di letteratura che si confronta con altre realtà europee. Esistono in Italia ottime storie della letteratura; e non potrebbe essere altrimenti visto il gran numero di storie letterarie che si sono prodotte e continuano a prodursi in Italia. È un retaggio molto antico, del resto. L’Ottocento – il secolo dell’unificazione nazionale del paese – non poteva non affidare alla tradizione letteraria un ruolo identitario fondamentale. La letteratura era il solo ambito in cui si poteva in qualche modo riconoscere una tradizione comune, assente in tutti gli altri settori. Non solo l’Italia non aveva mai avuto alcuna parvenza di unità politica (e questo è ben noto, ma era in fondo la stessa situazione della Germania, arrivata all’unificazione addirittura un decennio dopo l’Italia), né amministrativa; ma era lontanissima da un’unità linguistica del parlato (un contadino siciliano e uno lombardo, dialettofoni e non alfabetizzati, avevano ben poca possibilità di capirsi). In questo contesto una letteratura che dal Cinquecento in poi aveva adottato la lingua fiorentina di Dante, Petrarca e Boccaccio (una lingua puramente artificiale per un non toscano: che si trovava nella situazione di uno scrittore italiano o romeno che decidesse di scrivere in inglese per avere un mercato maggiore) era davvero il solo fattore di continuità ‘nazionale’ individuabile nella storia della penisola. Non dimentichiamo (le date hanno spesso una loro misteriosa significatività) che De Sanctis conclude il suo capolavoro proprio in concomitanza con la presa di Roma nel 1870 e il completamento dell’unità nazionale: una coincidenza che sembra evidenziare un nesso profondo tra identità nazionale italiana e storia letteraria. Un nesso che la scuola non ha mai smesso di sottolineare: con esiti spesso paradossali. Non esiste infatti paese al mondo in cui, a livello liceale, si studi tanta letteratura come in Italia, eppure è ben noto che gli indici di lettura in Italia sono tra i più bassi d’Europa.  Se si volesse fare della facile ironia verrebbe da stabilire un nesso di causa-effetto tra i due fenomeni: in Italia si legge poca letteratura (e soprattutto pochissima letteratura italiana) proprio perché la scuola ha contribuito a farla odiare in età scolare…
Ma a parte l’ironia, è in effetti vero che tutt’ora (anche se le cose stanno cominciando a cambiare) nella scuola italiana non si studia letteratura collocandola anche in una dimensione storica (cosa sacrosanta), ma si studia spesso solo ‘storia della letteratura’: la materialità del testo, la sua voce e la sua bellezza, le sue potenzialità direttamente emotive e argomentative, vengono messe in secondo piano; mentre diventa soprattutto importante collocare il testo nella vicenda di un ideale sviluppo storicistico. Rimango sempre colpito dal fatto che se a uno studente chiedo all’esame di parlare della Coscienza di Zeno, immancabilmente esordisce dicendo che il romanzo «bene rappresenta il processo di dissoluzione dell’io ecc.»: lo incasella insomma in un ideale percorso, mentre gli appare del tutto secondario il fatto che nel romanzo si parli, attraverso la leggerezza di un’ironia intelligente senza pari, di desideri erotici frustrati, di antipatie viscerali, di adulterio, di un rapporto contrastato con il vizio del fumo. Che in esso ritroviamo, insomma, le nostre pulsioni inconfessabili e gli autoinganni con cui abitualmente ‘raccontiamo’ a noi stessi la nostra vita.
Mi rendo conto che sto eludendo la domanda. Il fatto è che un manuale di storia della letteratura ideale non esiste. O meglio, sarebbe forse quello che rinunciando a ogni pretesa unitaria (del resto Dionisotti ci ha insegnato definitivamente che non esiste una ‘storia’ unitaria della letteratura italiana se non in relazione a limitate aree geografiche) si offrisse come un laboratorio multiplo di lavoro e di analisi, suggerendo la molteplicità degli approcci e dei metodi possibili che possiamo adottare quando, avvicinandoci a un testo letterario, vogliamo che ci ‘parli’, che ci faccia capire qualcosa del mondo. 

Veniamo ora ai classici di cui Lei si occupa. Nella collana bilingue Biblioteca Italiana della Humanitas stiamo pubblicando alcuni scritti dei maggiori classici del pensiero politico italiano, Machiavelli e Guicciardini. Che cosa può significare per la gente di oggi – e non mi riferisco agli specialisti ma ai lettori incuriositi magari della copertina – il contatto con quel pensiero?

Leggere il pensiero di una grande mente è sempre un esercizio straordinario. Ed è un esercizio per la vita. Nei Ricordi Guicciardini vuole scrivere, di fatto, una sorta di manuale pratico di comportamento politico-sociale, ma nel farlo mette in campo una straordinaria capacità antropologica. È questa la sua grandezza: Guicciardini osserva il comportamento degli uomini, ma il suo sguardo diventa sempre un’indagine impietosa sulle ragioni profonde del loro agire, sulle dinamiche crude dei loro impulsi e del loro amor proprio. Diventa un’esplorazione quasi anatomica della sfera morale e della psicologia dell’uomo.
Ma in fondo non molto diverso è ciò che il lettore anche non specialista trova in Machiavelli. Penso alla sua straordinaria capacità di andare sempre al cuore dei problemi; di scindere il marginale dall’essenziale. E penso, soprattutto, al senso di sconfinata libertà intellettuale che si respira nelle pagine di quei due fiorentini, quasi coetanei, che furono amici anche se per tanti aspetti diversissimi, ma che furono sufficientemente grandi per comprendere l’uno la grandezza dell’altro. Penso all’acutezza con cui ambedue smontano luoghi comuni e ideologie del loro tempo. Un atteggiamento che in Machiavelli (in questo maggiore del più cauto Guicciardini) diventa addirittura la capacità di intuire ciò che per quei tempi era impensabile. Un uomo che nei Discorsi poteva dire che la ‘disunione’ (il confronto istituzionalizzato dei diversi interessi) è principio della grandezza delle repubbliche; capovolgendo così duemila anni di storia del pensiero politico e intuendo, con secoli di anticipo, un principio fondamentale delle moderne democrazie.

Ha mostrato alcune qualità comuni al Machiavelli e al Guicciardini che dovrebbero attirare chiunque, ma non poca è la differenza fra questi due grandi. Potrebbe spiegarla?  

Machiavelli e Guicciardini – che sono così diversi e simili nello stesso tempo – sembrano davvero articolare il ragionamento in maniere diverse e complementari. Certo i due erano divisi da parecchie cose. Guicciardini (che aveva 14 anni di meno di Machiavelli) appartenente all’aristocrazia cittadina, era quasi naturalmente destinato a una carriera politica di primo piano: e infatti per gran parte della sua vita fu un uomo di potere, governatore di terre dello stato della Chiesa. Era un conservatore, ma non certo miope, anzi intelligentissimo e disilluso, ma sempre attento a difendere le prerogative della sua classe. Che arrivò a idealizzare (come fa nel Dialogo del reggimento di Firenze): ma idealizzandola ha costruito una delle più straordinarie teorizzazioni del ruolo delle élites politiche e dei loro doveri. Machiavelli era un funzionario di stato, membro di quella piccola borghesia amministrativa che tra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento (dopo la cacciata dei Medici nel 1494) vide riconosciute nuove prerogative e un nuovo peso politico.
Ambedue furono uomini dotati di un’intelligenza acutissima delle cose, anche se furono intelligenze diverse. Guicciardini mostra uno spirito analitico, attento in maniera quasi maniacale alla sfumature e ai distinguo (era un uomo di legge e la forma mentis del giurista traspare in ogni tratto della sua opera). Machiavelli è invece il pensatore delle intuizioni improvvise e illuminanti, che non esita persino – nei passaggi più impervi o nelle vere e proprie impasse del pensiero – a trapassi analogici, a improvvise impennate che fanno leva sull’emotività del lettore più che sulla sua razionalità. E basta leggerne le pagine per constatare due stili profondamente diversi: da una parte le grandiose architetture sintattiche di Guicciardini; dall’altra una scrittura paratattica, retta su frasi brevi e nervose, del Machiavelli. Due menti capaci di dialogare con grande intelligenza ma intimamente diverse, dunque. Ma è soprattutto su un altro piano che collocherei la differenza più significativa; e per questo ho prima parlato della differente collocazione sociale. Guicciardini fu realmente un uomo di potere, che conobbe il peso della decisione politica e la responsabilità morale dell’esercizio della forza legale. Conosceva per diretta esperienza la vischiosità delle cose che si oppongono ai progetti dell’intelligenza; la pena dei compromessi e il senso del limite connaturato a ogni politica, che troppo spesso non può essere altro che prosaica scienza del possibile.
Per contro Machiavelli vide il potere da vicino, ma non ebbe mai vere responsabilità di governo. La vide abbastanza da vicino da non esserne un astratto e generico teorico (e giustamente egli ricorda sempre che la sua cultura era fatta di «lettura» e di «esperienza»), ma fu sufficientemente libero dai condizionamenti dell’agire da arrivare a concepire le più straordinarie intuizioni.

Sulla base di quanto Lei afferma, potremmo dire che la pubblicazione di questi giganti è un dovere che va al di là degli interessi culturali e commerciali immediati. Eppure le vendite non sono mai indifferenti all’editore. Secondo Lei, come dovremmo noi, editori e curatori, presentare tale pensiero e tali libri al nostro pubblico, per certi versi estraneo, ormai dipendente dal computer e dal telefonino, per destargli l’interesse che meritano? 

Si possono leggere libri cartacei orribili e stupidi e leggere invece sul monitor di un computer o di un tablet Cervantes e Tolstoi, o Guicciardini e Machiavelli. La differenza evidentemente è un'altra, e ce l’ha spiegata per primo Seneca: se leggo dilato la mia vita perché posso dialogare con i grandi che non ci sono più, come se fossero ancora vivi, amici che mi ascoltano, che sollecitano la mia curiosità e mi fanno domande che mi liberano dalla condanna della banalità (quella quotidiana banalità che è parte ineliminabile della vita, ma che i social stanno amplificando in modo pervasivo). Ed è solo la nostra curiosità e la capacità di farci domande che ci rende liberi, e vivi.

  


Intervista realizzata da Smaranda Bratu Elian
(ottobre 2016, anno VI)