Chiara Valerio: La matematica è politica, ma anche vita

Se gli esseri umani possono diventare solo quello che vedono o quello che immaginano di poter diventare, allora Chiara Valerio incarna un ottimo modello da seguire. Matematica, saggista, scrittrice, responsabile della narrativa italiana per Marsilio, Chiara Valerio è tutta da scoprire, pagina dopo pagina (vi avverto, a volte il suo pensiero si fa così sottile che bisogna avere il coraggio di ammettere di non aver ben capito e tornare indietro, rileggere; il piacere di aver capito, poi, è garantito e amplificato.)
S’intitola La matematica è politica (Einaudi, 2020) l’ultimo saggio firmato da Chiara Valerio, un distillato di riflessioni che sfata miti e leggende. A uno sguardo attento, si coglie che la matematica non è solo politica, ma anche filosofia, modo di vedere la vita, ginnastica per la mente, con gli stessi effetti benefici dell’acquagym per la schiena. Di questo, della matematica, abbiamo parlato con Chiara Valerio, ma anche della letteratura romena e di quella italofona, dell’essere donna in un mondo principalmente maschile. 


In Il cuore non si vede (Einaudi, 2019) citi Nina Cassian. La letteratura romena rimane, in qualche modo, una letteratura di nicchia, nel vasto panorama editoriale italiano. Qual è il tuo rapporto con la letteratura romena? Più semplicemente, come mai conosci Nina Cassian e quali altri scrittori romeni ti hanno affascinata?

Gabriela Adameșteanu e Mircea Cartarescu sono i primi contemporanei che ho letto, Ruxandra Cesereanu mi aveva fatto una grande impressione, sia lei che le sue poesie. Ovviamente Cioran e Mircea Eliade, li avevo letti, e ho letto Livio Rebreanu da poco, perché in Marsilio, abbiamo una collana di classici dove gli scrittori romeni classici sono rappresentati. Ho letto Nina Cassian senza nemmeno sapere di quale nazionalità fosse, ho letto prima le sue poesie, poi ho letto la sua biografia. Ma questo lo faccio sempre, di solito le biografie vengono dopo. Gli scrittori romeni che ho conosciuto, e i giovani matematici romeni durante le scuole estive del dottorato, mi parevano persone colte. E ho trovato cultura e attenzione anche in una delle due persone che sono state vicino a mia nonna negli ultimi anni della sua vita. Ho molta curiosità per la Romania, paese dove non sono mai stata, ma che ho conosciuto, come molte cose della mia vita, per iscritto.

Della condizione della donna nella società, non è la prima volta che ne parli. In una recente intervista – riflessione che riprendi anche in La matematica è politica (Einaudi, 2020) –, avevi spiegato quanto il bisogno di dimostrare di meritarti il tuo posto, in quanto donna, non l’avessi mai vissuto. Aver studiato matematica, aver conseguito un dottorato, tra l’altro, era una garanzia. Non è delle donne che vorrei mi parlassi, però; bensì, in un gioco di similitudini, vorrei mi parlassi della «letteratura migrante». A tratti, mi pare soffra della stessa necessità «dimostrativa». Oltre a essere una saggista e una scrittrice, sei anche responsabile della narrativa italiana per Marsilio. Che tipo di apporto possono dare gli scrittori italofoni al panorama italiano, secondo te?

Non ho scritto e non penso avessi il bisogno di dimostrare di meritarmi il mio posto, ho scritto, e penso che l’aver studiato matematica mi ha evitato la diffidenza culturale della quale talvolta le donne sono oggetto. Mi piace molto il parallelo con la letteratura migrante, non credo però ci sia sospetto, mi pare ci sia curiosità. Tuttavia è un processo lento, come credo sia lento in tutti i paesi che non siano stati potenze coloniali. In Francia e in Inghilterra ci sono sempre stati scrittori francofoni o anglofoni, in Italia è un aspetto più recente. Credo che Alessandro Giammei (ora professore al Bryn Mawr College) abbia scritto la sua tesi di laurea sulla letteratura sarda rivista come letteratura post-coloniale, ma ho un vago ricordo, forse inesatto. Adesso è diverso, ci sono persone che parlano e scrivono in italiano, e arriverà finalmente una letteratura italofona, incrementando un processo già in atto. Per Marsilio uscirà a metà del prossimo anno, il romanzo di esordio di Nikolaj Prestia, che è nato e cresciuto in Russia per i primi dieci anni della vita.


In epoche diverse, grazie a strategie diverse, è sempre esistito il velo, di Maya, di Salomè. Dipende dalle epoche, dal contesto. Oggi il velo è l’intrattenimento. Figli con agende piene di cose da fare, madri-manager-donne con altrettanti impegni, i padri idem (di loro, però, l’immaginario collettivo dice che è norma). Alla fine dei troppi impegni, c’è solo un desiderio: intrattenersi. In che misura sei d’accordo con il fatto che ci sia una correlazione tra l’era digitale, riempitiva di ogni spazio, e questa paura della noia che si traduce in desidero di essere intrattenuti? Quali le conseguenze?

Anche gli impegni sono spesso un intrattenimento. È una società che ha sostituito il «Chi sei?» con il «Che fai?». Nessuna delle due domande mi ha mai affascinato, ma almeno il «Chi sei?» è più complesso da inserire in una tabella oraria degli impegni giornalieri. Le conseguenze del «Che fai?» sono l’impossibilità di pensare. Per il pensiero mi sembra, o almeno per me è così, ci vuole un tempo vuoto. Anche breve, ma vuoto.


Ci sono moltissimi passaggi in La matematica è politica che stimolano la riflessione. Vorrei soffermarmi su uno di essi. Dici: durante il Covid-19, il diritto alla salute è apparso come contrapposto a quello all’istruzione. Puoi fare un commento in merito a questo passaggio? Meglio ancora, tu che spiegazione ti sei data? Perché è avvenuto questo?

È avvenuto per necessità, la priorità era abbassare la possibilità di diffusione del virus, di limitare i contagi, dunque di limitare i contatti, ma la necessità ha rivelato, o così mi è parso, la mancanza di un progetto, di una prospettiva sulla scuola. Ci si è affidati, come spesso è successo, alla buona volontà dei professori e alle possibilità delle famiglie. E questo è esattamente l’opposto di una scuola pubblica che dovrebbe livellare le differenze di classe sociale e di censo.


Del mondo antico, della Grecia antica, sono sopravvissute l’eroismo alle Termopili, gli dèi greci, i sillogismi, la politica, l’Odissea, il cavallo di Troia… Ma non il ragionamento deduttivo, l’astrazione e la proporzione. Credi sia perché, a sopravvivere, sia stata soprattutto la «narrazione» di Platone, invece di quella di Aristotele? Che mondo sarebbe stato, secondo te, se a prevalere fosse stata la «narrazione» di Aristotele?

In realtà, nelle cosiddette scienze esatte, hanno prevalso le teorie di Aristotele, ipse dixit – come si racconta lo apostrofasse il filosofo Averroè – basti pensare che, confidando che la Fisica di Aristotele fosse la verità sulla realtà, per quasi duemila anni abbiamo ritenuto che l’accelerazione fosse proporzionale alla velocità, mentre è proporzionale alla variazione di velocità. E faccende del genere. L’idea delle stelle fisse, della Terra al centro dell’universo, e molte altre cose. Aristotele è stato il riferimento degli scienziati – anche a ragione, è stato un immenso sistematico – per moltissimi anni. Hanno vinto entrambi, ciascuno in un ambito, mi pare.


L’errore, i tentativi e gli errori, è il passo della scienza, ma anche ciò che, durante la pandemia, ha fatto sentire le persone fragili. C’è stato uno strappo nel cielo, abbiamo osservato e sperimentato che la verità assoluta non esiste, che la scienza non è fatta di verità assolute. Che scenari apre una simile consapevolezza, secondo te? O meglio, che lezioni ci insegna, se ci insegna qualcosa?

Spero ci insegni, o almeno a me ha insegnato, che noi siamo l’errore di valutazione nelle cose. E dunque che, prima di sanzionare un errore nell’altro, valutiamo, nella maniera più esatta possibile, quale errore rappresentiamo noi. E d’altronde, se l’errore è così connaturato alla nostra natura e al nostro essere nel mondo, allora forse l’errore può essere riguardato come una caratteristica e non come un difetto morale.








A cura di Irina Turcanu Francesconi
(n. 11, novembre 2020, anno X)