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 |  | Claudio Magris: «Il viaggio è la più grande  metafora della vita»
 
  «Il viaggio come esperienza dell’errare e del sostare, della  capacità e dell’incapacità di incontrare gli altri, come scoperta e avventura,  come incontro o come fuga». Dopo l’uscita dell’edizione romena de L’infinito viaggiare (Călătorie nesfârşită, RAO, Bucureşti 2010,  traduzione di Afrodita Carmen Cionchin), richiami e significati peculiari assume il colloquio  con Claudio Magris, noto scrittore triestino e tra i più autorevoli studiosi della  letteratura mitteleuropea, sul significato del viaggio nella sua vita e  scrittura. In questa intervista, infatti, Magris si sofferma, tra l'altro, sul suo  incontro con l'universo culturale romeno, sul rapporto tra cultura italiana e  cultura romena, tra mitteleuropeismo e romenità. Nelle parole  dello scrittore triestino, ritornano il profilo dei luoghi e delle culture incontrati durante i suoi  viaggi danubiani, il legame umano e letterario con Norman Manea e Dieter  Schlesak. Interessanti anche le note sulla situazione degli istroromeni – i cici e ciribiri  – e sulle loro possibilità di sopravvivenza ai nostri giorni. 
 
 Claudio Magris, dopo Danubio e Microcosmi, dove le esperienze di viaggio sono state da Lei  rielaborate e trasformate, con L’infinito viaggiare siamo in presenza di un libro le  cui pagine sono legate  – univocamente, perché scritte in contemporanea – al momento del viaggio. Com’è avvenuto questo cambiamento di prospettiva?
 
 Non credo si tratti di un  cambiamento di prospettiva. Le due cose – libri di sostanziale invenzione, pur  se basati sulla realtà, quali Danubio   e Microcosmi, e libri di vero e  proprio viaggio o almeno saggi, articoli o diari di viaggio – hanno sempre  avuto, nel mio scrivere, un’esistenza parallela,  una sorta di  coesistenza. Forse, i libri di cosiddetta finzione si sono nutriti di quei  viaggi più direttamente corrispondenti al reale di cui facevo esperienza. A  seconda dei momenti – esterni e interni, situazioni personali e situazioni  oggettive del mondo – s’impone (si è imposto, si imponeva e continua a imporsi)  l’una o l’altra forma, quale risposta più adeguata, direi più necessaria alle  domande che la mia vita e il mio tempo mi ponevano. Sono vasi comunicanti, ora  con la prevalenza dell’uno ora dell’altro.
 
 
 Il libro racchiude più di vent’anni di viaggio e di scrittura – dal 1981 al 2004 – con diverse chiavi di lettura.  Qual è per lei il significato più profondo del viaggio?
 
 Non credo di poter rispondere, nella  forma necessariamente breve dell’intervista, a questa domanda, perché in fondo  tutta la mia introduzione a L’infinito  viaggiare è il tentativo di una risposta. Se dovessi limitarmi a  una sola definizione o a una sola frase, direi che il viaggio è la metafora per  eccellenza della vita, il modo in cui la vita ci si presenta, talora anche  senza andare lontano ma solo attraversando una via. Viaggio come esperienza  dell’errare e del sostare, della capacità e dell’incapacità di incontrare gli  altri, come scoperta e avventura, come incontro o come fuga. Insomma, status viatoris, come dice la teologia  della vita umana.
 Fra i vari viaggi che il libro propone c’è quello della conoscenza, come pure  quello sui cici e ciribiri, ovvero gli istroromeni,  testimonianza del suo costante interesse per le minoranze etnico-linguistiche.  A questo proposito, Lei scriveva sul “Corriere della Sera”, già nel 1999: «Ho  passato parte della mia vita a conoscere e, per quel che potevo, a far  conoscere gruppi e minoranze poco note o semidimenticate, Serbi di Lusazia,  Cici d’Istria, Bisiachi della Bassa Isontina, Bunjewatzi e Schokatzi di  Vojvodina». Che cosa può fare la cultura per la sopravvivenza di questi  «piccoli popoli» e quale può essere il loro apporto al mondo di oggi?
Io credo che oggi ci troviamo  dinanzi a un duplice pericolo, fra Scilla e Cariddi. Da una parte la cosiddetta  globalizzazione, che tende a cancellare e a livellare le differenze, a  distruggere le diversità e soprattutto quelle numericamente ed economicamente e  politicamente meno forti. Dall’altro, c’è, per reazione a questa paura, una  livida chiusura nella propria particolarità, che deforma la stessa diversità,  la stessa particolarità. Quest’ultima deve venire infatti intesa come il modo  concreto in cui ognuno di noi incontra il mondo, il grande mondo, così come i  bambini, nel piccolo cortile di ogni casa di ogni paese, incontrano il mondo,  l’avventura, l’incanto. Ognuno di noi ama la propria particolarità, ma sa o  almeno dovrebbe sapere che essa non è ancora un valore, è la premessa del  valore e non nega l’appartenenza ad altri contesti più vasti (io sono  triestino, il che non nega il mio essere italiano, il che a sua volta non nega  il mio essere europeo), mentre quando la diversità diventa un idolo, essa deforma se  stessa. Un grande scrittore francese di colore delle Antille, Glissant, ha detto che  le radici non devono sprofondare nel buio atavico delle origini, bensì allargarsi  in superficie come rami di un albero, sino a incontrare rami di un altro albero  e  stringerli come mani. La cultura può fare appunto questo: cercare di  contribuire a creare questo sentimento di comune e non contraddittoria  appartenenza alla propria particolarità e al mondo. Dante diceva che,  a furia di bere l’acqua dell’Arno, aveva preso ad amare fortemente Firenze,  aggiungendo tuttavia che la nostra patria è il mondo, come per i pesci il mare.
 
 Nei suoi viaggi danubiani in Romania Lei ha avuto modo di incontrare diverse  personalità della cultura romena. Quale di questi incontri le è rimasto più  impresso?
 
 Anche qui, non credo di poter  rispondere in modo esauriente, nei limiti di un’intervista, a questa domanda.  Dovrei riscrivere il capitolo romeno di Danubio,  aggiungendovi anzi gli incontri, le esperienze, le letture, le persone  incontrate e conosciute successivamente. Ne nomino due, di incontri: quello con  Israil Bercovici, il poeta romeno yiddish di cui parlo in Danubio, e quello con un’anziana donna a  Sulina, con la quale, arrangiandoci tutte e due a parlare in tre o quattro  lingue a mozziconi, ci siamo detti alcune cose e soprattutto lei mi ha fatto  capire, sentire, toccare per così dire con mano la vita, l’esistenza e dunque  la cultura di quelle terre.
 Un altro incontro è quello con Norman Manea, ai cui scritti ha dedicato ampie  recensioni sul “Corriere della Sera” – Manea.  Nel gran circo della storia (1998), Vivere nel labirinto del sospetto: Manea racconta la dittatura (1999), Esilio. La vita dopo due dittature (2002) – e al quale è legato da profonda amicizia. Cos’è che vi accomuna di  più?
Anche qui, dovrei scrivere un intero  saggio per raccontare a fondo il mio incontro con Norman Manea, quello che ciò  significa per me, nella mia vita prima ancora che nella mia cultura. Dovessi  riassumerlo in poche parole, direi che abbiamo due cose in comune: il senso  della storia come esilio e il senso della storia come circo. Lui li ha patiti  molto più tragicamente e li ha anche espressi, in numerosi libri, con  straordinaria grandezza. Umanamente, abbiamo soprattutto una cosa in comune:  l’ironia. Quell’ironia che è il modo giusto, intrepido, disincantato ma anche  pieno di passione e tenerezza, di affrontare il mondo, le cose, i cambiamenti,  la relatività di tutto ciò in cui viviamo, pur sapendo che ci sono sentimenti e  valori assoluti. Già il nostro primo incontro è avvenuto in questa luce: ci  siamo incontrati, durante una gita di scrittori organizzata dal Festival  Letterario di Toronto alle Cascate del Niagara, tutti e due incappucciati in  una tuta rossa, e ci siamo messi a ridere. Poi c’è anche un senso profondo,  comune a entrambi, del rispetto verso la vita, le persone, gli errori e i  sentimenti umani. Ci siamo visti molte volte, sono stato per ben due volte sue  ospite al Bard College; abbiamo anche molto riso insieme, un riso che  sottintende la consapevolezza della tragedia. Io sono molto vicino a lui e a  sua moglie, così come lui è molto vicino a me e ai miei cari.
 
 E cosa può dirci del suo incontro con Dieter Schlesak, per il quale, tra  l'altro, ha scritto la prefazione al libro Il farmacista di Auschwitz?
 
 Credo di aver raccontato nella  prefazione al libro l’essenziale di quell’incontro con Schlesak. Se dovessi  riassumere con poche parole, dovrei dire che – a parte il mio grande interesse  per la cultura tedesco-rumena, per la cultura dei tedeschi vissuti e viventi da  secoli in Romania – c’è il senso profondo di dignità e di rispetto, con il  quale Schlesak  ha affrontato e raccontato anche immani tragedie. C’è anche un senso  profondo di amore per la propria nazionalità tedesca di tedesco della Romania,  profondamente pervaso dal senso della colpa tedesca ma non distrutto da questo  senso. Ricordo una sua bellissima frase, detta molti anni fa in un convegno a  Trieste, dove l’avevo invitato: in cui disse che la presenza tedesca in quelle  terre era ridiventata legittima – dopo le aberrazioni nazionaliste tedesche,  sino al nazismo – dopo Stalingrado. Di queste aberrazioni, il suo libro Il farmacista di Auschwitz è una  rappresentazione straordinaria. Inoltre, anche lui, come me, non cerca tanto di  inventare, quanto di narrare la realtà, tanto più originale (nel bene e nel  male) delle nostre invenzioni. Quel suo libro racconta cose terribilmente vere,  con cui nessuna fantasia potrebbe gareggiare.
 Un’ultima domanda: ci sono altri  libri di viaggio nei suoi progetti?
 
 Non lo so, perché non so mai che  cosa la scrittura mi riserverà – se mi riserverà ancora qualcosa – nel futuro,  immediato o più lontano. In questo momento, non ho in mente alcun libro di  viaggi. Naturalmente ho in mente viaggi, perché viaggiare per me è  indispensabile al vivere, e da questi viaggi qualche piccolo scritto verrà  fuori.
 
 
 
   
 
 
 
 
 
 Intervista realizzata da Afrodita Carmen Cionchin(n. 4,  aprile 2012, anno II)
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