«I corpi che non ci calzano mai a pennello». In dialogo con Daniel D. Marin

A quasi 10 anni dalla partenza dalla Romania nel 2014, dove poi è ritornato, anno in cui uscivano anche le sue Poesie con gli occhiali (editrice Tracus Arte), Daniel D. Marin entra a far parte dello spazio poetico italiano con il volume I corpi che non ci calzano mai a pennello (Interno Libri, 2022). «Un registro drammatico di straordinaria intensità e sconfinante in una dimensione forse inattesa, ma in realtà conseguente con le profondità del discorso, in cui sadismo e masochismo si contendono la scena, il respiro, la voce appunto, e si impone una nuova galleria di persone e personaggi tutti davvero emblematici della condanna tutta umana (e dilemmatica) a essere consapevoli della propria ombra, della propria unicità e, al tempo stesso, della propria deriva e della propria emarginazione, sorta di irrevocabile dannazione». 

 

I corpi che non ci calzano mai a pennello: qual è la storia di questo libro?

Si tratta di un volume di cui non sapevo se un giorno me ne sarei occupato di nuovo per il verso – o corpo – finale, gran parte di esso è stato scritto tra il 2012 e il 2013, quando sono partito dalla Romania, da Bucarest, dopo alcune scoperte che avevo fatto proprio sul mio corpo di allora. Nel frattempo, infatti, ho anche pubblicato, durante il periodo trascorso a Timișoara per frequentare un semestre all’Università dell’Ovest, le poesie con gli occhiali, quindi una parte della problematica in chiave soft dell’allontanamento e dell’avvicinamento, con un mutamento di prospettiva dato, in senso ampio, dagli occhiali che portiamo, è già stata confessata, e – suppongo – a metà perdonata. Credevo che una volta partito per un’isola, la Sardegna, avrei lasciato per sempre quell’agitazione e successione di corpi a Bucarest, capace di non guardarmi più indietro. Invece nella mia mente si sono aggiunti altri corpi, le cui storie si sono ostinate a lasciare un segno e, in fondo, ero ormai già troppo «lì», quasi sulla stessa linea con alcuni di quei personaggi. Poi, invece di diventare un flâneur rilassato, sardo, è accaduto che sono ritornato, nel 2021, «sul continente», e da qualche parte tra Padova e Venezia ho ricevuto, da Andrea Cati, la notizia che avrei dovuto affrontarli. In poche parole, mi aveva inviato il contratto per la pubblicazione di tutti questi corpi, in parte portati con me da Bucarest in Italia, presso la casa editrice Interno Libri.


Due delle poesie della tua recente pubblicazione sono dedicate agli scrittori Mihai Ursachi e Gellu Naum. Qual è il loro ruolo nel suo divenire letterario?

Loro due, insieme a pochi altri, detengono un posto in quello spazio, prettamente interiore, che all’esterno chiamiamo poesia, letteratura, scrittura, incontro, empatia, nei casi molto particolari addirittura «divenire». Per me si tratta di un luogo che a volte attraverso soltanto. Non posso dire di aver preso a volte qualcosa da lì. Quando mi sono svegliato – dal nulla e in altri luoghi – in uno stato di volere di più dalla poesia, certamente non mi sono congedato da essa, e allo stesso tempo sicuramente non mi illudevo che sarebbe venuto fuori qualcosa da lì. Gli stati intensi, come anche le meditazioni prolungate nel tempo, raramente mi portano, all’esterno, poesie, non si tratta di qualcosa su cui mi sia basato. Perciò, non ho alcuna idea non solo del ruolo di loro due in una questione così particolare, neppure del divenire letterario in sé. Sul divenire, a grandi linee – con un’analisi più attenta ci potrei provare. Sul termine letterario – no; è qualcosa di troppo specifico. A parte ciò, trattandosi di un volume distribuito su più di un decennio circa (i primi versi portano le date 2009-2010, e gli ultimi il 2021; anche se è vero che gli ultimi sono pochissimi), ho dovuto chiudere rischi di struttura e di messaggio. Cosa avevano da comunicare questi corpi (insistenti) agli altri e non solo a me? E sotto quale forma, logica interna o struttura potevano farlo? Certo, in questo senso, il dialogo a distanza con i due poeti, che non ho avuto modo di incontrare (avevo visto solo per alcuni minuti il secondo dei due), non mi è rimasto indifferente, anche se il volume che ho scritto è completamente diverso da come lo avrebbero fatto loro. Il fatto di trovarmi al fianco sia di Mihai Ursachi sia di Gellu Naum in quelle due pagine ha contato. Perché in questo modo sono riuscito a connettermi meglio con la mia scommessa letteraria, forse finanche con una struttura.


I corpi che non ci calzano mai a pennello è strutturato in sei sezioni distinte e unitarie: dai dilemmi del signor R., la voce, il sacco, spazio intimo, tutta la sera e il grifone. Che peso hanno l’ispirazione, l’esperienza e il lavoro nell’organizzazione di un volume di poesie?

Ciò che è pesato di più è stato quello che è venuto verso di me e a volte su di me. Un aggravarsi di alcune fasi del corpo/dei corpi, un, quasi, soffocamento di altri che si trovavano nelle mie immediate vicinanze o, a ogni modo, in prossimità del mio essere umano, indifferenza o, al contrario, eccesso di attenzione anche quando le persone ignorate o applaudite si fermavano. Con Fiammifero, di Cagliari, oltre a una poesia (su suggerimento di Liana) ho una foto. Ho conosciuto una fauna umana di corpi che, come il mio, provavano a imporsi, ad adattarsi, sotto gli sguardi delle personalità che si trovavano lì per caso. Alcune (di queste personalità) ancora cercano il loro corpo, altre fuggono da esso. Altre ancora, staccati dal corpo, si rifugiano nei corpi degli altri altrettanto stupiti.


I testi del libro che sono presentati adesso in italiano esistono anche in inglese, tradotti da Liana Andreasen. Che sentimento suscita l’incontro della propria poesia nelle vesti di una seconda lingua o comunque di una internazionale?

Per me anche l’italiano è, o almeno lo è ‘ancora’, soprattutto una lingua internazionale e meno una ‘seconda lingua’, probabilmente non avrei mai firmato un testo in italiano se non fossi stato prima di tutto ispirato a fare ciò da persone come Mauro Barindi o, come in questi giorni, Bruno Mazzoni, che ho letto e che hanno fatto molto per la poesia romena rispetto a me, e qui mi riferisco anche alla mia poesia, sebbene siano traduttori di prosa. Un frammento di Matei Vișniec messo in scena, ad hoc, al Salone del Libro (o un’intera pièce teatrale di Ionesco o Caragiale, a Padova, dove da anni Dan Octavian Cepraga e Federico Donatiello collaborano con il regista Pierantonio Rizzato), Giovanni Rotiroti e (un libro di) Cioran allo stesso tavolo oppure Irma con cui cercavo un bunet tra la Mole Antonelliana e piazza San Carlo, perché raccomandatomi dalla madre di Roberto Merlo (cosa che ancora non è successa; ho cercato, da solo, invano), ti mettono veramente nella situazione di essere curioso di come potrebbe suonare la tua poesia in italiano. Tuttavia, a essere sincero, non ho idea di come suoni ciò che ho tradotto io. Farei volentieri ‘a cambio’ con la mano di Serafina o di Giulia, o con la già menzionata Irma Carannante, con la quale ho avuto conversazioni ‘sul testo’ quando ancora studiava per la laurea triennale. Di conseguenza, mi aspettavo che Andrea Cati mi facesse ritradurre una grande quantità di versi, invece non è successo neppure questo. Mentre in inglese, adesso me ne rendo conto, non ho ancora sentito nessuna delle mie poesie. Ramona Mihaila, su Facebook, non era d’accordo con la versione inglese del titolo, perché le suonava ‘freddo’. Le ho risposto che, in base alla mia lettura, più che freddo suona chiaro, suggerendo in maniera secca, quindi senza dubbi, quella rottura/contraddizione tra cosa ci aspetteremmo dal corpo e ciò che, fino alla fine, arriviamo a percorrere con esso. Quel fit del titolo («never fit us») e altri «tecnicismi» americani arrivano a una demarcazione che io, altrimenti, con le mie parole in romeno, non avrei potuto esprimere appieno senza allo stesso tempo trasgredire. Non a caso per Mircea Petean il libro nel suo complesso è una «falsa narrazione in cui l’Orrido è ipostatizzato nelle forme più delicate del Naturale». Ma ci sono anche parti in cui avrei potuto optare fin dall’inizio per quel ‘freddo’, perché, escludendo quei pochi ‘cortometraggi’ piuttosto campati in aria, del disadattato e distratto signor R. (che è anche una risposta alla signorina O., facente parte di un altro libro da me pubblicato, e non solo al simpatico personaggio della poesia di Mihai Ursachi), ci sono, nel volume, anche piccoli racconti tragici che, ecco, in inglese lanciano più facilmente un segnale di allarme, proprio attraverso lo smascheramento freddo di coloro che li hanno guardati con freddezza, indifferenza. Se la traduzione di Liana (che mi è diventata parente, ‘la cugina più piccola’, nel corso delle nostre discussioni) riesce – come mi è stato segnalato – questa complementarietà va bene.


Nella poesia un corpo che non mi calza a pennello si legge: «e quella quiete/ di inizio del mondo/ quando ancora tutti ignorano/ la disperazione». Si tratta di quell’inizio del mondo, prima della vita e della morte, una dimensione a cui possiamo aspirare tramite la poesia?

L’inizio del mondo è appena l’inizio della creazione, cosa che in effetti gioverebbe alla poesia. Una specie di innocenza e di tenerezza, che tuttavia non esclude movimenti tettonici ed esplosioni vulcaniche. In altre parole, accanto a quel «desiderio di» si potrebbe benissimo aggiungere un «fuggire da». In quanto non si tratta di uno spazio primordiale con una sorta di giardino innocuo e un piccolo Adamo con una fin troppo bella e amichevole Eva, ma di una pre-condizione. Cosa che non esclude una dimensione del ritiro, ma non puoi neppure chiudere gli occhi, oggi, per molto tempo. «Ciò che non ti uccide ti rende più forte», diceva Nietzsche, però, a volte, ciò che ti rende più forte esagera. Ritengo che in questo volume la mia poesia sia apparsa dopo una serie di tali esagerazioni, anche se prima e dopo c’erano e ci sono piccole isole dove anche l’inizio è possibile.


Sempre che ti vada di svelare qualcosa da dietro le quinte, come si configurano, oggi, la vita e i progetti più o meno letterari dello scrittore Daniel D. Marin?

Mi ricordavo di quelle piccole isole, una delle quali è quanto più geograficamente reale. Senza piani e aperto alle sorprese, quindi. Prima della proposta di pubblicazione del volume nella Penisola, mi sono deliziato per nove settimane dell’insularità del luogo che è stata la mia casa (con alcune interruzioni) negli ultimi nove anni. A ‘fine stagione’, sono stato ancora una volta una specie di Robinson Crusoe sardo. In Barbagia, all’incrocio tra via Solferino e via Amsicora di Gavoi, una mattina sono arrivato a una ‘piccola casa di pastori’, che ho fotografato. La proprietaria, una signora non sposata, dopo avermi intravisto mi ha offerto un caffè e un giro della casa, perché la vedessi anche all’interno. Poi alcuni giovani di Orgosolo mi hanno presentato Paola, ‘Miss Italia’, ma io ho risposto prontamente che le ragazze della Sardegna centrale sono bellissime, ma la maggior parte di loro non ha fortuna a Miss Italia per via dell’altezza. Dopo di che mi avevano detto qualcosa che si dice ai funerali, sostenendo che si usa dire in occasione di una festa grande, e ho superato facilmente anche questa prova. Qualcuno, quella notte, su un terrazzo, si assicurarono che mi fosse servito, dopo il famoso mirto (che a Orgosolo è solo rosso), anche il Liquore allo Zafferano, e il Finocchietto di Orgosolo, e alla fine ho trovato il conto pagato. Ho conservato, per due ragioni, l’indirizzo e-mail che mi ha lasciato Agnese, che mi ha portato, insieme a Marco, all’ostello, per vedere con i miei occhi come si guida a tutta velocità una piccola automobile per le stradine estremamente malconce del paesino. Ma ho scorto anche molte macchine di contadini, come in Texas.



dai dilemmi del signor R.

a Mihai Ursachi

il signor R. sembra molto inquieto oggi. ripete a memoria
lambiccate formule di cortesia e nemmeno una gli sembra
abbastanza appropriata. potrebbe dire timorosamente:
“mi fa davvero piacere, signorina, poterle dire buongiorno!”,
ma suonerebbe un po’ scialbo, è come dire
a chiunque “buongiorno!” senza che questo significhi granché

potrebbe dire audace: “ha un abito superbo,
il colore e il taglio valorizzano la sua silhouette!”,
ma suonerebbe come dire che la sua silhouette è imperfetta
(Dio mio, che figuraccia!) e che basterebbe un semplice abito
a rimediare all’infelice difetto

oppure potrebbe dirle con aria ispirata:
“lei è una creatura meravigliosa, assai più
di quanto l’ho immaginata in tutte le mie notti insonni!”,
ma così non darebbe l’impressione di aver fantasticato
su di lei innumerevoli volte in differenti circostanze
e allora lei potrebbe crederlo un maniaco
o, chissà, forse anche peggio?

ma potrebbe dire solo questo: “perdoni l’ignoranza,
signorina, è tutto il giorno che penso
a cosa potrei dirle, ma non trovo nulla di adatto!”,
e solo allora, imbarazzato dalla sua ridicola inadeguatezza,
si disintegrerebbe forse all’istante in miliardi
di infime particelle di materia e con indicibile
rammarico si disperderebbe per tutto l’Universo.


le nuche

mi fermo un attimo, inspiro profondamente,
guardo dritto davanti a me,
vedo solo la nuca di un passante,
mi propongo di pensare a qualcosa di bello,
non mi viene in mente nulla,
faccio ancora due passi,
di nuovo mi fermo, inspiro profondamente,
guardo dritto davanti a me,
vedo la nuca di un altro passante,
mi propongo di pensare a qualsiasi altra cosa,
chiudo gli occhi, visualizzo
un’autostrada che si inerpica su un altro livello,
poco a poco l’immagine si carica
nella mia base segreta di dati,
sorrido, il mio corpo si rilassa,
le mani si fanno soffici,
i piedi sembrano staccarsi da terra
quasi come fossi tra le nuvole,
forse sto davvero fluttuando, penso del tutto rilassato,
e proprio in quell’istante una gomitata da dietro
seguita da un “guarda dove diavolo cammini”
mi svegliano di colpo e vedo un volto
che per un attimo mi guarda con indifferenza,
poi ritorna al suo posto.

 

il pagliaccio

stava sul margine della strada
vestito da pagliaccio,
con un megafono in mano e ogni volta che
una persona passava vicino a lui la chiamava così forte
per nome che si sentiva fino nelle viscere della terra.
passava gente da tutti gli angoli del mondo,
e sembrava che conoscesse tutti,
perché non solo li chiamava per nome,
ma raccontava anche alcune storie
divertenti della vita di ognuno
e, come un vero pagliaccio,
poi li derideva a tal punto che
volevano nascondersi sotto terra
dalla vergogna, così la gente iniziò
ad evitarlo, non passava più su quella strada
e il pagliaccio stava solo dalla mattina
fino alla sera tardi con il megafono in mano,
ma non gridava più nulla, si consumava per la solitudine,
si accusava per il suo strano modo di essere
che non gli dava pace,
pregava che passasse
almeno una sola persona e giurava in cuor suo
che non l’avrebbe derisa per nulla,
anzi sarebbe stato addirittura il suo migliore amico,
e, come se la sua preghiera fosse stata ascoltata,
gli apparve di fronte un uomo ordinario,
vestito ordinariamente, e il pagliaccio,
senza pensarci due volte, portò, per via della sua vecchia
abitudine, il megafono alla bocca
e iniziò a fare il suo numero.

Intervista di Tudor Voicu
Traduzione di Serafina Pastore
(n. 9, settembre 2022, anno XII)