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    «Si staccano così le foglie, i capelli, le gocce, le pagine». Incontro con lo scrittore Erri De Luca 
       
     
       Il 26 aprile  2022, presso la fondazione FOQUS ai Quartieri Spagnoli, Erri De Luca presentava  il suo ultimo libro, Spizzichi e bocconi (Feltrinelli, 2022),  e visto che in quel periodo mi trovavo a Napoli non potevo non andarci. Così ho  saputo dei suoi viaggi in Ucraina con gli aiuti umanitari per la popolazione in  difficoltà a causa della guerra e quando ha detto che durante queste spedizioni  passava per il Maramureș, fermandosi a Sighetu Marmației, mi è venuta l’idea di  invitarlo per incontrare gli studenti dell’Università Babeș-Bolyai di Cluj-Napoca.  La cosa sembrava improbabile se non addirittura impossibile, Erri De Luca non è  il classico personaggio pubblico, non si concede molto facilmente, ma non mi  aveva neanche dato un no secco, mi aveva lasciato uno spiraglio di speranza.  Così dopo vari messaggi e varie email siamo riusciti a organizzare l’evento.  
        Il 7 novembre scorso, dopo essere stato, insieme a Giacinto Fina, la persona che lo accompagna, in  due orfanotrofi in Ucraina per portare coperte e abiti pesanti per i bambini, è  arrivato a Cluj. La mattina dopo, l’8 novembre alle 10.00, presso la  Facoltà di Lettere dell’Università Babeș-Bolyai, Erri De Luca ci ha raccontato  dei suoi scritti e della sua vita attraverso, più che un’intervista, una  chiacchierata alla quale alla fine ha partecipato, con qualche domanda, anche  il pubblico, che non era composto solo da studenti. 
         
        Erri De Luca è  nato a Napoli nel 1950, ha scritto romanzi, pièces teatrali, poesie, ha fatto  traduzioni. Ha studiato nelle scuole pubbliche, ma a 18 anni lascia Napoli e  inizia l’impegno politico nella sinistra extraparlamentare, che dura fino ai 26  anni. Tra il ’76 e il ’96 svolge mestieri manuali, «Ho fatto il mestiere più antico del mondo. Non la prostituta,  ma l'equivalente maschile, l'operaio, che vende il suo corpo da forza lavoro»  ha scritto nella sua prima opera, Non  ora, non qui. Tra il 1983 e il 1984 è in Tanzania volontario in un  programma riguardante il servizio idrico di alcuni villaggi. Durante la guerra  nei territori dell’ex Jugoslavia, negli anni ’90, è stato autista di camion di  convogli umanitari. Nella primavera del ’99 è a Belgrado, stavolta da solo,  durante i bombardamenti della Nato, per stare dalla parte del bersaglio. A  questo periodo risale l’amicizia con il poeta Izet  Sarajlić di Sarajevo,  conosciuto durante la guerra di Bosnia, e di Ante Zemljar, poeta e comandante  partigiano della guerra antinazista. È venuto in Romania più volte, nelle  ultime settimane, a Sighetu Marmației in Maramureș, con i convogli umanitari  per i profughi ucraini. 
        Il suo primo  romanzo, Non ora, non qui, è stato  pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30  lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico  antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento.  Nel settembre 2013 è stato incriminato per «istigazione a commettere reati», in seguito a interviste in sostegno della lotta NOTAV in  Val di Susa. Il processo iniziato il 28 gennaio 2015 si è concluso dopo cinque  udienze il 19 ottobre 2015 con l’assoluzione «perché il fatto non sussiste». A sua difesa ha pubblicato La Parola Contraria, Feltrinelli. È stato considerato dalla critica  uno tra i dieci scrittori più importanti del secolo. Il suo ultimo romanzo è  “Spizzichi e bocconi” del 2022. Vive nella  campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. 
         
         
         
        Napòlide inizia con un distacco, un distacco voluto, cercato, ma  quanto le è costato lasciare Napoli? 
         
        Sono uno di  Napoli, nato a Napoli nella metà del secolo scorso, e la città, all’epoca,  aveva la più alta mortalità infantile d’Europa. I bambini che superavano questa  soglia di sbarramento innaturale, questa specie di decimazione dovuta alla  mancanza di nutrizione, di cure sanitarie, beh, quelli che superavano questa  soglia di sbarramento, poi, andavano a lavorare, invece di andare a scuola.  Poi, è stata una città che era ancora piena di emigranti; uno dei motivi del  risorgimento dell’economia italiana del dopoguerra, che viene attribuita al  Piano Marshall degli aiuti americani, tace il fatto che l’economia italiana del  dopoguerra è stata sostenuta dalle rimesse degli emigranti che lavoravano in  nazioni con della moneta più forte della lira e che, quindi, producevano questa  ricchezza aggiunta all’economia italiana. Napoli aveva anche il dubbio onore di  ospitare la sesta flotta degli Stati Uniti d’America. Era una città  completamente consegnata a questo servizio dello Stato nei confronti della  potenza vincitrice, quella che ci aveva liberato dal nazi-fascismo. Dunque,  migliaia di militari americani venivano a sbarcare la loro astinenza a terra e  se commettevano un reato ne rispondevano alla magistratura militare americana,  e non alla magistratura italiana; Napoli era una specie di enclave americana  dentro l’Italia di allora.  
        Vengo da  questa città, sono cresciuto in questa città. Una mia caratteristica fisica è  quella che più crescevo, più assomigliavo a quei militari americani. Questo è  dovuto al fatto che mia nonna, la mamma di mio padre, era un’americana, che era  venuta in Italia all’inizio del secolo scorso, aveva sposato un napoletano, ed  è rimasta poi a Napoli per tutta la durata della sua vita, non è più tornata in  America. Ha messo dei nomi americani ai suoi figli e il nome che io porto,  Erri, è il semplificato del nome americano di mio zio, che si chiamava Harry  (ma con la “H”, la “Y”).  Ho avuto una  certa difficoltà durante la mia infanzia napoletana a spiegare da dove veniva  questo nome. E così, questo disturbo che mi ha accompagnato durante l’infanzia,  si è poi manifestato nel modo con cui ho semplificato il mio nome: l’ho scritto  “Erri”, come si pronuncia e basta. Dunque, da queste premesse, si capisce che  non ci potevo stare, più crescevo in quella città, più mi pesava quella  condizione. Mi pesava anche il fatto che venivo da una famiglia borgese che non  mi ha fatto mancare nulla, ma intanto mi ha fatto riconoscere continuamente  questo privilegio nei confronti di tutti gli altri miei bambini coetanei che  questo privilegio non lo avevano affatto, che mancavano di tutto. Non soffro di  sentimenti di colpa, da questo punto di vista non mi sentivo colpevole del  privilegio, però sentivo di doverne rispondere in qualche modo. Avevo un  sentimento di vergogna, che è diverso dal sentimento di colpa. Considero il  sentimento di vergogna un sentimento politico, perché ti costringe a  rispondere. Ultimamente abbiamo sentito dei risentimenti politici che andavano  sotto il nome di “indignazione”. Ci sono gli indignati, ce ne erano anche in  Spagna (il movimento degli Indignati). L’indignazione è un sentimento provvisorio,  di passaggio; prima ti indegni, poi ti passa, non sei indignato  permanentemente, non sei indignato a vita. Anche il sentimento della collera,  che può essere un sentimento politico, dopo sbollisce. La vergogna no, non  passa, non passa fino a che non hai cercato di rimuoverla, di rimuoverne le  cause, di reagire a questo sentimento di vergogna.  
        Dunque, per  questi motivi, io mi sono staccato da Napoli, staccato di forza, adopero per me  stesso un’immagine, quella di un dente che si è cavato da una mascella, si è  cavato da solo, non era ammalato, non c’era bisogno di un dentista che lo  estraesse. Però era così, dovevo tirarmi fuori di lì. Quando si estrae un dente  dalla mascella con tutte le sue radici, quelle radici non si mettono più in  nessun’altra mascella, rimangono ballonzolanti fuori, ovunque vadano non si  trapiantano in un altro luogo. Allora ho usato questo termine inventato da me  di Napòlide, cioè qualcuno che ha  perso la cittadinanza (apolide), però l’ha persa a Napoli. Venendo da lì non si  può avere più cittadinanza da nessuna parte. Questo spiega a me il motivo per  cui a 18 anni mi sono tirato fuori di lì e mi sono andato a disperdere dentro  una geografia e una generazione che in quegli anni, appunto la fine degli anni ’60,  era tutta quanta in movimento, mobilitata nelle strade per manifestazioni, per  sue agitazioni. Ecco, io poi ho aderito alle ragioni di quelle agitazioni, non  potendo fare altrimenti. È stato quello un modo con cui ho cercato di smaltire  quel primo sentimento di vergogna che mi ha accompagnato e che mi accompagna  sempre, mi accompagna ancora adesso. Provo sentimento di vergogna di fronte  all’invasione di un paese europeo in pieno 2022. Provo un sentimento di  vergogna per la maledizione di questo ritorno della guerra in Europa. Ho fatto  parte della prima generazione della storia d’Europa che a vent’anni non è stata  chiamata a decimarsi contro altre generazioni nemiche. Tutta la storia d’Europa  prima della mia generazione ha avuto decimazioni di tutta la gioventù: mio  padre, mio nonno e via andando indietro. Tutte le generazioni hanno conosciuto  delle guerre di distruzione in Europa. 
         
         
        In Non ora, non  qui la parola peso è ricorrente.  Troviamo il peso della folla, il peso del tempo, il peso del cibo, il peso del  ricordo. Ma su questo peso, quasi un’oppressione  claustrofobica, che peso ha avuto Napoli? 
         
        Napoli è il  mio luogo di origine, il luogo della mia lingua madre. In Italia si parlano un  sacco di dialetti locali; l’Italia è una lingua nazionale che è arrivata tardi.  L’unità linguistica d’Italia l’ha fatta piuttosto la radio e la televisione, più  che l’unità politica d’Italia. Durante la Prima guerra mondiale, l’esercito  italiano era composto da soldati che venivano da ogni parte d’Italia, che,  parlando solamente il dialetto, non si capivano. Dunque, nell’esercito italiano  di allora c’era un interprete che spiegava ai soldati, nelle diverse lingue  locali, gli ordini che venivano trasmessi in italiano. Vengo da questa parlata  locale, che è la mia lingua madre, la lingua che ho parlato con mia madre, con  la mia famiglia, è la lingua delle storie che ho ascoltato; ho ascoltato le  storie della metà del secolo precedente alla mia nascita. Mi è stata trasmessa  per via orale, dalle voci e dai racconti delle donne di Napoli. Erano storie  che riguardavano certamente la guerra, i bombardamenti. Napoli è la citta che  ha incassato più bombardamenti tra le città d’Italia; tutta l’infanzia e  l’adolescenza di mia madre è stata marcata dal suono della sirena dell’allarme  aereo. Lei si è svegliata tutte le notti della sua vita con l’incubo della  sirena dell’allarme aereo. Me l’ha così trasmesso che io credo che quella sia  stata la colonna sonora del 1900 (il suono della sirena dell’allarme aereo).  
        Queste storie  riguardavano storie di terremoti, perché Napoli è una citta sismica; a Napoli  hanno avuto anche una eruzione, del Vesuvio. Poi c’erano le storie dei  fantasmi: Napoli era piena di fantasmi, ogni famiglia e ogni casa aveva storie  di fantasmi. Adesso non ci sono più fantasmi, si sono esauriti, come narrativa,  entro il 1900. I fantasmi, come tutte le persone assenti, come tutte le persone  che noi perdiamo, scompaiono quando non vengono più nominati. Scompaiono del  tutto le persone che abbiamo perduto, solamente quando smettiamo di nominarle,  di ricordarle, di evocarle con qualche ricordo affettuoso, simpatico, buffo. Io  consiglio a quelli che vogliono essere ricordati a lungo, di seminare la  propria vita di episodi buffi, non di episodi tragici. Dispiace ripetere e  raccontare episodi tragici, ma sono gli episodi buffi che rimangono sempre  pronti nella narrativa orale, per essere ricordati, per rimanere impressi, e  finché si parla di persone che hanno dato vita a episodi buffi, si ha modo per  non scomparire del tutto.  
        C’erano quindi  tutte queste narrative, che per un bambino erano tutte narrative uguali, non faceva  differenza un bombardamento da un fantasma. Però, quello che succedeva, era che  le voci delle donne riuscivano a trasmettermi immedesimazione fisica. La  modulazione di frequenza della voce umana è tale per cui, almeno nella cadenza,  in dialetto napoletano, quelle storie mi facevano reagire fisicamente. Io  sentivo fisicamente nei nervi quello che loro stavano raccontando. Era come se  si trasmettesse per via orale una competenza, una esperienza fisica.  
        Dunque, io  dipendo, per il mio sistema nervoso e anche il mio sistema sentimentale, dai  racconti di quelle donne, dai racconti di quelle storie orali. La mia  educazione sentimentale è napoletana, completamente napoletana. Per educazione  sentimentale intendo quella dei sentimenti fondanti di una persona, il sentimento  della compassione, della collera, il sentimento della giustizia. Il sentimento  della giustizia è il primo sentimento che spunta nella vita di una creatura, di  un bambino. La prima obiezione che un bambino fa al mondo degli adulti è “non è  giusto”. Come fa a sapere lui che cosa è giusto? Come si permette di  intervenire sul senso di giustizia? Ed è il primo che si manifesta dentro di  noi; prima del sentimento “non è bello” o “non è buono” si manifesta “non è  giusto”. Capisce che c’è qualcosa che non funziona tra quello che dicono gli  adulti e come si comportano. Questa differenza tra quello che dicono e quello  che fanno per lui non è giusta, è quello il primo sentimento di giustizia.  
        Ecco, tutti  questi sentimenti mi si sono formati a Napoli; perciò, ho un’educazione  sentimentale completamente napoletana, o sono di madrelingua napoletana. Parlo  il napoletano con me stesso, perché io vivo da solo; ho molto tempo per  parlarmi, mi recito delle poesie napoletane, delle canzoni, mi irrito con me  stesso in napoletano, mi insulto in napoletano. Anzi, per chi mi vuole  insultare, gli raccomando di insultarmi in napoletano, perché in italiano non  mi fa niente.  
        Questo è il  mio impianto napoletano, sono completamente napoletano. La prima volta che ho scritto  un libro, si chiama Non ora, non qui,  Feltrinelli ha acquistato questo manoscritto e l’ha pubblicato. Poi ha chiesto  a uno scrittore napoletano (Raffaele La Capria) di scrivere una quarta di  copertina per presentare questo nuovo scrittore; lui scrisse una generosa  quarta di copertina in cui accennava a un’atmosfera alla Bergman, tipo il posto  delle fragole. E io dissi: “E Napoli? Perché non ci ha messo Napoli in questa  quarta di copertina?”. Così ebbi la sfrontatezza di chiedergli di aggiungere Napoli  alla quarta di copertina. Lui mi disse che non aveva messo questa cosa perché  voleva affrancarmi dalla dicitura di scrittore napoletano.  
        Io non mi  voglio affrancare da questa dicitura, però inverto: io sono un napoletano che  scrive storie. Questa è la mia formula. Prima di scrivere storie, però, sono un  lettore. La definizione che do di me stesso è quella di essere un lettore,  perché leggo molto più di quanto scrivo; posso leggere in diverse lingue ma  posso scrivere solo in italiano, e poi, la differenza principale è che la  lettura mi ha fornito delle felicità improvvise, delle scoperte, delle  rivelazioni che la mia scrittura non mi consente. La mia scrittura, al massimo  della mia soddisfazione, è pensare che meglio di così non le so scrivere quelle  pagine. La felicità che mi ha potuto dare la lettura è irraggiungibile nella mia  scrittura. 
         
         
        Non ora, non qui è stato pubblicato alla soglia dei quaranta anni. Considerando  quello che dice in altri romanzi, che “lo scrivere non è un lavoro, è un riposo”,  la pubblicazione di “non ora, non qui” lo considera più un punto di arrivo  nella vita di lavoratore o un punto di partenza nella vita di scrittore? 
         
        Non considero  la scrittura un lavoro, almeno per la mia, escludo che si tratti della parola lavoro. Ho conosciuto la parola lavoro sotto un’altra formula, come si  dice in termini socio-economici di vendita di forza lavoro in cambio di salario;  ho fatto l’operaio per vent’anni, quello era il lavoro. Era così impegnativo  quel lavoro che ecco che sia la lettura che la scrittura avevano dei margini  dentro quel tempo preso e venduto per lavoro, motivo per cui la scrittura e  quel piccolo pezzetto di giornata dedicato alla scrittura aveva questo valore  aggiunto di essere un tempo festivo, un tempo che contrastava il tempo di  lavoro, che voleva giustificare quel tempo di lavoro. Non avevo perduto e  venduto tutta quanta la mia giornata e la mia forza, se riuscivo ad aggiungere  qualche riga, una pagina alla fine di una giornata di una storia che avevo in  testa e che mi teneva compagnia durante le ore di lavoro.  
        Dunque, per me  la scrittura è stata sempre questo tempo festivo nella mia giornata, e ancora  adesso è così. Ho mantenuto ancora le abitudini di quella vita operaia, di  quella vita di allora. Mi alzo molto presto la mattina, vado a dormire molto  presto la sera. Quel tempo di vita mi ha scandito le ore e i giorni. Quindi  proprio non posso usare per me la parola lavoro per la scrittura. Poi, Non ora, non qui è arrivato al mio circa tredicesimo anno di lavoro operaio e ho continuato a  fare quel lavoro operaio per altri sette anni. Quindi quella prima  pubblicazione non mi ha cambiato niente, è stata una specie di tredicesima  arrivata fuori salario. Anche le pubblicazioni successive non mi hanno cambiato  i connotati. Quello che hanno cambiato per me è stato il fatto che ho potuto  mettere nelle mani di mio padre poco prima che morisse quel primo libro. Lui al  tempo aveva disperato di potersi immaginare il seguito di quel primo figlio, un  figlio che lo aveva completamente tradito e rovesciato nelle sue aspettative. A  quel tempo lui abitava in casa con me e aveva dovuto vendere le sue attività  che svolgeva prima. Gli ho potuto mettere in mano qualcosa che aveva il senso  di una alternativa alla vita che avevo svolto fino ad allora. All’epoca lui era  diventato cieco, le storie gliele leggeva mia madre. Fece il gesto di prendere  quel libro e di mettere il naso dentro, odorò nella costola tra le due pagine e  poi lo richiuse e me lo riconsegnò. Quel primo libro ha avuto il senso per me  di poterlo congedare dalla sua vita facendogli immaginare un seguito diverso. 
         
         
        Suo padre aveva anche raccolto tutti i giornali di «lotta continua»? 
         
        Io ho fatto  parte di un movimento rivoluzionario che si chiama «lotta continua». Mio padre, per seguirmi,  per sapere dove stavo e che cosa facevo, comprava questo giornale quotidiano. «Lotta continua» era un giornale pubblico,  che aveva, dunque, delle sedi aperte in tutta Italia e pubblicava anche un  giornale quotidiano pubblico, con le sottoscrizioni dei suoi simpatizzanti. Lui  comprava questo giornale e, invece di buttarlo come si fa con i giornali  quotidiani, se li conservava e ogni annata andava a farseli rilegare. Quindi mi  sono ritrovato questo raccolto di quella collezione completa che poi, nella  fondazione che si è costituita successivamente con il mio nome, abbiamo potuto  scannerizzare interamente e l’abbiamo reso di consultazione pubblica.   
         
         
        E disse comincia con un Mosè scalatore, un Mosè che si perde in montagna,  un Mosè che vede la vetta non come traguardo ma, cito, come ”sbarramento”. È un  Mose che guida il suo popolo verso la libertà. Facile vedere nel Mosè l’Erri  scalatore, ma l’Erri guida, guida del popolo, con i suoi scritti, dove ci vuole  portare? 
         
        Da nessuna  parte. Io non sono né guida né esempio e nego qualunque tipo di istruttività di  quello che faccio. Non desidero essere seguito. Mi sono già perso abbastanza  per non prendermi la responsabilità di qualcuno. Del resto sono tracce che si  sono perdute quelle alle spalle. Dunque, sono un praticante di alpinismo, vado  in montagna, scalo pareti e curiosamente la storia sacra è una storia che  all’inizio è una storia alpinistica. Gli incontri della divinità con i suoi  interlocutori preferiti avvengono non in piena città o in posti ben frequentati,  ma in posti completamente isolati. Comincia con la deposizione dell’arca sulla  cima della montagna, dopo il diluvio. L’umanità si ritrova sperduta, ridotta al  minimo in cima al monte Ararat, uno dei pochi monti effettivamente citati come  riferimento geografico nella scrittura sacra. Altre volte Mosè incontra la  divinità sul monte Sinai. Oggi c’è una località che si chiama Sinai, ma non è  detto che sia quella. Mosè sale sul Sinai due volte: una prima volta si  avvicina semplicemente e vede questo roveto ardente e lì sente la prima  convocazione, la seconda volta, invece, sale sul Sinai per le tavole della  legge. Muore in montagna come suo fratello. Abramo incontra la divinità e poi  porta suo figlio Isacco per scannarlo sul monte Moriah. Dunque inizia come  storia alpinistica, poi diventa una storia di pescatori. Convoca altre figure  professionali nel nuovo testamento ma nell’antico testamento convoca dei  dispersi, principalmente pastori. Pastori che stanno in luoghi appartati, segreti,  separati. L’acustica della divinità si rivolge solamente a loro in maniera  esclusiva e non di fronte a testimoni. Ho quindi immaginato una salita di Mosè,  una delle tante che ha compiuto; avendo competenza di come si sale in montagna,  gliel’ho attribuita facilmente. 
         
         
        Nei suoi libri si sente la presenza di grandi  scrittori. Si sente Dostoevskij, si sente Pasolini, si sente Borges, si sente  lo stesso La Capria e io ci vedo tanto Joyce nella ricerca delle parole. Al contrario  di Joyce, però, che scrive romanzi abbastanza lunghi, i suoi sono quasi  scarnificati di tutti gli orpelli. C’è comunque, però, una ricerca particolare  delle parole come in Aceto, arcobaleno quando parla dell’impossibilità di cambiare quello che è stato scritto. Quanto  c’è poi di tutti questi scrittori nella sua produzione? 
         
        È una questione  curiosa, è un mio disturbo del rapporto tra lettura e scrittura. Quello che io  leggo non ha niente a che vedere con quello che io scrivo. Il lettore che sono  ignora completamente lo scrittore, non mi posso permettere nessuna confidenza  con la letteratura che ho amato e che amo. Quando sono lettore di quelle storie  di quegli autori, sono completamente lettore, e non sono il collega dello  scrittore. C’è un passaggio in cui Robert Walter, uno scrittore austriaco,  dichiara il suo sgomento come scrittore dopo aver letto Dickens: «Dopo aver letto Dickens che cosa posso scrivere io?», dice Walter. Ha un periodo di sgomento e di interruzione  della sua scrittura, ma perché ha letto Dickens da collega, si è misurato come  scrittore con Dickens e dunque ha intanto guastato la sua lettura, perché si è  contaminato come scrittore, magari immaginando che lui non avrebbe potuto  scrivere quella frase così bene. Quando leggo io sono completamente lettore,  non c’entra niente la mia scrittura, non mi posso permettere nessuna confidenza  di comunicazione del passaggio tra lettura e scrittura. Per esempio, di Joyce,  non sono riuscito a leggere quasi niente, tranne i racconti dublinesi, come di  altri grandiosi scrittori. Considero Borges uno scrittore obbligatorio per me,  non lo raccomando ai lettori, anche perché, come diceva uno scrittore  simpatico, Canetti, «Chi mi raccomanda un libro me  lo sta togliendo di mano». Mi stai dando un  suggerimento, allora io per reazione dico no, non lo leggo questo libro.  D’altra parte i libri sono degli incontri, non si possono prescrivere come le  medicine. 
         
         
        Nella prefazione di Una nuvola come tappeto viene definita la lingua ebraica «la lingua nonna», patrimonio genetico  ma anche un modo affettuoso di definire la lingua dei padri, la lingua della nostra  religione cattolica. Però, questo rapporto affettuoso che ha con sua nonna, di  cui parla spesso nella rubrica A schiovere,  che è la depositaria delle tradizioni, dei proverbi di famiglia, e questa  definizione della lingua ufficiale, della religione, può essere un avvicinamento  non alla spiritualità, che comunque c’è sempre, ma alla sacralità? 
         
        La sacralità  di quel testo c’è, nella scrittura. Nei testi sacri che sacralità c’è? Non solo  il fatto che parlano della divinità, che comunque sono testi teologici dunque  sacri per definizione, ma perché con quelle pagine le generazioni si sono  tramandate quelle cerimonie, quei rituali, quelle storie; quelle pagine con  quelle parole hanno accompagnato le loro feste, i loro lutti, i loro momenti di  sgomento nei confronti delle catastrofi. È diventato sacro quel testo per la  stratificazione di sacri che gli hanno accumulato le generazioni successive.  Dunque è inestirpabile il sacro da quelle pagine. Io ho potuto risalire alla  fonte di quel formato originale della scrittura sacra, l’ebraico antico.  Sant‘Agostino si chiedeva in che lingua ha parlato la divinità, perché la  divinità nell’antico testamento dice continuamente «e disse… e disse… e disse»; è il verbo più comune, più sparpagliato, più frequente  delle azioni della divinità nell’Antico testamento. Agostino si chiede in che  lingua ha parlato la divinità; naturalmente è una domanda che non può avere  risposta, però sappiamo in che lingua è stata verbalizzata per la prima volta, cioè  in ebraico antico. Ebraico antico è il testo arrivato ad essere definito nel  corso del tempo, il formato a cui posso accedere io come accede qualunque  traduttore; la conferenza episcopale italiana traduce dallo stesso da cui posso  tradurre io. Quindi è un modo per me di essere arrivato alla fonte di quel  sacro, monoteismo micidiale per tutte le altre divinità. Il mediterraneo è il  mare più popolato di divinità, era il più politeista di tutti. Una città come  Roma era una sorta di capitale mondiale dei politeismi; non solo aveva sue  divinità, ma ospitava tutte le altre divinità dei popoli conquistati. Il  politeismo per sua natura è democratico, non esclude nessuno e ragiona solo in  termini di rapporti di forza: il politeismo romano era stato più forte dei politeismi  delle altre civiltà, ma comunque erano tutti cittadini delle divinità. Poi  invece si introduce questo monoteismo, questa pretesa di cancellare, estirpare  dal suolo e dagli altari e dal cuore delle persone tutte le altre divinità; non  le sottometteva, non le cancellava, ma erano tutte improvvisamente scadute.  Tutti i loro riti si riducevano a mitologia. Dunque parliamo di potenza. Era  una lingua che scardinava tutte le divinità precedenti, imputando quella che è  la nostra tradizione religiosa del monoteismo.  
        Il mio  interesse era ed è rimasto un interesse di lettura. Iniziavo a sfogliare quella  grammatica di ebraico antico da solo, anche grazie al fatto che, avendo fatto  involontariamente degli studi classici, ho studiato il latino e il greco  involontariamente, perché non potevo andare al liceo scientifico siccome non  capivo niente di scientifico, avevo una reazione allergica con gli argomenti  scientifici. Ed ora quel liceo classico, quegli studi di allora, mi hanno poi  permesso involontariamente di scardinare, senza nessun aiuto di mastri, le  grammatiche e le lingue altrui. Ho potuto fare da solo per questo, grazie al  fatto che il latino e il greco mi hanno fornito questa chiave musicale per  entrare dentro le altre lingue. 
         
         
        In nome della madre inizia con una premessa, in cui c’è scritto «il nome del padre inaugura il segno della croce, in nome della  madre si inaugura la vita». Viene rappresentato  una coppia insolita: questo Giuseppe che vive questa situazione un po’  particolare è in lotta tra la lealtà alla tradizione e la lealtà alla sua  coscienza, tra un amore spirituale e un amore carnale. Maria, Miriam, che viene  rappresentata come una bambina, ma è anche una donna capace di affrontare i  momenti più duri della maternità, come il concepimento e la nascita, totalmente  da sola. E anche la spiritualità che è abbastanza presente, forte nella prima  stanza, diventa molto umana. Poi, perché questa divisione in stanze, qualcosa  di intimo o di poetico? E come mai la scelta di rendere questi due giovani così  umani, di spogliarli della spiritualità di cui di solito è permeata la coppia  Maria-Giuseppe? 
         
        Intanto perché  sono due ancora essere umani, non sono ancora saliti su nessun altare, stanno  ancora con i piedi sulla terra. Successivamente saranno elevati sugli altari,  ma invece per ora stanno al piano terra di quella Terra e società di allora. E  poi, insomma, alcune modifiche di immagine rispetto alla tradizionale sacra  famiglia me le sono potute permettere in base alla letteralità di quel testo. Nessun  Vangelo dice che Joseph è vecchio, l’hanno voluto trasformare in vecchio  successivamente, come una specie di nonno della ragazza madre. Joseph, dunque,  ce lo possiamo immaginare, senza fare nessun torto a quella scrittura, giovane,  bello e innamorato, a tal punto di credere a quella versione della maternità,  che è la più inverosimile versione di maternità di tutte. Lui crede a quella  versione perché la verità è spesso inverosimile, la verità non si presenta in  maniera gentile come se volesse farsi accettare come un prodotto pubblicitario,  la verità è sempre scomodissima all’inizio. Il primo che ha cominciato a dire,  nella Grecia di allora, che la Terra girava intorno al sole, l’hanno liquidato,  condannato a morte per blasfemia. Era diffusa blasfemia quella verità. Poi sono  arrivati i secondi, i terzi, i quarti e alla lunga quella verità è stata  accettata. Le verità sono scomode, se no non sono verità, sono versioni  tollerabili. Le verità sono sempre scomode. Sono sempre urticanti, vanno sempre  contro pelo. Un medico nell’800, che si chiamava Semmelweis, vedeva che nel  reparto di maternità dell’ospedale di Vienna la mortalità era del 10%. Era una  cosa considerata naturale, davano la vita e dunque morivano per aver dato la  vita. C’era un reparto di maternità in cui solo le infermiere intervenivano nel  parto e lì la mortalità era scesa all’1%. In quell’anno un suo amico medico  morì per un’infezione riportata durante la pratica di un’autopsia. Quei sintomi  di quella morte erano simili a quelli delle donne che morivano di parto, allora  capì che i medici, che andavano a intervenire in sala parto per le partorienti,  facevano prima l’autopsia e non si lavavano le mani. Ecco che per quell’improvvisa  verità lui fu licenziato. 
        La verità è così: scandalosa, offensiva,  perturba lo stato di cose presenti, il loro andazzo. Joseph accetta quella  verità perché va abbracciata, ha bisogno di un sentimento, di una spinta e la  spinta che ti fa abbracciare, quindi riconoscere, quella verità è l’amore. E  poi lui ha un vantaggio su tutti gli altri: sente quella voce della gravidanza  direttamente dalla sua amatissima Miriam. Dunque io faccio delle piccole modifiche  alla iconografia ufficiale. Joseph è giovane, il Cristo dei crocifissi è nudo,  perché li crocifiggevano nudi, come supplemento di mortificazione e di tortura,  specialmente per un popolo pudico che negava ogni tipo di nudità, pubblica e  privata. Era un supplemento di tortura, li spogliavano e poi li appendevano  nudi a morire su quel palo della croce. I panneggi intorno ai fianchi li hanno  messi dopo. Anche nel giudizio universale della Cappella Sistina i panneggi  sono arrivati dopo il concilio di Trento; improvvisamente tutti quei nudi che  aveva fatto Michelangelo sono stati ricoperti da delle braghe, tanto che un  pittore che si occupava di questi è stato nominato ufficialmente Il Braghettone  perché aveva messo le braghe a tutte le nudità del giudizio universale. Quindi,  quel corpo che vediamo in tutte le chiese e su tutti quei crocifissi è nudo,  gli abbiamo messo un panneggio che gli toglie l’offesa principale, la  sofferenza di doversi esporre nudo, lo priva ai nostri occhi di quella  sofferenza. E poi, l’ultima modifica che faccio nella iconografia ufficiale è quella  dell’annunciazione. Che prerogativa aveva quella ragazza, Miriam, se dentro la  sua stanza si presentava una figura evidentemente inviata dalla divinità, come  un angelo con tutte le penne e lo svolazzamento? Qualunque ragazza avrebbe  riconosciuto e accettato quella presenza come messaggero inviato dalla  divinità, ma in realtà nella scrittura sacra ebraica precedente, fino a quella  storia, il messaggero della divinità ha un normale corpo umano, non lo si  riconosce, lo si riconosce solo dopo. Abramo, quando vede arrivare questi tre  che gli annunceranno poi la gravidanza di Sarah, sono tre viandanti, li fa  mangiare. La traduzione greca è precisa, ἄγγελος in greco è ‘messaggero’,  non ha questa forma alata di Serafino, quindi in quel caso il greco è preciso.  Miriam riceve dentro la sua stanza una persona, un essere umano, un maschio; è  gravissimo per una donna ricevere nella sua stanza una figura maschile senza  nemmeno gridare aiuto. Per una legge curiosa ebraica, loro dicono che se una  ragazza viene presa da un estraneo in un campo lei non è colpevole perché  potrebbe aver provato a gridare ma nessuno l’ha sentita. Ma dentro la propria  stanza deve gridare se arriva un estraneo, uno sconosciuto. Lei non grida, lei  risponde, riconosce questa voce e immediatamente è pronta ad accogliere  quell’annuncio. Questo è anche il motivo per cui Joseph riesce a salvarla dai  sassi della legge, sposandola così com’è, incinta non di lui. Questa storia  riguarda anche Joseph, che in ebraico significa ‘colui che aggiunge’. Aggiunge  prima di tutto la sua fede in quella versione, poi conferma le nozze con quella  sua fidanzata, quindi così la salva dai sassi della legge, perché lei per la  legge è una perfetta adultera incinta prima del matrimonio e non del suo  legittimo promesso. Inoltre, riconosce anche il figlio, non solo perché lo fa  diventare un falegname come lui, ma perché lo iscrive nell’anagrafe ebraica  come figlio suo. Lo sappiamo dal vangelo di Matteo.  
        Ecco queste  cose avvengono finché questa coppia sta ancora con i piedi per terra, non è  ancora salita su nessun altare. Sono storie che io recupero dal testo, dalle  condizioni di vita di quel territorio di allora. 
         
         
        Nella premessa dell’ultimo libro Spizzichi e bocconi afferma di appartenere a un’epoca  alimentare basata sulla scarsa quantità, di avere un palato grezzo e la bellissima  espressione di avere «le papille  gustative del 1900», però  scopriamo che ha fatto anche qualche sciopero della fame che preferisce  definire astensione da cibo, una lotta tra la sua forza di volontà e il corpo.  Qual è comunque questo rapporto che ha con il cibo, con gli alimenti? 
         
        È un rapporto  che cambia continuamente con l’età, come per tutti. Partiamo con un’alimentazione  che ci viene fornita fortunatamente da casa e poi cambia nel corso del tempo,  anche a seconda delle possibilità, delle condizioni economiche. Nel mio caso,  cambia a seconda dell’età, invecchiando. Nessuna generazione prima di questa è  invecchiata così in massa; l’Italia ha la popolazione più vecchia del mondo  dopo quella del Giappone. Dunque, nel giro di un secolo, l’età media degli  italiani è raddoppiata. Su scala di massa è sperimentale questo invecchiamento  e poi nessun vecchio precedente ti aiuta a sapere com’è la vecchiaia, la devi  sperimentare da solo. Uno dei modi per sperimentare nel proprio corpo la  vecchiaia è l’alimentazione. Vedere che cosa va e badare molto di più a quello  che non si mangia piuttosto che a quello che si mangia.  
        Dovendo  scalare, quindi dovendo portare poco peso in montagna altrimenti non riesco ad  alzarmi, il mio rapporto con il cibo è cambiato. Ma è cambiato il rapporto di  tutti con il cibo, perché il cibo è diventata una materia molto pericolosa. La  gran parte delle nostre malattie deriva dal cibo, la cattiva qualità del cibo.  Allora uno dei trucchi che spiega questo biologo nutrizionista è di cambiare  continuamente veleno, cioè di non insistere sugli stessi alimenti, di cambiare  i prodotti per permettere al corpo di smaltire i veleni che inevitabilmente  assorbe. Quindi è un rapporto sperimentale come tutta la vecchiaia, e non dà  nessuna garanzia, né esperienza. In questo somiglio alla mia attività di  scrittore, la quale non mi produce nessuna esperienza. Il fatto di aver  raccontato tante volte delle storie non mi garantisce in pratica niente con la  storia che sto scrivendo in quel momento. Sono un principiante assoluto, non ho  nessuna competenza precedente che mi permette di essere più sicuro dentro  questa storia, non accumulo esperienza. Ho l’entusiasmo di un principiante,  l’entusiasmo di chi inventa una cosa, un nuovo gioco, oppure come imparare a  suonare uno strumento; se hai suonato il pianoforte, non è utile al suonare il  piffero. Sei musicista, sai le note, ma anche io so il vocabolario, ma cerco  ogni volta le parole di cui ho bisogno, posso essere sprovvisto di competenza,  e allora sono incompetente. Questa incompetenza mi diverte. Io scrivo, so  scrivere, ma so scrivere solo la storia che scrivo in quel momento. Le storie  precedenti non mi forniscono bagaglio di esperienza, non faccio esperienza,  così come per il cibo. 
         
      
   
           
         
 
           
          ALCUNE DOMANDE DAL PUBBLICO 
             
          Qual era la prospettiva che lei aveva dello scrittore  prima di cominciare a scrivere e qual è la prospettiva che lei ha oggi dopo  avere scritto tanti libri? Qual è per lei il ruolo dello scrittore? 
             
          Mi sono  piaciuti i libri e gli autori, non mi sono piaciuti gli scrittori. Come persone  non mi incuriosiscono, non sarei mai andato, anzi non sono mai andato a sentire  uno scrittore, non mi interessano, non mi incuriosiscono come persone. Quello  che faccio io come scrittore, la mia responsabilità, è quella di scrivere al  meglio le mie storie. Questo è il mio dovere come scrittore, ma se voglio fare  qualcosa di meglio, avere anche un compito civile o sociale, allora faccio  l’esempio del calzolaio; cioè il calzolaio deve fare bene le sue scarpe  altrimenti fallisce, ma se vuole fare di più deve fare in modo che tutta la  società intorno a lui vada in giro con un buon paio di scarpe, che queste  scarpe siano ugualmente buone per tutti, tutti devono poter avere accesso a una  buona scarpa. Ecco, lo scrittore ha questa responsabilità in più, se desidera,  e io, nel mio caso, desidero, dare la possibilità di parola a tutti. Il mio  strumento è la parola e, allora, come il calzolaio, devo fare in modo che nella  società tutti abbiano accesso al diritto di parola; siamo in una società  democratica e tutti hanno la possibilità di esprimersi, ma il problema non è  tanto la possibilità di esprimersi, quello che viene negato non è il diritto di  espressione, ma il diritto di essere ascoltati. Cioè, si può gridare molto, ma  nessuno sente, a tal proposito c’è un verso del libro dei Proverbi, nella  scrittura sacra, che dice: «Apri la tua bocca per il muto», ma il muto non è colui che è sprovvisto di corde vocali, il  muto è colui che grida e nessuno lo sente. Ci sono tante lotte nella nostra  società per diritti violati, per territori stuprati, ecco che lo scrittore può  fare da voce amplificata di queste parole pronunciate, gridate e rimaste  inascoltate; non essere il portavoce, perché gli inascoltati la voce ce  l’hanno, ma lo scrittore deve essere proprio lo strumento di amplificazione. A  me è capitato, sostenendo la lotta delle popolazioni della Val di Susa contro  un’opera che distrugge la loro salute perforando montagne piene di amianto, di  essere incriminato per le cose che ho detto; bene, questo processo, che è durato  due anni, ha fatto da cassa di risonanza delle ragioni di quelle persone di  quella vallata, queste persone sono state maggiormente ascoltate,  involontariamente, ho fatto da amplificazione delle ragioni di quella comunità.  Ecco cosa può fare uno scrittore, essere uno strumento di amplificazione della  voce di chi non ce l’ha. 
               
               
            Io volevo chiederle quale fosse il motivo per il quale  ha scelto di dedicare Non ora, non qui a sua madre e se per lei rappresentasse la donna ideale? 
               
            Mia madre non  è stata la mia donna ideale, è stata la mia persecutrice ideale, perché mi ha  trasmesso, attraverso le sue osservazioni, continuamente il privilegio di  essere diverso dai miei coetanei di allora. Mia madre mi segnalava continuamente  il privilegio che avevo, non per colpevolizzarmi, ma per sforzarmi a rendermi  degno di quel privilegio, di fare il meglio possibile con i vantaggi che avevo  avuto sfruttandoli al meglio possibile. Dunque, mia madre è stata una magnifica  persecutrice del mio sistema emotivo e nervoso. La sua voce era tra quelle che  mi trasmettevano immedesimazione fisica delle storie che raccontava. Se parlava  di un bambino che era stato preso a calci dal padre, io sentivo i calci del  padre. La voce è formidabile per questo, riesce a penetrare dentro i nervi.  Ecco, per me, l’orecchio e, dunque, l’ascolto, è l’albero maestro della  conoscenza. Gli altri sensi arrivano dopo, proprio grazie al fatto della voce,  della frequenza della voce umana. 
                 
                 
              Nel suo libro Non  ora, non qui ci dice che suo padre la considerava un bambino che non sapeva  fare le domande, volevo sapere se nel tempo aveva imparato. 
                 
              No, non so  fare le domande, ma non ho neanche il temperamento per fare le domande. Mio  padre, invece, era molto socievole e così, se c’era una persona, la interrogava  continuamente, voleva sapere di quella persona, assorbire quella informazione.  Ecco, io sono di questo genere qua, non faccio le domande, però ascolto. Credo  che una delle virtù o uno degli obblighi di una persona che si mette a scrivere  storie, uno dei vantaggi, è quello di ascoltare le storie degli altri. Dalla  loro voce, non dai loro libri. I libri sono belli, ma la voce umana è molto più  importante della scrittura. Quindi, se noi fossimo al bar, io starei zitto;  adesso qui sono tenuto a parlare e a tirarla per le lunghe con queste  chiacchiere, però starei zitto invece, perché ascolterei e quello che ricevo va  a finire dentro di me, da qualche parte, finisce dentro non un deposito della  memoria, perché io non ho una cassaforte o un armadio, però da qualche parte  finisce quel racconto o quella storia che ho sentito; rispunta poi in qualche  modo da un’altra parte. Dunque, io non so fare le domande, però ho appartenuto  a una generazione che è stata molto incarcerata per motivi politici. È così  che, prima ancora di ricevere le belle domande di una professoressa, di  un’insegnante, di voi, degli studenti, di interviste, di giornalisti, io ho  ricevuto domande da parte di magistrati, sono stato molto interrogato da parte  dei magistrati. Perciò ho potuto capire la differenza del tipo di domande:  mentre queste domande che si svolgono qui sono domande per sapere, per  conoscere me, quel tipo che hai davanti, sono domande che sono curiose della  persona, le domande che ti rivolge un magistrato, invece, non sono delle  domande per sapere, sono domande per ottenere conferma di quello che lui crede  di sapere già, cioè delle ipotesi di reato; sono domande per ottenere una  conferma della sua ipotesi di accusa. Di conseguenza, sono domande  completamente opposte. Nella mia esperienza di persona poco adatta a fare  domande, c’è anche il fatto che ho dato molta poca soddisfazione a quelle  domande dei magistrati, cioè mi sono sempre rifiutato di rispondere a quelle  domande. Quindi oltre a non fare domande, alle volte non ho fatto neanche le  risposte. 
                   
                   
                    Quindi noi siamo fortunati!   
                   
                Voi fate  domande belle, quelle altre sono brutte. Ci sono due verbi latini simpatici  perché chiariscono questi particolare: quaerere è ‘chiedere per sapere’, petere è  invece ‘chiedere per ottenere’. Ecco, quelle dei magistrati sono domande  petenti.   
                   
             
            Visto che le sue storie sono ancorate alla realtà  napoletana, qual è adesso il suo rapporto con la sua città di origine? Per quanto  letto mi sembra che lei non vive più a Napoli, ma a Roma. Parlava delle radici  sospese, quindi qual è il suo rapporto ora con la sua origine? 
             
            Io non abito  né a Napoli, né a Roma. Abito in campagna, che è un posto neutro, dove non ci  sta nessuno al piano di sopra, al piano di sotto. È un luogo esterno alle  città. Non riuscirei ad abitare neanche in un villaggio adesso, con questi vizi  che ho preso di non avere presenze intorno. Il mio rapporto con Napoli è un  rapporto di uno che ci va. Ci vado ma non per mia curiosità; ci vado se devo  farci qualcosa, se devo fare qualche incontro, qualcosa che mi viene chiesto.  Pochi giorni fa ero a Napoli, poco prima di avviarmi in Ucraina, ero a Napoli  perché ero a fare un incontro che mi aveva chiesto un giornale e quindi sono  andato a parlare a un giornale. Questo giornale mi chiese più di un anno fa di  collaborare e io gli mandai ogni settimana una parola napoletana spiegata  secondo dei miei effetti e affetti personali, cioè non proprio una cosa da  linguista, che spiega che cos’è quella parola corrispondente in italiano, ma a  cosa corrisponde per me. Sono, dunque, parole che appartengono a un vocabolario  abbastanza scaduto, che non si parla più a Napoli, sono parole poco conosciute  e poco ripetute. Sono effetti personali che ho con la città di Napoli. Tutte le  volte che ne scrivo, scrivo una storia che è ambientata a Napoli; Napoli è quel  luogo, è il protagonista della storia, le persone sono delle comparse di quella  storia per me. 
             
             
            Io vorrei chiederle qual è il suo rapporto di lettura come  lettore dei propri libri e lettore di libri altrui; se prova lo stesso piacere  a rileggere i propri libri paragonandola alla lettura di altri scrittori, se la  lettura dei suoi libri le offre qualcosa. 
             
            Non rileggo i  miei libri e lo faccio solamente quando ricevo delle traduzioni. C’è la mia  traduttrice in francese, che è rimasta sempre la stessa, la prima dall’inizio  alla fine, che ha tradotto tutti i miei libri, ecco allora io rileggo la  traduzione che lei mi manda per vedere se ci sono degli equivoci, delle cose  che non ha capito. E dunque quando lo leggo in questa maniera, sto leggendo in  francese, non sto leggendo più in italiano, leggo il lavoro che lei ha fatto su  quelle pagine. Di fatto io non rileggo nessuna mia storia, però la riscrivo  prima di consegnarla. Io scrivo a mano, ho un sacco di quaderni ormai nel corso  del tempo. Quindi io riscrivo la storia, la scrivo a mano; dopo averla scritta  non la rileggo, ma la riscrivo, cioè la ricopio, perché se la leggo vado troppo  svelto, non riesco ad andare al ritmo della storia. La riscrivo con l’intento  di ricopiarla. Mentre la ricopio, ecco che la storia si muove, non sta ferma a  farsi ricopiare, e quindi la ricopio una seconda volta. Poi la ricopio una  terza volta. Dopo aver ricopiato una terza volta, e per ricopiarla significa  che la storia per me va bene, allora poi la batto a macchina con gli indici per  farla leggere anche all’editore. Sono un ricopiatore ma non un rilettore. 
             
             
            Ma ricopiare vuol dire solo ricopiare o interviene  ancora? 
             
            Quella storia,  una volta scritta, mentre la ricopio si muove, continua a mandarmi dei  suggerimenti e quindi aggiungo. 
             
             
            Perché preferisce la scrittura breve e mai un romanzo  corposo, molto più lungo? È una scelta conscia o no? 
             
            È così, a un  certo momento la storia si ferma, si interrompe e io mi accorgo che sono  arrivato alla fine. È così, non c’è nient’altro da aggiungere. Nemmeno uno me  ne è venuto lungo, però alla fine questo ha avuto un vantaggio economico,  perché continuo a vendere singoli pezzi, singole storie. Se scrivevo una storia  di trecento pagine, comunque me ne pagavano un libro solo; così, invece, di  fatto, me ne pagano tre. 
             
             
            Ho letto da qualche parte, poi non so se sia vero o  meno, che lei è lo scrittore italiano più tradotto in francese, quindi un  successo formidabile. 
             
            Certe volte il  libro esce prima in francese che in italiano, perché l’editore in francese, che  per me è il più grande editore esistente, il più grande editore che conosco, si  chiama Gallimard, è una casa editrice prestigiosa per me. Questo è dovuto al  fatto che la mia traduttrice mi ha reso uno scrittore francese. Ho il sospetto  che quelle storie siano meglio in francese che in italiano. Per saperlo, per  verificarlo, dovrei fare questo esercizio di traduzione dal francese  all’italiano, ma preferisco evitare questa delusione. Credo di essere diventato  più uno scrittore francese, tant’è che adesso Gallimard sta pubblicando una mia  raccolta di libri, mille pagine, e questo lo fa solo con gli scrittori  francesi, con nessuno scrittore straniero. Insomma, mi hanno adottato, sono una  cittadinanza secondaria. 
             
             
            È la prima volta che viene in Romania? 
             
            No, ci passo  ormai da marzo, da quando ho cominciato ad andare in Ucraina, attraverso quindi  una piccola parte della Romania. Ieri, per esempio, per la prima volta, sulla  strada di ritorno, invece di passare per le solite piste, sono passato per la Transilvania,  è stato molto interessante come paesaggio. Era molto bello il fatto che ci  fosse la nebbia; la nebbia dà più profondità e intensità ai luoghi, anche se  sono molto più favorevole alla bella giornata napoletana. Però fuori di Napoli,  che non conosce la nebbia, apprezzo la nebbia altrui. 
             
             
            C’è qualche storia che ha sentito, che tiene nel  cassetto perché non ha il bisogno di scrivere? 
             
            No, io quando  mi scappa una storia la scrivo e basta. Se non mi piace la butto via pure, non  sono tenuto a completarla, la abbandono, però scrivo solo quello che mi passa  per la testa. Non sono un impiegato della mia scrittura, non scrivo tutti i  giorni, non programmo.  
            «Adesso che storia mi invento?» No, se mi viene uno spunto, che mi diverte a iniziare,  allora si, scrivo. Anche questo rientra nel fatto che per me questa non è  un’attività lavorativa, ma festiva. 
             
             
            Vorrei farle una domanda che parte da una sua intervista  in cui diceva che si era bruciato tutte le paure, probabilmente per noi in  questo contesto, per i nostri studenti, sarebbe interessante sapere da lei come  arriviamo a conoscere le nostre paure. 
             
            Il fatto è che  le paure fanno parte del nostro sistema di allarme. Ci avvisano dei pericoli,  ci fanno stare attenti. In montagna è bene percepire delle paure per poter  essere più concentrati e attenti. Regolarmente, la singola paura che affronti  in montagna poi la superi per proseguire; quindi impari a isolarla, una alla  volta. Le paure, se no, sono indefinite. Una alla volta si affrontano. Da  bambino io avevo paura dell’elettricità; dovevo aver preso qualche scossa  elettrica, perché allora gli impianti non erano tanto a norma, sicuri,  garantiti come sono adesso. Magari avevo preso una scarica elettrica e avevo  paura di inserire la spina nella presa. Naturalmente, a un certo punto questa  mia paura è stata svelata. Mi prendevano in giro per questo, ma non potevo mica  tenermi questa condizione di presa in giro. Allora ho preso la spina e ho  cominciato a fare questo esercizio (avanti e indietro, avanti e indietro). A forza  di fare questo movimento, la paura si è smussata. Le paure, una alla volta,  vanno affrontate e risolte, altrimenti rimangono come delle zavorre. Nel nostro  tempo abbiamo anche tutta una propaganda politica che ci vende delle paure e  non per farcele superare, ma per speculare su queste paure. Per esempio la  paura dell’immigrato, dello straniero che viene; io dico che se uno ha paura  dell’immigrato, dovrebbe fare come ho fatto io con la spina elettrica: invitare  un immigrato vicino casa sua, uno povero, e farlo entrare a casa. Appena entra  dici “mi scusi può andare fuori?”. Puoi lo fai entrare un’altra volta e poi  ancora “scusi si può accomodare fuori?”. Così con questo esercizio sulla soglia  di casa passa la paura dell’immigrato, come quella dell’elettricità. Vanno  isolate, una alla volta. A me a forza di isolarle sono scomparse, hanno deciso  che era inutile, non attecchiscono più. Dunque mi accorgo di dovermele  suscitare le paure, lo faccio a scopo di allarme, per esempio in montagna. 
             
             
            Queste paure l’hanno aiutata nella sua scrittura? 
             
            La paura è un  sentimento, dunque tutti i sentimenti sono prima stati sperimentati; non posso  parlare in astratto delle cose che non conosco e non ho sperimentato. Quindi  si, certamente, anche le paure hanno fatto parte della mia competenza nello  scrivere. 
             
             
            Vorrei porle una domanda su Aceto, arcobaleno: quanto di lei si ritrova nel narratore? 
             
          Io sono in  tutte e quattro, anzi, in tutte e tre più il narratore. Il posto in cui avviene  l’incontro è proprio la casa in cui abito: una casa di pietra che era una  stalla e che ho riadattato ad abitazione. 
           
           
           
                    Infine, inviterei Stefano Celia e Giacinto Fina a raccontarci  brevemente dell’esperienza che hanno con Erri De Luca. 
           
          GIACINTO: ci  siamo conosciuti in Ucraina ed è nata questa cosa con un personaggio che non ha  bisogno di altre parole, con lui continuiamo a fare ancora missioni in Ucraina. 
           STEFANO: Io  non posso aggiungere niente. Ho conosciuto prima Giacinto, che è diventato mio  fratello maggiore. Mi piace pensare che tutto quello che sta succedendo in  questo “triangolo” sia qualcosa fatto per il bene, per l’umanità in generale e  per chi soprattutto ne ha bisogno in momenti delicati come questi. Di Erri mi  piace la sua libertà, in ogni momento della vita.
         
            
          A cura di Patrizia  Ubaldi 
          con la collaborazione di Giusy Capone 
      (n. 12,  dicembre 2022, anno XII)        | 
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