Con Fabio Francione sulla figura poliedrica di Gillo Dorfles

«La storia non ha quasi mai un andamento rettilineo, non solo per chi ne è il protagonista, ma per chi ne valuta gli accadimenti dall'esterno in un secondo tempo. È per questo, anzi, che molto spesso i dati storici ci sorprendono a posteriori e ci chiediamo come mai non corrispondano a quel processo che a noi sembrerebbe il più legittimo. Ma, se questo è il caso più comune, tuttavia, ci sono dei casi che vanno al di là della normale procedura che a noi sembrerebbe una ragionevole successione dei fatti; e spesso questa accidentalità è proprio quello che cambia inaspettatamente il procedere degli eventi. Ne abbiamo molti esempi sotto gli occhi; e del resto basta leggere attentamente un testo storico, senza pregiudizi ‘di parte’, per scoprire una quantità di contraddizioni che rendono più affascinante la vicenda storica». (Gillo Dorfles, 2014)

Fabio Francione ci introduce alla biografia e al pensiero di Gillo Dorfles, all'anagrafe Angelo Eugenio Dorfles (Trieste, 12 aprile 1910 – Milano, 2 marzo 2018), noto critico d'arte, pittore, filosofo e accademico. Dal libro Gillo Dorfles. Vivere il presente osservando il futuro. Annotazioni e divagazioni per un libro in divenire (Mimesis Edizioni, 2021) prende lo spunto l’intervista realizzata da Giusy Capone.


La Trieste austro-ungarica e mitteleuropea, la specializzazione in Psichiatria, l’antroposofia di Steiner. Dove si può rintracciare la spinta propulsiva per raccontare la biografia intellettuale di Gillo Dorfles?

A mio avviso l'unica biografia possibile su Dorfles può essere scritta solo leggendo interamente i suoi libri, le migliaia di articoli, le sue lezioni, le curatele di mostre e guardando la sua notevole produzione artistica. In tutta questa mole di lavoro il critico del gusto ha disseminato molti episodi della sua vita, soprattutto riguardo incontri divenuti nella memoria, sua e di molti, memorabili. Tuttavia, non dimenticando ciò che diceva di sé nel ritrovarsi pienamente nelle sue letture, ascolti, visite, qualcuno forse potrebbe cimentarsi a raccontare il Dorfles uomo, nella sua splendida flânerie quotdiana. L'unico forse in grado di farlo è Luigi Sansone che gli fu assiduo per moltissimi anni e curatore di alcune sue mostre e soprattutto autore del catalogo ragionato delle opere. Non ho evitato di rispondere alla domanda, ma ho cercato di circoscrivere quella che è per me la sola via praticabile a una comprensione più che della vita, del pensiero di Dorfles che il più delle volte andavano a braccetto.

I suoi Appunti si srotolano su un asse diacronico che va dal 2004 al 2018 per i quotidiani «Il manifesto» e il suo supplemento «Alias» del sabato nonché per «Il Cittadino». Perché «un libro in divenire»?

Soltanto un vezzo che raccoglie a piene mani il pensiero di Dorfles o almeno cerca di farlo adottando il suo stesso metodo. Quasi se non tutti i libri di Dorfles sono una compilazione e legatura in un discorso unico dei suoi articoli. La sua era una filosofia in divenire, sostenuta da uno sguardo che dire curioso è riduttivo. Rabdomantico forse anche. Vi era una sorte di capacità di incantamento verso tutto ciò che rappresentava o poteva rappresentare il nuovo e la novità, quindi la sua era un'osservazione in continuo divenire, nel dispiegare lo sguardo sia nello spazio sia nel tempo. I giornali che citi sono poi quelli che servo ormai da più di trent'anni e con mio grande piacere ospitano i miei interventi. Ma questo è un altro discorso.

Dorfles reputava che l'arte non prescindesse dal tempo per interpretare semplicemente lo spirito della Storia universale e che nondimeno essa fosse legata alla funzione delle mode e a tutti gli ambiti del gusto. Qual è stato il contributo di Gillo Dorfles allo sviluppo dell'estetica italiana? E in quale misura si può ritenere contemporaneo sempre, oltre il secolo vissuto e sorpassato?

Comincio col rispondere che credo di non far difetto a dire che Dorfles non è soltanto un «nostro contemporaneo» e che la sua non è soltanto una modernità dettata dalla capacità di percepire e poi attrarre a sé tutte le novità che l'arte, il design, la moda, la società in quel divenire – e si torna ancora a quel dispiegamento nel tempo di un oggetto, di un movimento, di un pensiero – ma che, al di là della sua leggendaria longevità che l'ha portato a vivere oltre il secolo breve e ad arrivare alle soglie di questo imprevedibile inizio di anni 20 del XXI secolo con la pandemia e tutto ciò che ne sta conseguendo e tento nella doppia postfazione del ʽdorflesino’, mi piace chiamare così il mio libro, di sondare con i suoi scritti una possibile diagnosi a questo entrare e uscire da un film di fantascienza. Quando poi siamo pienamente dentro una quotidianità impossibile da evitare per quanto irreale, ma altrettanto picconata da una nuova normalità nel suo assurdo incedere. Quel vivere il presente osservando il futuro che è poi il titolo che ho voluto dare al libro e chissà cosa avrebbe pensato e scritto su questo inedito presente? Dico di più, forse qui vi è già una risposta all'interrogativo: al tempo dell'epidemia della ʽSpagnola’, Dorfles era già un giovinetto e su un periodo così tragico non ho trovato alcuna traccia su ciò che ha pubblicato. Neppure nei suoi taccuini e diari, pur parzialmente riprodotti. Peraltro scelti da lui come anche negli ultimi libri di memorie pubblicati. Nessuna traccia. Forse ho evaso qualche inciso delle domande. Cerco di recuperare.
Per quanto riguarda il suo contributo all'Estetica posso dire che il suo agire è stato marginalmente teorico. Ha dovuto scrivere un libro filosofico, quasi controvoglia, Dal significato alle scelte, tutto per una conferma a cattedra. Direi che l'esercizio più appropriato e congeniale fosse lo scritto breve, l'articolo di giornale, la puntura polemica, la curatela. Tuttavia non vi è da escludere l'agire creativo esposto nella sua attività duplice di poeta e pittore clandestino. Fino ad un certo punto. Perché, e forse non mi sbaglio, conosciamo molto di Dorfles, ma non tutto. 

Dorfles si mosse nell’alveo delle Istituzioni, pur riuscendo a conservare «quell’irregolarità di sguardo e di curiosità che l’hanno reso unico nel panorama culturale italiano». Come si pose nel perenne dialogo tra intellettuale e potere?

Sarò lapidario. A mio avviso Dorfles era un intellettuale che conosceva bene cos'era il potere e come doveva essere esercitato. Quindi a suo modo era anche lui un uomo di potere. Scriveva sul Corriere, pubblicava da Einaudi, insegnava dopo un lungo giro all'Università di Milano.

Lei fa soventemente riferimento a Dorfles quale esegeta del kitsch. Come riuscì a sdoganare in Italia il kitsch, rendendolo forma d’espressione?

Direi che ha dato dignità e densità di significato al kitsch con la sua antologia del cattivo gusto, pubblicata in un anno capitale e cruciale come il ’68. Allargandone le maglie come mai altri prima e introducendo il termine nel vocabolario quotidiano. Inquadrato in quell'anno contestatario ed effervescente da un editore coraggioso e collezionista d'arte come Mazzotta, quel libro ha più una ragione d'essere. Parlare del kitsch è anche scoperchiare un pozzo quasi senza fondo. Anzi una volta dentro si può restare a galla. E mi fermo.

Munro, Greenberg, Barr, Kepes, Wright, Kahn, Kiesler: quali stimoli impressero gli Stati Uniti d’America a Gillo Dorfles?

Poco prima di morire e grazie alla cura di Luigi Sansone, il più profondo esegeta del Dorfles artista, a lui si deve il catalogo ragionato delle opere e almeno una decina di mostre e una ancora si attende fermata come la maggior parte delle mostre con gli estremi disegni, è uscita una raccolta dei suoi scritti «americani», dal titolo per l'appunto de La mia America. In fin dei conti questo libro rientra in pieno nelle ultime pubblicazioni memorialiste, quasi un'autobiografia per procura che consente ai lettori più vigili di capire quali e quante relazioni Dorfles intratteneva. Il suo primo viaggio negli USA fu oltremodo formativo. L'elenco di nomi lo testimonia e con alcuni di questi intrattenne rapporti di amicizia, oltre che introdurne il pensiero in Italia.  

Dorfles e Basaglia: quale rapporto delineò tra Arte e Follia?

Quest'ultima domanda rimanda all'omaggio trasversale che con gli amici di Casa Testori e Luigi Sansone immaginai per omaggiare la Legge Basaglia a quarant'anni dalla sua emanazione. Triangolare figure e mondi diversi come quelli di Basaglia, Dorfles e Testori fu un azzardo per certi versi, per altri invece porre in esame come, dando retta a quei sei gradi di separazione cui ogni tanto si fa ricorso per stabilire connessioni e relazioni, in realtà questi tre grandi uomini del '900 avevano delle cose in comune. Sicuramente partenti da      punti d'osservazione diversi come anche gli approdi. Ma, riuscivano a vedere più in là del loro quotidiano, anticipando forse troppo ciò che doveva accadere e cercando di curare ciò che a tutti poteva sembrare pazzia: nell'arte, nella medicina, nel teatro.






A cura di Giusy Capone
(n. 5, maggio 2021, anno XI)




Profilo bio-bibliografico

Fabio Francione vive e lavora a Lodi. Scrive per «il manifesto» ed è condirettore della rivista di studi salgariani e popolari «ilcorsaronero». Si è occupato a vario titolo di Edmondo De Amicis, Emilio Salgari, Giovanni Testori, Franca Rame e Dario Fo, i Mondo Movie e Gualtiero Jacopetti, Andrea Camilleri, Franco Basaglia. Ha inoltre curato libri di Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Antonio Gramsci, Gillo Pontecorvo oltre che la mostra del centenario di Paolo Grassi a Palazzo Reale e l’omonimo libro Paolo Grassi, Senza un pazzo come me, immodestamente un poeta dell’organizzazione. Nel 2020, in occasione del duecentesimo anniversario della nascita del suo autore, ha curato la nuova edizione de La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene di Pellegrino Artusi (La nave di Teseo).