Filippo La Porta: «Calvino, un sismografo del nostro accidentato terreno culturale»

«Calvino è stato un sismografo che ha sempre misurato con estrema fedeltà e precisione (uno dei suoi ‘valori’) i vari movimenti del nostro accidentato terreno culturale: dalla Resistenza fino al boom e all’inquinamento industriale, dall’impegno politico alla intelligenza artificiale».
Ospite del nostro Spazio Calvino, il critico letterario e saggista Filippo La Porta, nato a Roma nel 1952. È autore di numerosi e importanti studi sulla letteratura italiana, tra cui La nuova narrativa italiana (1995 e 1999), Non c’è problema. Divagazioni morali su modi di dire e frasi fatte (1997), Maestri irregolari. Una lezione per il nostro presente (2007), Meno letteratura, per favore (2010), Un'idea dell'Italia. L'attualità nazionale nei libri e Pasolini (2012), Poesia come esperienza. Una formazione nei versi (2013). Per Bompiani ha pubblicato Dizionario della critica militante (con Giuseppe Leonelli, 2007) e Indaffarati (2016), Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio (2018). Tra i suoi lavori più recenti, Come un raggio nell'acqua. Dante e la relazione con l'altro (2021).


L’opera e la personalità di Italo Calvino sovente appaiono contraddittorie, considerata la grande varietà di atteggiamenti che, verosimilmente, riflette l’accadere delle poetiche e degli indirizzi culturali nel quarantennio fra il 1945 e il 1985. È possibile, tuttavia, rinvenire un’unità d’intenti?

Sì, è stato un sismografo che ha sempre misurato con estrema fedeltà e precisione (uno dei suoi ‘valori’) i vari movimenti del nostro accidentato terreno culturale: dalla Resistenza fino al boom e all’inquinamento industriale, dall’impegno politico alla intelligenza artificiale.


Neorealismo, gioco combinatorio, letteratura popolare sono tra i numerosi campi d'interesse toccati dal percorso letterario di Calvino. Su quali aree si è concentrata la sua attenzione?

Sì, un eclettismo vorace, dagli esiti sempre interessanti. Se dovessi dire un solo genere, direi però la fiaba. Anche perché le fiabe di solito finiscono bene, e Calvino aveva un fondamentale ottimismo, l’ottimismo di un adolescente. Una volta Pasolini definì con affetto fraterno Calvino un eterno adolescente. Oggi mi appaiono entrambi come adolescenti, con la loro incorruttibile seriosità, la segreta timidezza, il loro candore privo di qualsiasi cinismo – che li rendeva politicamente inaffidabili. Due temperamenti tragici, smarriti nel labirinto, ma con una loro letizia del vivere, pieni di vorace curiosità per il presente e capaci di stupore di fronte alla realtà. Si tratta in fondo delle attitudini che dovrebbe avere ogni scrittore.


«Nel Novecento è un uso intellettuale (e non più emozionale) del fantastico che s’impone: come gioco, ironia, ammicco, e anche come mediazione sugli incubi o i desideri nascosti dell’uomo contemporaneo». Così Calvino.

Sì, in ciò assai vicino a Borges, che usa tradizioni fantastiche, sapienziali, esoteriche, come pretesti per esercizi di stile. Eppure Calvino non è associabile ai giochi metaletterari tout court. Ritengo altresì che l’immagine di Calvino, consegnata alla vulgata, di un autore privo del senso del tragico, sia del tutto infondata. Lo scrittore inseguiva ostinatamente un ordine da dare alla complessità del mondo, sapendo però che alla fine prevale l’entropia, il disordine. Il tragico nella sua opera è ben presente, ma non viene esibito, resta sottotraccia, dando però alla prosa – cristallina e geometrica – una continua torsione problematica: incisi, parentesi, punti interrogativi. La sua saggezza scettica, attratta dal fantastico e fatta di misura, discende da Montaigne.


In qual misura il ‘fantastico’ calviniano si fa pioniere del contemporaneo?

Specie ne Il Visconte dimezzato


Il 2023 ha celebrato il centenario della nascita di Italo Calvino. Qual è il suo lascito alla posterità letteraria?

Ricongiungeva attitudini o valori tra loro oggi sempre separati: gusto della precisione e pietas, leggerezza e problematicità, curiosità per il nuovo e amore per la tradizione (Ariosto, Galileo…). Dunque, le opere calviniane che raccomando sono La giornata di uno scrutatore, del 1963, dove ci mostra il nucleo tragico della democrazia stessa (il voto di un paziente menomato del Cottolengo vale quello di un cittadino qualsiasi?), Il signor Palomar, del 1983, tentativo genialmente fallito di dare una descrizione rigorosa del ‘groviglio’ della realtà, e le Città invisibili, del 1972, un’opera-mondo che si pone come enciclopedia del presente attraverso il simbolo-chiave della città.


Quali sono, secondo lei, le sfide più ardue che la critica letteraria, e in particolare l’italianisticadeve affrontare al giorno d’oggi?

La critica è il critico! E oggi l’utopia più alta del critico è essere, agire come individuo; inappartenente, indocile, idiosincratico, anche se capace di argomentare.


Romano Luperini sostiene che il saggio critico, così come ereditato dal secolo passato, non ha più futuro. Come vede lei la trasformabilità di questa forma che si è istituzionalizzata in un vero e proprio genere letterario, sul quale si sono cimentati filosofi e critici celebri, tra cui Adorno e Lukács?

Non condivido queste dichiarazioni apocalittiche. Spariti noi non è che sparisce il mondo. Oggi in Italia c’è una nuova generazione di saggisti e critici di valore. Nulla da invidiare a quella precedente.


L’edizione 2023 del Premio Strega ha segnato non solo la vittoria di una scrittrice, ma anche un record di donne: otto scrittrici nella dozzina e quattro nella cinquina. Come si configura l’attuale status della letteratura esperita da donne?

In poesia sono un po’ più avanti. Nel romanzo non saprei. Il loro pensiero emotivo coincide con quello del linguaggio poetico. Ma, anche qui, senza nessuna mitologia o idealizzazione.


La letteratura romena è costantemente tradotta in italiano, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2024. In che misura pensa sia conosciuta in Italia e quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?

Ana Blandiana è una delle più alte voci della poesia contemporanea. Cărtărescu uno dei maggiori romanzieri del pianeta, onnivoro alla Calvino in senso postmoderno ma con una malinconia di fondo estranea al postmoderno. Manea, che conobbi a New York, è stato per me un maestro. Perseguitato dai nazisti e da Ceaușescu! Eliade, amato da Pasolini, resta fondamentale per gli studi sul sacro. Tanto che gli perdoniamo le simpatie per la Guardia di Ferro. Cioran lo amo meno, anche se è più di moda di tutti! Il suo nichilismo è troppo prevedibile, manieristico, involontariamente comico. Ma forse letto in romeno apprezzerei di più il suo stile.



A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 3, marzo 2024, anno XIV)