Intervista allo scrittore e fotografo Flavio Gioia, a cura Maurizio Vitiello

Flavio Gioia (Napoli, 1957) ha vinto ad agosto 2022 il primo premio per la sezione fotografia alla BeneBiennale di Benevento.
L’autore-fotografo ci offre immagini emblematiche, di ricerca e di rilievo filosofico. Versato nel campo della filosofia – ha in preparazione vari libri e cataloghi – coniuga la sua indagine per immagini con scelte ponderate, che sfiorano la metafisica.
Riesce nel controllare luoghi, da quelli d’archeologia industriale a quelli paesaggistici consumati dal tempo e dai clamori, a introdurre flessibili corpi inanimati per rendere diversità compositive allarmate e/o intriganti.
La resa fotografica delle sue elaborazioni fotografiche promuove sempre un’analisi del contesto e avvalora una ‘firma’ di sentimenti.
Quegli elementi corporei introdotti nella scena assicurano un valore aggiunto e una lettura che va oltre il tempo e lo spazio.
Certamente, Flavio Gioia intende modificare la percezione e da univoca la porta a multipla scenografia ambientale.
Gli elementi caricano di senso il luogo e lo dettagliano in un prisma di virtualità compositive.    
Senza dubbio, la carica intellettuale e filosofica permea una nuova immagine, un nuovo assetto.
Ciò che inserisce dialoga col luogo e nel rispetto dell’ambiente sottolinea differenti, possibili, potenziali letture.
L’ampio e icastico ventaglio delle soluzioni che propone stabilisce una nuova frontiera visiva, tutta tesa a far riflettere sul passato, sul presente e su un arco prossimo del futuro. E continua nei suoi incessanti sopralluoghi, per il momento tra isole ed entroterra. 

Ecco un suo scritto che ci permette di intendere i suoi propositi:

Reperti contemporanei

Suddividere la conoscenza tra passato, presente e futuro non rende onore alla cosa da conoscere.
La cosa da conoscere è per sua natura svincolata dalle determinazioni classificatorie del tempo.
La cosa da conoscere non è collocabile né all’interno di un certo tempo e neanche intercettabile all’interno di un certo luogo.
La cosa da conoscere è, per sua natura, metafisicamente apolide.
Abbinare una semiotica attuale con una passata è una inesatta classificazione artistica.
Esiste un continuum mai interrotto per il quale la cosa perde i connotati di coordinate cronologiche e spaziali.
Tenere insieme il passato con il presente è una imprecisa connotazione di entrambi.
C’è, alla base del Tutto, un ‘sentiment’ assolutamente indifferente alle catalogazioni valoriali.
Ogni ‘reperto’ del passato sarà sempre contemporaneo essendo apatico allo scorrere del tempo.
Così come, per il medesimo motivo, ogni segno del presente sarà contestualizzabile con i reperti del passato.
«Fotografare la realtà» vuol dire impressionare lo sguardo di tale ‘sentiment’.
Far emergere un ‘assoluto’ avulso dalle contestualizzazioni temporali o locali che siano.
Esiste un «bagaglio semantico» appropriato per ogni dove e per ogni quando.
Tale «semema» impregna di sé indifferente alle molteplici differenze.
Nessuna idiosincrasia tra passato e futuro ma splendida armonia nella indifferenza di quei valori che noi tendiamo a differenziare.

E ora passiamo alle domande:

Puoi segnalare tutto il tuo percorso di studi?

Mi sono fermato agli studi liceali per intraprendere, giovanissimo, l’attività bancaria. Nel frattempo, ero iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia della Università di Napoli sostenendo un esame di Storia dell’arte contemporanea con il massimo dei voti.

Puoi definire e sintetizzare i desideri iniziali?

Da giovane mi sono dedicato all’attività fotografica con piglio professionale. Ho avuto passione per le culture del Mediterraneo e per la filosofia. Il mio desiderio giovanile era quello di fare fotografia in campo archeologico.

Puoi segnalare i sentieri operativi che avevi intenzione di seguire e quelli, effettivamente, seguiti?

Di pari passo con la carriera bancaria, non ho mai smesso di coltivare l’attività fotografica e anche quella televisiva, nonché i miei studi filosofici e di filosofia del cinema, in particolare.

Quando è iniziata la voglia di affrontare l’ambiente fotografico-artistico e quando la voglia di ‘produrre fotografia’?

Da giovanissimo, quindicenne, avevo già la mia ‘camera oscura’ e la mia reflex con la quale già mi accingevo a scattare fotografie ‘strane’. Ho lavorato, sempre giovanissimo, a stretto contatto con artisti che seguivano la corrente artistica dell’Ottocento napoletano. Fotografavo, in giro per la Campania, scorci da riproporre alla loro attenzione.

Mi puoi indicare i fotografi bravi che hai conosciuto.

Il più importante per me è stato Vincenzo Esse, fotografo della Soprintendenza ai Monumenti di Napoli.

Hai operato, eventualmente ‘a quattro mani’ con qualcuno?

Con il figlio Francesco Esse nel settore della fotografia di architettura e pubblicitaria. Ho adoperato macchine a ‘banco ottico’, già alle mie prime armi. Poi, con il fotografo Claudio Vannucci in Toscana, a Lucca, nel campo della produzione e post-produzione televisiva.

Quali piste e tracce di maestri della fotografia hai seguito?

Ho seguito più i maestri della fotografia cinematografica che fotografi veri e propri. La fotografia cinematografica richiede una meticolosa qualificazione del mezzo da utilizzare. La ‘inquadratura’ nel cinema è un’attività maniacale. Mentre un fotografo gestisce tutto da sé, nel cinema esistono le professionalità. Il direttore delle luci è un vero e proprio artista, il direttore della fotografia è uno scientifico, ma creativo compositore. Il direttore della fotografia, nel cinema, richiede professionalità inusitate.

Quali sono le tue partecipazioni da ricordare?

Più che partecipato, ho lavorato con lo studio Esse e in emittenti televisive private in Campania e in Toscana. Prima ancora con il gallerista napoletano Giuseppe Morra ho condiviso periodi fecondi ed entusiasmanti di vita nel mondo dell’arte.

Puoi definire i temi che hai trattato in fotografia? Ma dentro c’è la tua percezione del mondo, forse, ma quanto e perché?

La mia ricerca ha comunque seguito un filone sperimentale di traccia metafisica. La mia lettura filosofico-orientale del mondo imprime l’ottica del mio sguardo fotografico. Il mio si può definire un «neorealismo onirico» (Tjuna Notarbartolo). Una realtà evaporata.
L’uomo è una traccia e tracce sono le cose da lui abbandonate nel mondo. Non un catastrofismo, ma un ‘post-esistenzialismo’. L’uomo ha smesso di soffrire per la propria esistenza.
Nelle mie fotografie vorrei far percepire nello spettatore un senso dell’abbandono, della migrazione dell’uomo in direzione del Nulla.

L’Europa è sorgiva per gli artisti dei vari segmenti? La ‘vetrina ombelicale’ londinese e quella milanese cosa offrono adesso?

Di certo, sono ‘mercati’ stimolanti anche se nuove realtà culturali (vedi la Cina) possono offrire partnership culturali abbastanza allettanti. Le capitali finanziarie sono anche capitali culturali e viceversa. Londra è senza dubbio la ‘vetrina ombelicale’ dell’occidente continentale. Le ‘intelligenze’ sono quasi tutte lì.

Pensi di avere una visibilità congrua?

Su «Flickr» attualmente godo di più di 20.000 visualizzazioni al mese.

Quanti ‘addetti ai lavori’ ti seguono come fotografo-artista?

Al momento, condivido progetti con il wedding photographer Pierluigi Sperindeo, con la cara amica Tjuna Notarbartolo (premio Elsa Morante) intrattengo una ottima e feconda relazione artistica. Con il fotografo Sperindeo, in particolare, sto mettendo in piedi una nuova attività di fotografia che scompaginerà il settore del wedding…

Quali linee operative pensi di tracciare nell’immediato futuro nel campo della fotografia?

Una ricerca spasmodica per una mia «semiotica della immagine» che tocchi sempre di più le corde della coscienza umana. La mia è una febbre per raggiungere la massima espressività fotografica. Vuol dire raggiungere il limite massimo della stessa fotografia. Le massime conferme sono in realtà delle clamorose smentite. Smentire la fotografia per affermare la fotografia.
La fotografia non riesce a fotografare sé stessa. Alla luce di ciò le mie linee operative si tracciano nel solco di una ricerca quanto più possibile condivisa con il pubblico degli addetti ai lavori. Le mie fotografie vorrebbero essere pagine di filosofia scritte con l’ottica fotografica.

Pensi che sia difficile riuscire a penetrare le frontiere della fotografia? Quanti, secondo te, riescono a saper ‘leggere’ l’arte fotografica contemporanea e a districarsi tra le ‘mistificazioni’ e le ‘provocazioni’?

Il mondo dell’arte, in genere, è sempre stato abbastanza eterogeneo. Quello della fotografia è stato sovente tacciato di ‘mimesis’ con scarsa valenza artistica.  L’occhio del fotografo, forse, ha maggiori responsabilità di un artista in genere.
«Fotografare la realtà» implica doveri ottici, da parte del fotografo, che altri occhi non hanno l’obbligo di seguire.
«Leggere la fotografia» e «leggere la realtà» camminano di pari passo, e questo è il fascino tutto particolare che contraddistingue tale arte/tecnica. Non a caso si suole dire: «fotografare la realtà» per intendere una «rettitudine ontologica» non richiesta ad altre arti figurative. Chi mistifica ha vita breve, non lo si può definire un vero e proprio artista. La provocazione potrebbe risultare interessante, vedi il Dadaismo e la Pop Art, ma a monte di tali specifiche provocazioni c’è una profonda conoscenza della questione artistica.

I social t’appoggiano, ne fai uso?

Come già detto, faccio parte della comunità di «Flickr» con discreto piacere personale condiviso con il gruppo.

Con chi ti farebbe piacere collaborare tra critico, artista, gallerista, art-promoter per metter su una mostra?

Un nome preciso, oltre agli amici già citati, con chiunque dimostri una sincera passione per le arti visive in genere e per la fotografia in particolare. Per un artista è importate contornarsi di persone che vivono il medesimo ‘sentiment’.

Hai mai pensato di metter su una rassegna estesa di fotografi collimanti con la tua ultima produzione?

Far collimare il mio linguaggio artistico con altri sarebbe difficile, ma non impossibile. Sono un individualista dell’immagine, troppo concentrato nel far uscire il mio linguaggio da essa immagine. Ma scambiare esperienze rientra, comunque, nel mio DNA.

Perché il pubblico dovrebbe ricordarsi dei tuoi diversi impegni?

Tutte le attività culturali che ho realizzato hanno sempre ricevuto una certa corrispondenza positiva di pubblico. Ricordo il mio «cineconvivium», un cineforum gestito con le amiche di «Artgarage» a Pozzuoli.  Film ‘tosti’ ma che godevano di una platea molto qualificata e appassionata. Quando ho realizzato il mio «booktrailer», ero primo in Italia nel produrre tale innovativo linguaggio mediale.

Pensi che sia giusto avvicinare i giovani e presentare l’arte in ambito scolastico, accademico, universitario e con quali metodi educativi esemplari?

Le arti dell’immagine sono quelle più idonee onde avere un approccio fecondo con il pubblico giovanile. L’immagine regna tra i giovani.
Ci insegna la filosofia che l’occhio è quel primo rapporto che abbiamo con le domande inquietanti. Non a caso il testo filosofico più importante in assoluto ha il suo nome sanscrito: Veda.
Un metodo che risulti consono per un prezioso approccio con i giovani è senza alcun dubbio l’utilizzo didattico dello smartphone.

Prossime mosse, Roma, Milano, Firenze, Londra, Parigi, NY...?

Nella vita non mi sono mai dato un limite, ma sempre un metodo per raggiungere quel limite massimo e oltrepassarlo con successo. Credo nel successo della meritocrazia e in arte come non mai.
Se il mio linguaggio dovesse affascinare, per la sua robustezza esistenzialista, avrò sempre più persone che desidereranno ascoltarmi. Tale non è un vantarmi, ma un mettermi costantemente alla prova. Amo sfidare me stesso andando in giro per il mondo.

Che futuro prevedi nell’immediato post-Covid-19 e nel post-conflitto Russia-Ucraina?

Il mondo girerà intorno al Sole come sempre. Gli esseri umani, già da tempo immemorabile, si sono fatti conoscere per quel che sono. Tutto ciò che accade è solo una fotografia di immagini già, ahi noi!, troppe volte viste. Per quanto concerne il discorso artistico, tali ‘calamità’ verranno contestualizzate nelle varie tecniche da parte degli artisti.
Nel mio «Postapocalisse» fotografo una «realtà dell’abbandono» già al suo stato massimo raggiunto. Pre-vedo ciò che ineluttabilmente si vedrà.
La nostra voglia di fare non può che documentare una non sottaciuta voglia di disfare. Il disfare regna sul fare. L’uomo, più che di realizzare, cerca di irrealizzare. La mia, tra le varie definizioni, si potrebbe chiamare una «fotografia del disfare».



Flavio Gioia, Postesistenzialismo A1, fotografia, cm. 70x100, 2021




Flavio Gioia, Postesistenzialismo A2, fotografia, cm. 70x100, 2021



Flavio Gioia, autoritratto con opera fotografica



A cura di Maurizio Vitiello
(n. 10, ottobre 2022, anno XII)



Nota biografica su Flavio Gioia
(Napoli,1957)
Cinefilo e studioso di filosofia del cinema: filosofia dell’immagine.
Discreta conoscenza di tecnica di programmi di montaggio video e di modificazione fotografica. Buona conoscenza di ripresa cinematografica e fotografica.
Esperienza ormai trascorsa da tempo ma decennale (in ambito fotografico nello specifico di fotografia di antiquariato, architettura e di mostre di pittura, nonché di fotografia pubblicitaria).
Esperienze in ambito locale di produzione e di post-produzione di programmi televisivi (blu-notte e Miss Muretto).
Tra i primi in Italia ha realizzato con mezzi propri un “book-trailer” su un suo proprio testo di poesie (Il canto del Mediterraneo).
A seguito e a conclusione della sua pluriennale esperienza come skipper ha pubblicato un opuscolo, edito da Intra Moenia, di ricette dal sapore mediterraneo dedicato agli appassionati velisti (Il vento in pentola).