Con Giommaria Monti su «Pasolini. La città dei sensi»

«In Pasolini si chiude un cerchio che va dal futurismo al neorealismo passando per l’esistenzialismo. A lui non sono consoni gli stilemi dell’ermetismo poetico di Montale o il lirismo di Ungaretti. E nemmeno il classicismo di Quasimodo o il manierismo di D’Annunzio. In Pasolini c’è più Baudelaire che Novecento italiano. Ma è, per usare una sua espressione, il “più moderno di ogni moderno”». Così Giommaria Monti, autore del libro Pasolini. La città dei sensi (Diadema Edizioni, 2022, a cura di Flora Fusarelli, prefazione di Andrea Di Consoli), dal quale prende spunto l’intervista che qui pubblichiamo nell’ambito del nostro spazio speciale Centenario Pasolini.
Giornalista e autore televisivo, Giommaria Monti è autore del programma di RaiTre Agorà. Ha lavorato con Michele Santoro ai programmi Annozero, Il Raggio Verde, Circus, Moby Dick e si è occupato per La7 di Omnibus, Niente di personale, Tetris. Ha pubblicato diversi libri, tra cui Falcone e Borsellino: la calunnia, il tradimento, la tragedia, Francesco De Gregori. Dell’amore e di altre canzoni e La notte brucia ancora (con Giampaolo Mattei), Hina. Questa è la mia vita (con Marco Ventura).


«Lo sguardo di Pasolini dentro la città ha una connotazione precisa e sempre uguale: la fascinazione, ovvero l’ipnosi, la rarefazione dell’immagine nello sguardo magnetizzato». Reputa che Pasolini nelle sue molteplici esperienze artistiche abbia puntato all’incantesimo, al mistero, alla fascinazione, alla malìa? Qual è la chiave d’accesso per discriminare i suoi intenti comunicativi?

Quello di Pasolini è un occhio vivente che effettua la ricognizione sulla città: nei film, ovviamente; nei romanzi; ma soprattutto nella poesia, in particolare nei poemetti de Le ceneri di Gramsci. Nel Pianto della scavatrice, dopo aver vagato per Roma, il poeta si imbatte nell’opera di demolizione di un palazzo per farne sorgere uno nuovo. È lì che si sommano il «dolore della distruzione», come lo definisce, allo stupore per il nuovo che avanza, la modernità. «Piange ciò che muta anche per farsi migliore», scrive in uno dei passaggi più alti del poemetto. In queste ricognizioni all’interno della città, l’occhio che guarda subisce la fascinazione di quello che vede: tra la luce che abbaglia e lo scuro della percezione. È la contraddizione dei due opposti che sono sempre legati nella sua poesia: è lo «scandalo del contraddirmi» che Pasolini rivendica a ogni passaggio. E questa convivenza dei termini opposti è spesso giocata tra luce e buio (in questo c’è la lezione di Roberto Longhi, il grande critico d’arte di cui Pasolini fu allievo e che gli fece scoprire i segreti del Cristo del Mantegna, di Masaccio, di Caravaggio…), dove lo sguardo che attraversa le cose è spesso abbagliato. «Ma a che serve la luce?», si chiede ne Le ceneri. Quindi non è il mistero o la malìa, piuttosto è la percezione dei sensi che forma e investe il racconto. Per questo ho voluto intitolare il libro La città dei sensi: nella descrizione della città ci sono gli odori, i sapori, i suoni, la tattilità che ogni strada gli rimanda. E quella percezione racconta una città che si trasforma in metropoli, dove si perde ogni punto di riferimento, dove i sensi si perdono.


Pier Paolo Pasolini giunge a Roma con sua madre il 28 gennaio 1950. Hanno dovuto lasciare la loro casa di Casarsa, è un periodo di profonda miseria, ciononostante Pasolini s’innamora perdutamente della città: «Roma è divina» sostiene. Quanto il sottoproletariato che vive in miseri sobborghi, le borgate hanno contribuito a definire l’uomo, i suoi incontri entusiastici, i suoi disincanto politici, i suoi amori, il suo radicalismo, i suoi attimi di avaria e di fuga?

Pasolini a Roma è lo «straniero friulano», e già nelle prime prove poetiche in dialetto friulano racconta un mondo al confine, un punto di congiunzione tra l’Italia e la mitteleuropa: scrive di soggetti sulla soglia di un mondo in divenire, che hanno una creaturalità arcaica, contadina, pura: incontaminata. Quel mondo lo cerca dentro le borgate romane, la cintura tra la campagna e la città, il luogo dove «la borghese storia non entra», come scrive ne Le ceneri di Gramsci. Cerca dentro quel luogo magmatico fatto di baracche e fango, di palazzoni in costruzione e prati al confine della città  un’umanità in transito, come la definisce, che aspira a diventare altro. Cerca in quei soggetti quella purezza non contaminata dal consumismo, dalla storia borghese, dai bisogni materiali che aveva lasciato nel Friuli del dopoguerra. Ma non è così, sono due mondi profondamente diversi e Pasolini mitizza un’umanità che è molto più elementare nelle aspirazioni: il sogno è quello di entrare dentro la città, dentro i palazzi popolari che sorgono come mura di un moderno medioevo dentro le periferie. È la storia di Mamma Roma, insomma.


Ragazzi di vita, Una vita violenta, Comizi d’amore, Accattone e Mamma Roma: si potrebbe discorrere di un atteggiamento «naturalista» di Pasolini verso la sessualità?

Indubbiamente l’elemento naturalista dà forma ai soggetti che racconta e verso la stessa sessualità di cui peraltro, al contrario di quello che si può credere, non c’è moltissima traccia nei versi, almeno fino agli anni settanta. Ma in Pasolini quel naturalismo è una forma di neorealismo, cioè la restituzione della realtà attraverso le sue forme e la percezione del reale. Può sembrare un paradosso (e, come ho detto primo, la forma della contraddizione è il suo stilema preferito), ma quell’universo sporco, fangoso, violento è colto in una creaturalità religiosa che non ha nulla di mistico ma molto di umano. Divinamente umano: Il Vangelo secondo Matteo è un film di uno spessore religioso immenso, così come La Ricotta, e quella religiosità si esprime proprio attraverso l’approccio creaturale e «naturalista». Il tormento del poeta è l’essere «con te e contro di te: con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere». È questo l’eterno stato della sua poetica: le buie viscere e il cuore che è luce. Ovvero la ricognizione diurna dentro la città alla ricerca della comprensione di un mondo che si sta trasformando (ed è il racconto della città), e il vagabondare notturno con la macchina alla ricerca del sesso. Ma sarebbe fuorviante leggere la poetica di Pasolini nell’ottica della sua sessualità, così come è fuorviante leggere la vita di Pasolini attraverso l’imbuto della sua morte. 


La vista, l’olfatto, il tatto. Sono i sensi il passaporto per evitare filtri ideologici e scavare nelle liriche pasoliniane?

Sì, come ho detto i sensi restituiscono la visione del mondo così come è percepito. Che non è una forma mai neutrale, è sempre un punto di vista forte sulle cose (e sappiamo quanto questi punti di vista forti sulle cose abbiano pesato nell’immagine di Pasolini). Del resto Passione e ideologia è una delle raccolte di scritti più nota e più importante. Pasolini non è mai distante dalle cose che racconta, ne è testimone e spesso soggetto che le esplora e le vive. Bisogna calarsi dentro con il suo punto di vista, attraverso i suoi sensi per farci investire dalla lucidità del suo racconto. Anche, direi soprattutto, in versi. Pasolini non è mai neutrale nel restituirci gli scorci che percepisce e che illuminano un universo più grande: quando nei poemetti de Le ceneri di Gramsci descrive gli odori e la luce di Testaccio, racconta un mondo che si trasforma in un modo che non gli piace. E non ne fa mistero. Quando in Mamma Roma o Una vita violenta, in Ragazzi di vita o Accattone racconta e filma le borgate e l’umanità ‘in transito’ che ci vive, racconta con la percezione dei sensi la fine di un mondo che sta diventando altro e non per questo migliore. L’ingresso «dentro Roma» è l’ingresso dentro la Storia che Pasolini definisce borghese e tragica. E quella mutazione antropologica dell’Italia che descrive e che lo terrorizza è tutta dentro la percezione dei sensi e della realtà.


Può offrirci un ricordo personale aderente alle ragioni che l’hanno indotta allo studio e all’approfondimento dell’opera pasoliniana?

Questo libro arriva da lontanissimo. All’Università ho studiato con Biancamaria Frabotta, una poetessa straordinaria e una docente universitaria rara. Per puro caso abitavo a Pietralata, il quartiere dove Pasolini ambienta la storia di Tommaso Puzzilli, il protagonista di Una vita violenta. Pietralata era ed è ancora un quartiere di Roma abbastanza comodo per raggiungere l’università La Sapienza. Non è vicinissimo come San Lorenzo, ma già allora San Lorenzo era un quartiere più fighettino e per studenti squattrinati come me Pietralata era più consono alle mie possibilità. Frabotta mi fece leggere Pasolini e ne rimasi folgorato per la forza del racconto soprattutto in versi della città di Roma. Una cartografia umana che mi parlava. Così mi laurai su Pasolini e Biancamaria dopo la laurea fece il mio nome a Laura Betti, la vestale di Pasolini e creatrice del Fondo Pasolini, quando le chiese uno studente da portare a Venezia per la retrospettiva sul cinema di Pasolini e la Betti voleva ci fossero una ventina di studenti o neolaureati. Dopo Venezia andai a lavorare per due anni al Fondo Pasolini con Laura, conobbi ogni carta, ogni fotogramma, ogni dettaglio di Pasolini. Poi iniziai a fare il giornalista e Pasolini restò sempre per me un nume tutelare. Tre anni fa mia figlia si laurea in architettura, parliamo molto di urbanistica e forma della città. Riprendo in mano cose dimenticate e ci lavoro. Grazie a Flora Fusarelli gli do un ordine, un percorso, un senso compiuto. Ne viene fuori La città dei sensi. Ho un dolore enorme legato all’uscita del libro. Dovevo chiamare Biancamaria Frabotta con la quale ero rimasto sempre in contatto in tutti questi anni e dirle «ho pubblicato il libro su Pasolini, devo dartelo anche perché c’è il ringraziamento a te e al tuo stimolo in tutti questi anni». Dovevo chiamarla, ho rimandato e una settimana prima che il libro fosse stampato Biancamaria è morta. Senza che fossi riuscito a darle il libro, nemmeno a parlargliene.


Gadda, Bertolucci, Bassani, Moravia, Morante, Citati, Penna: quanto è riconoscibile l’influenza degli «amici di Trastevere nella produzione letteraria di Pasolini?

Con alcuni di loro il legame fu anche umanamente profondo, Moravia e Bertolucci in particolare. Alberto Moravia condivise con Pasolini l'entusiasmo per l’Africa: nel 1969 fecero insieme un viaggio in Uganda (con loro c’era una giovanissima Dacia Maraini) insieme a una troupe perché Pasolini voleva realizzare un film, che poi divenne Appunti per un’Orestiade africana. E fu Moravia a tenere il discorso di commemorazione in Campo de’ fiori a Roma durante i funerali di Pasolini, il 5 novembre del 1975, tre giorni dopo il ritrovamento del corpo del poeta assassinato. Pronunciò parole molto intense: «Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue file. Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta». Ecco, Pasolini era innanzitutto un poeta. Prima che romanziere, regista, drammaturgo, corsivista, era un poeta. Esattamente come lo ha ricordato Moravia col quale ha davvero condiviso il mondo della Roma degli anni Cinquanta e sessanta.
E poi Attilio Bertolucci, che pure era poeticamente molto lontano da Pasolini ma di cui ha sempre riconosciuto la grandezza poetica: fu lui a presentare a Livio Garzanti un giovane Pier Paolo Pasolini «sceso a Roma dal lontanissimo Friuli». E così Sandro Penna, che dedicò nel libro Un po’ di febbre uno scritto sugli Scritti corsari di Pasolini e Pasolini scrisse di Penna e della sua poesia definendola «pura e inafferrabile» e dicendo «di Penna ho fatto un culto». Era un mondo che «puzza sempre di letteratura», come scrisse parlando di sé stesso Pasolini in una lettera a Bassani. Pasolini si trasferirà nel palazzo di Monteverde dove vive Bertolucci (via Giacinto Carini 45), dopo aver lasciato via Fonteiana 86, nello stabile dove era Gadda (la via del Pianto della scavatrice: «dove a via Fonteiana si dorme». A meno di 1.500 metri vive Giorgio Caproni (via Pio Foà). Carlo Emilio Gadda prestava soldi a Sandro Penna (che diceva «io ho campato per anni a spese di Gadda»). Pasolini stesso, scrittore e poeta affermato, aiutava e sosteneva economicamente il giovane Dario Bellezza. Certo che ripercorrere il circolo culturale di quegli anni a Roma, nei nomi che ha citato cui si potrebbero aggiungere moltissimi altri, fa veramente impressione: un sodalizio umano e intellettuale, un livello di elaborazione culturale poetica, narrativa, filosofica che l’Italia dopo non ha più conosciuto.


Attaccato e finanche osteggiato da tanti nel corso della sua vita, Pier Paolo Pasolini ha conosciuto post mortem una rivalutazione capillare. È da reputarsi un’icona pop?

Incredibilmente sì, è sicuramente un’icona pop probabilmente suo malgrado. Non amo la trappola del «chissà cosa direbbe oggi Pasolini». Non lo so e credo nessuno si possa arrogare il diritto di dirlo. Certo è che lui considerava la cultura di massa un’aberrazione, le cose scritte e dette nelle interviste negli anni Settanta sulla televisione, perfino sulla scuola di massa fanno molta impressione e non tutte sono condivisibili. Pasolini era un uomo di sinistra, un comunista italiano (come si definiva) profondamente cattolico. Oggi le sue parole contro l’aborto vengono brandite da chi vorrebbe riaprire la questione della 194 in Italia, soprattutto dopo la sentenza della Corte suprema americana. Personalmente lo trovo ignobile come trovo ignobile la strumentalizzazione politica dei suoi scritti. La destra ne ha fatto un punto di riferimento, bontà loro perché se c’è un poeta, un intellettuale che detestava tutto quello che arrivava storicamente dal fascismo questo era Pasolini. Basta rileggersi Comizio, il poemetto contenuto ne Le ceneri di Gramsci che racconta un’adunata a Roma dei militanti del Movimento sociale italiano, gli eredi del fascismo. Però l’idea che Pasolini sia uno dei poeti più conosciuti del Novecento, se non il più conosciuto; l’idea che sia uno degli autori più letti soprattutto dalle giovani generazioni e che sia oggetto di decine di tesi di laurea ogni anno nelle università, beh a me fa molto piacere. Se questo è essere un’icona pop, allora Pasolini è più icona pop di Che Guevara.


Esiste ed è definibile un’attualità pasoliniana per gli autori che sono arrivati dopo il 2 novembre 1975, giorno della morte di Pasolini?

No. Quel 2 novembre del 1975 si chiuse un’epoca iniziata proprio intorno alla figura d Pasolini. Certo, dopo la sua morte continuarono a pubblicare tutti, Gadda, Rosselli, Bellezza. Ma quell’epoca irripetibile finì con la sua morte. Gli scrittori venuti dopo non hanno avuto il ruolo e il peso nella letteratura e nell’opinione pubblica che ebbe un poeta come Pasolini. Nessuno di loro. E ancora oggi non si vede nessuno in grado di avere quel ruolo. Ma non solo perché mancano autori di quella levatura culturale e poetica. No, probabilmente perché i tempi e le modalità di espressione sono cambiati profondamente, la tv che per mestiere frequento ha avuto dagli anni Ottanta un ruolo determinante nel cambio di passo del ruolo degli intellettuali. In questo Pasolini fu profetico e lucidissimo, anticipando il disastro culturale e antropologico che ne sarebbe seguito.


Rebibbia, la zona cioè del carcere che sorge al di là dell’Aniene sulla Tiburtina, oltre Ponte Mammolo ed il Ciriola, il galleggiante sul Tevere sotto Ponte Sant’Angelo sono i due luoghi che fungono da cornice al nome ed alla figura di Pasolini.  Qual è il rapporto tra periferia e centro, cioè tra vita e letteratura per Pasolini?

Il libro che ho scritto, La città dei sensi, parla esattamente di questo. Io mi concentro essenzialmente sulla raccolta di poemetti Le ceneri di Gramsci scritta tra il 1952 e il 1956, perché è proprio il racconto di una città che diventa metropoli, che perde il suo centro e il senso unitario, dove le epoche disseminate nella struttura urbana non dialogano più tra di loro ma sono un sacrario di ruderi dove chi vive fuori dalla storia (gli abitanti delle baracche degli anni cinquanta della periferia di Roma), entra «dentro» la città, la attraversano senza possederla esattamente, come fa Pasolini nei racconti degli vagabondaggi  urbani che sono i poemetti de Le Ceneri. Ne restituisce le visioni, gli odori, i suoni delle officine di Testaccio, del silenzio del cimitero degli inglesi dove è sepolto Gramsci, del romanesco dei ragazzi di vita. E i sensi, appunto, non riescono più a cogliere il senso per leggere la metropoli che ha perso la sua unitarietà. A partire dalle persone, da quegli abitanti della fascia di confine tra quella che non è più campagna ma non è ancora città, a quelli che vivono fuori della storia e anelano a entrare dentro la borghese storia di una «stupenda e misera città».


Montale sosteneva pressappoco che, probabilmente, per molti anni la poesia avrebbe taciuto e che si sarebbe scritto prosa. Come considera inserita nel Novecento la poesia di Pasolini?

Montale è la vetta più alta della poesia del Novecento. Ma Pasolini ne è l’interprete finale. È stato nella poesia del Novecento un innovatore assoluto sui moduli del passato. Usa la terzina dantesca, la rima alternata, milioni di figure retoriche della lingua colta e della lingua popolare. In una poesia come Appennino si trova l’Italia classicista di Ilaria del Caretto, la statua di Jacopo della Quercia, con tutto il carico di tradizione culturale rinascimentale che segna ogni verso e insieme il mondo popolare delle periferie urbane. Due lingue che raccontano il mondo di sopra e quello di sotto, come sarebbe oggi facile dire di Roma. In Pasolini si chiude un cerchio che va dal futurismo al neorealismo passando per l’esistenzialismo. A lui non sono consoni gli stilemi dell’ermetismo poetico di Montale o il lirismo di Ungaretti. E nemmeno il classicismo di Quasimodo o il manierismo di D’Annunzio. In Pasolini c’è più Baudelaire che Novecento italiano. Ma è, per usare una sua espressione, il «più moderno di ogni moderno». È un poeta che ha improntato il Novecento come pochissimi altri autori. La poesia di Pasolini andrebbe studiata meglio senza il filtro dell’ideologia (ma un po’ è anche colpa sua), senza il filtro della sua figura di polemista e osservatore quasi profetico. Andrebbe studiata intanto per quello che è: uno dei vertici della letteratura italiana del Novecento.






A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 7-8, luglio-agosto 2022, anno XII)