Leopardi e Galilei, ovvero uomo, natura e mondo disincantato. Parla Giorgio Stabile

Laureato in filosofia presso l’Università «La Sapienza» di Roma, Giorgio Stabile è stato, prima, docente di Storia della filosofia medievale e di Storia della filosofia presso la stessa università; poi, dopo aver maturato interessi di studio e di ricerca al confine tra storia del pensiero filosofico e delle teorie scientifiche è diventato professore di Storia del pensiero scientifico moderno e contemporaneo presso l'Istituto Universitario Orientale di Napoli e in seguito di Storia della scienza presso il Dipartimento di Studi filosofici ed epistemologici dell’Università «La Sapienza», tenendo corsi di storia della scienza e cicli di conferenze anche presso le università di Friburgo, Losanna e Tours. È stato consulente scientifico e collaboratore per il settore di filosofia, teologia e storia della scienza della Enciclopedia Dantesca dell'Istituto della Enciclopedia Italiana, poi caporedattore della V Appendice alla Enciclopedia Italiana e attualmente è condirettore scientifico della Storia della scienza e dell'Appendice 2000 dello stesso Istituto. I suoi interessi spaziano dalla filosofia alla scienza, alla religione, alle arti, dall'antichità fino al XVII secolo. Giorgio Stabile è autore di saggi di riferimento sul pensiero filosofico e scientifico del Medioevo e degli albori della modernità, in particolar modo di Galilei e Newton, ma anche di grandi letterati-pensatori quali Dante (cito solo Strutture della percezione, teoria fisica e simbologia solare in Amor che movi, 1979; Navigazione celeste e simbolismo lunare in «Paradiso» II, 1980; Cosmologia e teologia nella Commedia: la caduta di Lucifero e il rovesciamento del mondo, 1983) e Leopardi (menziono Scienza e disincantamento del mondo: poesia, verità, nulla in Leopardi, 1998).
Con il professor Giorgio Stabile ho avuto la fortuna di collaborare in occasione della traduzione e pubblicazione per la prima volta in Romania, nel 2010, nella collana bilingue Biblioteca Italiana della casa editrice Humanitas, delle Lettere copernicane di Galileo Galilei. Giorgio Stabile non solo ha scritto una bellissima e limpidissima prefazione a quel volume, secondo me fondamentale per capire la svolta epistemologica e antropologica che segna l’inizio della modernità, ma ha avuto anche la gentilezza di illuminare il mio cammino di traduttrice, chiarendo i miei dubbi e liberandomi da incertezze ed esitazioni. Se quel volume è, nel suo insieme, affidabile non solo stilisticamente ma anche scientificamente, è anche merito suo.
Inizialmente mi ero proposta di discutere in questa intervista di Galilei – tema, secondo me, sempre di attualità se vogliamo capire il mondo in cui viviamo. Ma poco prima di iniziarla sono venuta a sapere, per un miracolo della fortuna, della passione (uguale alla mia) di Giorgio Stabile per Leopardi e degli studi approfonditi che ha dedicato al grande Recanatese. Perciò quello che vorrei ora è invece far capire che cosa, secondo il mio interlocutore, accomuna questi due grandi.


Professor Stabile, a due secoli di distanza, Leopardi, nello Zibaldone, chiama Galilei «primo riformatore della filosofia e dello spirito umano». In merito a questa affermazione Le farei una doppia domanda: che cosa intendeva Leopardi con questa qualifica, e resiste essa ancora oggi?

Si, cara professoressa Elian, Leopardi aveva perfettamente ragione. Scrivendo questa frase nello Zibaldone egli mostra perfetta coscienza che Galilei aveva aperto una nuova epoca e una nuova strada alla filosofia europea sradicando dalle fondamenta l’edificio dottrinale aristotelico-scolastico. Un edificio ereditato dal geniale accordo tra filosofia greca e teologia cristiana operato da Tommaso d’Aquino nel XIII secolo. Basta leggere la prima giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi e la Lettera a Cristina di Lorena. Galilei si oppose a un corpus di dottrine teologiche, metafisiche e fisiche, imperante nell’insegnamento di gran parte dei seminari e delle università d’Europa. Dottrine che, per forza di cose, erano entrate a far parte dello stile di pensiero del ceto intellettuale sia laico che ecclesiastico e che il giovane Giacomo ancora respirava in famiglia e negli insegnamenti dei primi istitutori. Se questa qualifica resiste ancora oggi? Sì, resiste, ed ha resistito nel corso di più di quarant’anni del mio insegnamento, nel mostrare agli studenti, prove alla mano, che la filosofia moderna europea inizia con Galilei per la decisiva influenza che prima, direttamente, ebbe su Cartesio ed Hobbes, e poi attraverso loro ebbe sulla filosofia e la scienza francese e inglese.

Nella sua Crestomazia di prosa, lavorata, cronologicamente parlando, parallelamente alle Operette morali, Leopardi fa di Galilei, per la quantità e rappresentatività dei brani riportati, l’eroe dell’antologia e, per i tagli e il collage di questi,  un alter-ego, cioè un ideale filosofo-scrittore che usa tutte le armi dell’argomentazione, le stesse armi che lui stesso usa nelle Operette. Che legame vede fra quello che si diceva prima, la svolta filosofica operata da Galilei e «sofferta» da Leopardi, e la loro, comune o diversa, concezione della lingua e dello stile?


Nello stesso brano di pagina 4241 dello Zibaldone dal cui finale lei ha tratto la frase precedente, Leopardi parla con grande ammirazione proprio dello stile di Galilei nato da ingenita nobiltà: «mi par di scorgere nella maniera si di pensare e si di scrivere del Galilei un segno e un effetto del suo esser nobile. Quella franchezza e libertà di pensare, placida, tranquilla, sicura, e non forzata… una generosità d'animo, non acquisita col tempo e la riflessione, ma quasi ingenita, perché avuta fin dal principio della vita...». Franchezza e libertà di pensare, due tratti identici nei due autori, ma a cui va aggiunto il feroce, il satirico, e il misto dell'uno e dell'altro, che sono tratti tipici della prosa di Leopardi espressi in modo straordinario nelle Operette morali, non a caso in forma di dialoghi tenuti assieme da un implicito e finissimo argomentare filosofico. Ma non si dimentichi che tratti simili di filosofia e scienza unite a ferocia satirica sono evidentissimi anche in Galilei, soprattutto nella polemica de Il Saggiatore. Ma è al Dialogo sopra i due massimi sistemi cui Leopardi qui pensa, un testo che fonde insieme, con magnanimità di lingua e di stile, maestria letteraria e assoluto rigore scientifico, ma che, si badi, è anche godibile come uno straordinario «dialogo» di una pièce teatrale disposta in quattro atti e alla cui psicologia dei personaggi il regista ha prestato una cura meticolosa.

Continuando le domande precedenti, come interpreta Lei il fatto che nelle Operette morali il «testo-cerniera» (come lo considerano alcuni critici) ha come protagonista Copernico e non Galileo? Perché, sebbene la scossa all’epistemologia e antropologia tradizionali, provocata involontariamente e forse inconsapevolmente dalla cosmologia copernicana, diventa non solo consapevole ma addirittura un ampio progetto culturale solo con Galilei.

Ma perché il primo colpo di genio non fu di Galilei ma di Copernico che ebbe il coraggio nel ritenere vera ciò che lui stesso chiamò una «absurda opinio». Proponendo un sistema che sconvolgeva, rovesciandola di colpo, una millenaria immagine del cosmo e, con essa, i dati immediati della percezione di ciascuno e di tutti, dal contadino al sovrano, provocò una reazione incredula e irritata e un trauma epocale che, non a caso, Freud pose tra i maggiori subiti dall’umanità. Doversi convincere che fosse un inganno dei sensi la stabilità della Terra e la rotazione sia del Sole sia della sfera stellata e che vero fosse l’esatto inverso, introduceva un dubbio radicale sulla veridicità delle nostre sensazioni e una frattura nella millenaria e illusoria posizione dell’uomo rispetto al mondo. Inconcepibile risultava l’idea che la Terra non fosse il centro fisso del cosmo ma una palla rotolante a trottola attorno del Sole e che non fosse mai stato il Sole a prendersi cura della Terra, e mai le stelle a misurare il tempo girandole attorno. Tutta la gerarchia fisica e metafisica del cosmo aristotelico e cristiano andava in frantumi. Calme, gravi e verissime sono perciò le conseguenze della rivoluzione copernicana che acutamente Leopardi mette in bocca al Sole nel dialogo Il Copernico: «Ma voglio dire in sostanza, che il fatto nostro non sarà così semplicemente materiale, come pare a prima vista che debba essere; e che gli effetti suoi non apparterranno alla fisica solamente: perché esso sconvolgerà i gradi della dignità delle cose, e l'ordine degli enti; cambierà i fini delle creature; e per tanto farà un grandissimo rivolgimento anche nella metafisica, anzi in tutto quello che tocca alla parte speculativa del sapere. E ne risulterà che gli uomini, se pur sapranno o vorranno discorrere sanamente, si troveranno essere tutt'altra roba da quello che sono stati fin qui, o che si hanno immaginato di essere.» Alla nascita di Galilei la scossa all’epistemologia e antropologia tradizionali era già un fatto compiuto, ampiamente discusso e consapevolmente ma fatalmente prevista da Copernico in sede astronomica. Solo che, morto Copernico, la famosa premessa di Osiander al De Revolutionibus lasciò liberi di pensare che quella copernicana fosse una semplice ipotesi matematica comoda ai computi astronomici ma priva di effetti sulla realtà. La rivendicazione di questa realtà e la convinzione che il vero sistema del mondo fosse quello copernicano fu un grande merito della lotta di Galileo. Ma il suo vero colpo di genio fu quello di ricostruire dalle fondamenta una nuova fisica e una nuova teoria del moto che partisse come un dato di fatto dalla rotazione e rivoluzione della Terra e dall’immobilità della sfera stellata. E questa compossibilità tra nuova fisica e astronomia copernicana Galilei ottenne applicando alla natura le leggi delle macchine semplici estendendo a scala universale la legge della leva e della stadera. Le Mecaniche di Galilei diventano l’incunabolo della scienza europea e, con esse, l’idea che la natura è una macchina composta da un cluster di atomi soggetti alla legge di gravità e al moto accelerato. Materia e movimento e non altro è la natura.

Nel bellissimo saggio su Leopardi citato sopra Lei rivela che le radici del pessimismo e nichilismo leopardiani affondano nella buona cultura scientifica del Recanatese, in modo specifico nella caduta dell’alleanza tra conoscenza e senso e, di conseguenza, nella perdita della comunicazione empatica dell’uomo con la natura –  «il disincantamento del mondo», come viene chiamata nel Suo saggio – provocata da Galilei. Vorrebbe spiegare?

La ringrazio del lusinghiero giudizio sul mio saggio. Preciso comunque che «disincantamento del mondo» è un’espressione non mia ma di Max Weber, e si riferisce alla presa d’atto dell’uomo moderno che la natura postgalileiana, come ho già detto, è pura materia in movimento e null’altro. L'unificazione della fisica celeste e della fisica terrestre fu la grande e sgradevole novità del Sidereus Nuncius, sulla base del riconoscimento che una, muta e identica, come quella terrestre, fosse la materia comune alla luna, ai pianeti e alle stelle. Questa idea, ormai affermatasi nella cultura del Settecento, era parte dell’insegnamento di fisica impartita allo stesso giovane Leopardi. La fiducia nella generalità delle leggi meccaniche, nella loro costanza in ogni punto della materia e dello spazio, si tradusse nella convinzione che, in via di principio, la natura non è animata né da forze incontrollabili né da virtù misteriose ma che tutto può essere dominato attraverso il calcolo. Il disincantamento del mondo è il crollo della magia che ancora Campanella, nel De sensu rerum et magia, riteneva strumento principe per legare e governare le forze della natura animata. Per lui le res, gli enti e gli oggetti in natura, hanno sensus, cioè sensazione, cioè sentimento, cioè volizioni che rispondono e, con l’ascolto, danno significato ai nostri richiami e possibilità ai nostri comandi. Quella che lei chiama empatia dell’uomo con la natura suppone, come ben sa Leopardi, un’illusoria comunanza di sensazioni e, dunque, un illusorio commercio emotivo e dei sensi tra uomo e natura e tra natura e uomo. Disincantarsi significa spogliarsi dall’erronea idea che le forze in natura siano manifestazioni di molteplici entità senzienti, personificate, e animate sotto forma di divinità e di esseri agenti ma invisibili che ci spiano ed ascoltano. Illusori e ingannevoli sono gli incantamenti della magia che attraverso pratiche o formule o evocazioni intendono soggiogare forze di potere inspiegabile e costringerle alla volontà dell’uomo. Tutto ciò che la natura muta e sorda comunica all’animale vivente sono urti di atomi e di onde che si traducono sulla nostra epidermide in stimoli che a loro volta si traducono in sensazioni tutte interne al nostro corpo e che proiettiamo all’esterno come fossero esterne. Non c’è luogo all’ottimismo se Galilei afferma nel § 48 de Il Saggiatore: «Per lo che io vo pensando che questi sapori, colori, odori ecc. per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non siano altri che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l'animale, sieno levate e annichilate tutte queste qualità». Rimosso l’animale vuol dire che rimossa la materia vivente dalla materia inerte della natura, la natura continua indifferente ad ‘esistere’ ma non più a ‘vivere’ delle sensazioni di qualità che senza di noi sono inesistenti. Al di là dello schermo delle qualità sensibili percepite dai soli viventi, la natura si rivela come materia senza luce, incolore, insapore, inodore, silente, indistruttibile e agitata da moto perenne. La natura non è altro che materia ‘insensata’ buia e indistruttibile, quindi eternamente esistente, ma non per questo eternamente viva. La scienza non è fatta per creare illusioni e Leopardi ne prende atto con l’estremo coraggio di sopportarne il peso.

Nella celebre Lettera a Benedetto Castelli le parole di Galilei: «la natura [è] inesorabile e immutabile e nulla curante» descrivono perfettamente l’atteggiamento della natura nel Dialogo della Natura e di un islandese delle Operette morali. Ma mentre per Galilei, credo, la scoperta di una Natura neutra e impassibile non era una sofferenza, al contrario, essa si accompagnava all’incantevole stupore di affondarvisi e di scoprirla, dopo due cento anni, malgrado i progressi scientifici e tecnici, ben conosciuti da Leopardi, ecco che tale scoperta è vissuta come «Tragedia dell’uomo». Come spiegherebbe questo cambiamento?

Preferirei riproporre la sua acuta affermazione nel giusto rapporto del post hoc, propter hoc vale a dire che l’atteggiamento della Natura nel Dialogo della Natura e di un islandese delle Operette morali descrive perfettamente e crudamente ciò che scrisse Galilei nella celebre Lettera a Benedetto Castelli: «la natura [è] inesorabile e immutabile e nulla curante» che è tuttavia preferibile completare con le dure parole che seguono che le sue recondite ragioni e modi d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli». Con ciò intendo sottolineare che la scoperta di Galilei di una natura legislatrice neutra e impassibile fu la scoperta di una natura gelidamente inaffettiva all’umano, verità che Leopardi intercettò dopo quasi due secoli nella sua accresciuta tragicità. E, se vuole, in questo sta il cambiamento, ma inteso come fatale ‘evoluzione’. Per Galilei, è bene chiarirlo, non si trattò in realtà di incantevole stupore quanto piuttosto di insaziabile brama di sapere propria di ogni scienziato e, se ben riflette, la scoperta delle sue sgradite verità costarono anche a lui tragiche e ingiuste sofferenze sino alla vecchiaia e oltre la morte, con la tentata damnatio memoriae. Semmai l’incantevole stupore di affondarsi nel grembo della natura e di scoprirla amante e madre fu il nostalgico e insaziato desiderio di Leopardi per una bellezza carpita appena nell’infanzia e mai più esperita se non nella forma della rimembranza. Il tragico fu la consapevolezza dell’insanabile privazione di un bisogno primario: il tatto immediato con la natura invariata e primitiva, il contatto col naturale schietto e illibato a cui la natura insensata della filosofia e della scienza aveva sottratto senso e significato. L’età adulta della verità e del disinganno era proprio l’età, a lui presente, dei progressi scientifici e tecnici della ragione e dei regressi del cuore. Il convergere nel cervello non solo di idee e di percezioni, ma di sentimenti ed emozioni teorizzato dalla nuova fisiologia, chiudeva un capitolo della fisiologia ritenuta vera ancora nel primo Seicento, cioè che il terminale delle passioni e dei sentimenti fosse il cuore.

Nel mondo di oggi, in cui l’ecologia è diventata un campo di indagine e di azione importante, con la genetica che prospetta cose impensabili prima e l’analisi della mente e della psiche che ha imboccato strade sorprendenti, come si presenta per i filosofi della scienza e i filosofi tout-court il rapporto uomo-natura?

Il rapporto uomo-natura attualmente è l’esatta prosecuzione di quanto sin qui abbiamo accennato. Ci si allontana sempre più dall’immediato percepito per sondare livelli di realtà sempre più lontani dal visibile quotidiano. Le scienze della mente, la psicobiologia, la neurologia non fa che affermare ciò che Leopardi temeva, la perdita del contatto immediato con il naturale schietto e illibato. Siamo in presenza di un enorme estendersi delle competenze del cervello nel costruire attraverso reti neurali realtà, sensazioni ed emozioni al di dentro più che al di fuori. Assistiamo a un processo di indefinita e sempre più minuziosa moltiplicazione delle mediazioni e dei passaggi interni al corpo, pari al moltiplicarsi indefinito dei pezzi di un puzzle entro una cornice che rimane fissa. Se si sfoglia un trattato di teoria dei processi sensoriali si scoprirà che l’esterno al corpo, gli ‘oggetti’ naturali dell’esperire non esistono più, si inizia di regola con la visione dalla pupilla, o dall’epidermide, al cervello per trasmissione chimica della pompa del sodio attraverso sinapsi e assoni. Si scoprirà che stimolando il nervo ottico la risposta ai diversi modi di stimolarlo sarà sempre la sensazione di luce che, appunto ‘tiene solamente la sua residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l'animale, sarà levata e annichilata questa qualità’. Chiuse alle spalle le porte di un museo, luci e colori scompaiono o, meglio, non esistono e non sono mai esistiti in natura se non attraverso di noi e dentro di noi. Il titolo di un recente libro di un brillante e serio fisico italiano, Carlo Rovelli, è La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose. In un recente seminario su Immagini del corpo al Dipartimento di Biologia dell’Università La Sapienza di Roma facevo notare agli studenti che il loro approccio immediato alla corporeità animale è ormai carente o assente, mentre lo è per i minuti dettagli della biochimica o per gli scambi di messaggi per via endocrina. La procedura di indagine si inverte di senso, come se, nel montaggio di una lampadina, si studiasse anzitutto la composizione chimico fisica del filamento di tungsteno. L’ecologia quotidianamente rivela che la biosfera, non diversamente dal mondo chiuso precopernicano, è una sfera inespandibile di sopravvivenza con un limite di ‘abitabilità’, per cui, come ebbe a dire nel 1997 il direttore della NASA Daniel Saul Goldin «Ci sono sei miliardi di persone nel nostro pianeta e aumentano di un miliardo ogni dieci anni. Basteranno le risorse naturali per rispondere alle esigenze di tutti? No: la specie umana dovrà trovare altri luoghi e l’unica via che conosco è quella dello spazio». Non tutte le cose impensabili sono di necessità auspicabili e bisogna abituarsi a pensare il progresso semplicemente come una forma di trasformazione esattamente come le metamorfosi di Escher.

Come si potrebbe spiegare il rapporto di Leopardi con la natura, il disincantamento leopardiano, ai nostri studenti senza trasmetter loro il tragismo che gli è proprio, pur ma facendone sentire l’incantamento poetico? Perché provo un certo disagio nel trasmettere ai giovani il fremito dell’«orrido nulla».

Personalmente mi consenta di non condividere il suo disagio nel trasmettere ai giovani l’orrido nulla di Leopardi, perché dovere di chi insegna non è trasmettere ma segnalare e indicare le cose, senza mentire o tacere, chiamandole con il loro nome e lasciando che siano loro a giudicare. Il pessimismo di Leopardi non è né un’infezione né una malattia, ma una condizione umana esposta in quasi tutti i suoi canti e anche nei momenti di più alto incantamento poetico. Dobbiamo allora emendarli? o fare come la polizia pontificia che metteva in prigione chi ne aveva in casa il libro? Il mio saggio che, come sa, non fa sconti sul nulla di Leopardi, è stato messo da alcuni colleghi in programma e dunque letto da studenti di lettere, di filosofia, di storia della scienza e tutti ne sono rimasti colpiti, qualcuno entusiasta ma nessuno scandalizzato. Ripeto qui che alcune delle più radicali deduzioni di Leopardi intorno al mondo disincantato e disingannato dal vero della filosofia e della scienza non deve recare scandalo, come scandalo non ne recò a Leopardi che semmai ne dedusse dolore. Egli stette fermo alle verità incolpevoli perché ineludibili della scienza, prendendone atto, e traendone le estreme conclusioni. Verità che spesso vengono esorcizzate e gravate di colpe per paura delle conclusioni che è forza trarre da esse. Questo coraggio di rivendicare o arrendersi alle verità della scienza fu merito grande sia di Galilei che di Leopardi. E semmai volesse indicare ai giovani la reazione più alta e civile di Leopardi, si rifaccia al richiamo al patto tra gli uomini contro i rischi dell’assedio del nulla, leggendo ad alta voce i versi 111-157 de La ginestra, o il fiore del deserto.



Intervista realizzata da Smaranda Bratu Elian
(n. 7-8, luglio-agosto 2015, anno V)