Giulia Ciarapica: «Abbiamo bisogno di comprendere la diversità, molto più di prima»

Chi dà luce rischia il buio (Rizzoli, 2022) di Giulia Ciarapica è il nuovo romanzo che chiude il cerchio della saga dei Verdini iniziata con Una volta è abbastanza (Rizzoli, 2019), a Casette d’Ete, un borgo sperduto dell’entroterra marchigiano. Siamo ormai negli anni Sessanta, i laboratori artigiani si trasformano in vere e proprie fabbriche da cui entrano ed escono padroni e operai, ma l’obiettivo resta sempre quello, ideare scarpe. La famiglia Verdini cavalca il boom economico e le loro calzature sono richieste all’estero, eppure la strada del successo si rivela insidiosa, tra scioperi e truffe da parte di concorrenti sleali. A risentirne è anche la famiglia, quel luogo misterioso in cui si mescolano le inquietudini dei figli e i grandi errori dei genitori.
Al centro ancora Annetta, che si porta dentro tutto il passato di Casette d’Ete, con i suoi fantasmi e i suoi lutti, e l’energia di un paese a cui ciascun figlio resta legato in modo indelebile. C’è anche Valentino, ex fidanzato di Annetta e oggi marito della sorella Giuliana. E tutti loro sanno che ogni cosa sta cambiando pur rimanendo immobile, e la Valens, la loro ditta di scarpe da neonato, ne è la prova.
Con la sua prosa limpida e nutrita della tradizione del Novecento, la scrittrice ci porta nella provincia marchigiana tra i miti scintillanti del boom e le lotte operaie, e ci ricorda che ogni famiglia è un posto diverso, illuminato e oscuro.


Da Una volta è abbastanza a Chi dà luce rischia il buio: ancora Marche, ancora Casette d’Ete e la famiglia Verdini, ma un frangente storico del tutto diverso. Con quale stato d’animo chiude questo grande cerchio?

Appena ho terminato la stesura del nuovo romanzo, Chi dà luce rischia il buio, mi sono sentita sola, perché sapevo che si sarebbe chiuso irrimediabilmente un grande cerchio. Mi sono concentrata su personaggi realmente esistiti, gente che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare per lungo tempo, dunque la tristezza, lì per lì, ha preso il sopravvento. Ma subito dopo, e in particolare da quando il romanzo è arrivato in libreria, ho capito che si trattava solo di un momento di passaggio: il cerchio si chiude ma in qualche modo resta aperto per qualsiasi lettore che vorrà entrarci.


La famiglia in Chi dà luce rischia il buio si presenta come un luogo misterioso in cui si mescolano le inquietudini dei figli nonché gli errori commessi dai genitori. Perché i legami famigliari sono sempre così passionali, in grado, al contempo, di allontanare e attirare, congiungere e dividere, annientare e generare?

La famiglia è un luogo a volte incomprensibile, altre assolutamente misterioso, in certi casi molto prossimo al pericolo. Non so dare una spiegazione logica al tipo di legame che la famiglia impone a chi la abita, so solo che esiste e che ci tiene stretti fino alla fine. È in questo nucleo, il primo con cui abbiamo a che fare, che abbiamo la possibilità di capire che cosa diventeremo, e non sempre quel che intuiamo ci piace. Forse per questo cerchiamo talvolta di allontanarci, di prendere le distanze, ma la radice è profonda e non ci lascia fuggire troppo lontano, è un dato di fatto. Prima o dopo, si torna sempre da dove si è venuti, che ci piaccia o no.


«Noi non facciamo parte del resto del mondo perché viviamo qui». Annetta di ciò è consapevole: si resta sempre e per sempre indissolubilmente legati alle proprie radici?

Credo di sì, ma azzardo una considerazione più ampia. Il legame con le proprie radici non ha a che fare con la possibilità o meno di andarsene o di evolvere, è qualcosa di più profondo che ci permette di riconoscere sempre chi siamo, in qualunque parte del mondo ci troveremo in futuro. Non ne faccio una mera questione di appartenenza ma di identità: solo se mi riconosco in ciò che faccio e in ciò che penso posso sperare di intraprendere un cammino anche molto diverso da quel che era stato pensato per me inizialmente.


Il percorso dei protagonisti si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. Quale valore attribuisce all’elemento della ‘memoria’ nella texture del suo romanzo?

La memoria è un tessuto malleabile ma anche appiccicoso, e per questo va tenuto a bada. Nel romanzo, tutti i miei personaggi hanno a che fare con questa materia ma solo alcuni se ne rendono conto, come Giuliana: lei vive di memoria, che non significa vivere di ricordi ma di un tempo passato, che la protegge e le ricorda che è viva, che c’è stato un lungo momento in cui è stata giovane, e che in fondo tutto è ancora possibile. In ogni caso, Casette d’Ete è un luogo intriso di vita remota, ciò che si è compiuto resta attaccato ai lampioni, alle strade, perfino ai rami degli alberi.


Annetta guerreggia contro la solitudine del non essere divenuta madre; Giuliana cerca nell’asprezza della maternità la risoluzione agli anagrammi interiori. I suoi personaggi femminili sono donne del Novecento, il secolo scorso. Lei ha redatto il romanzo in una contemporaneità in cui il dibattito sulla maternità è particolarmente sentito e acceso. Quali riflessioni ha inteso suscitare?

Volevo che emergessero due punti di vista: quello della madre mancata e quello della madre che non riesce ad accettare uno dei suoi figli. Mi premeva che venisse fuori il lato oscuro di ogni madre, la parte buia e dolorosa di una donna – Giuliana – che fatica ad amare sua figlia Gianna perché è così diversa da lei, tanto da sembrarle un giudice. Il punto di vista di Giuliana, in questo modo, sarebbe stato non solo quello di genitore ma prima di tutto quello di essere umano, perché ogni madre – nonostante la società la veda come una categoria a sé, con dei doveri più che dei diritti – si porta dietro le fragilità e le battaglie della propria vita al di fuori dei figli.
Annetta, invece, è colei che, a dispetto del carattere feroce e volitivo, mostra senza riserve tutto il dolore del non essere diventata madre. Capisce di essere davvero sola quando perde suo figlio, e da lì non tornerà più indietro.


Sul significato più profondo della scrittura e anche della lettura ci si continua a interrogare nei modi più diversi, come nella sorprendente favola della faina zoppa che impara a leggere, raccontata nel romanzo di Bernardo Zannoni, recente vincitore del Premio Campiello. Quale potrebbe essere, per lei, il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

La scrittura credo non abbia mai cambiato il suo ruolo. Ogni epoca ha avuto i suoi angoli bui, e il compito della letteratura, in larga parte, è stato quello di dare voce e forma a quell’oscurità. Ora, di sicuro, abbiamo bisogno di qualcosa che racconti l’incertezza, la paura, la paura di aver paura, ma che soprattutto ci insegni ad accogliere un punto di vista originale e inedito. Abbiamo bisogno di comprendere la diversità, molto più di prima e molto meglio di quanto stiamo facendo.


La scrittura contemporanea annovera tante scrittrici. Allo stesso tempo però si dice che ricevono pochi premi e faticano per emergere. Come vede l’attuale status della letteratura esperìta da donne?

Penso che negli ultimi anni le cose stiano cambiando in meglio. C’è più consapevolezza, più tenacia, e le donne stesse credono di più nelle loro enormi capacità. È vero che di strada ne dobbiamo ancora fare, e tanta, ma il punto a cui siamo arrivati mi sembra quantomeno significativo.


La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2022. In che misura pensa sia conosciuta in Italia e quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?

Di sicuro tra i miei autori romeni del cuore ci sono Herta Müller ed Emil Cioran, ma negli ultimi anni ho imparato a conoscere anche Mircea Cărtărescu. Temo che in Italia sia necessario lavorare ancora un po’ sulla conoscenza della cultura e della letteratura romena, ma se la scrittura – e dunque la lettura – sono, come dicevamo prima, veicolo di nuove opportunità e di nuove panoramiche, confido in una prossima e subitanea evoluzione.








A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone

(n. 12, dicembre 2022, anno XII)