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Intervista all’artista flegreo Giuseppe Massa, a cura del critico d’arte Maurizio Vitiello
Puoi segnalare tutto il tuo percorso di studi? La formazione di architetto mi ha permesso di coniugare il rigore scientifico dell’analisi con la dimensione creativa del progetto. Puoi definire e sintetizzare i desideri iniziali? Desiderio è parola che non amo, la sua etimologia restituisce il senso di una mancanza. Potrei invece definire costante l’interesse a educare lo sguardo anche se poi in definitiva come diceva Pessoa «ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo». Puoi segnalare i sentieri operativi che avevi intenzione di seguire e indicare quelli, effettivamente, seguiti? Il sentiero operativo sul quale sempre mi sono mosso (come architetto, come pittore, come docente) è stato quello di individuare le linee di una rifondazione disciplinare, in particolare della pittura che negli ultimi decenni andava sempre più perdendo la sua autonomia. Quando c’è stato in te la voglia di «produrre arte»? Da bambino, negli anni cinquanta, nello studio di mio padre, bravissimo pittore autodidatta, tra l'intenso odore della trementina e dei colori ad olio, cresceva la voglia di un viaggio tra superfici dipinte come un’avventura dalle tappe impreviste e inattese. Quando è iniziata la voglia di affrontare l’ambiente artistico? A metà degli anni sessanta, pur frequentando il liceo scientifico, per diversi motivi i rapporti si andavano consolidando con un gruppo di amici del liceo artistico. Con loro le prime mostre e le prime esperienze di lavoro collettivo. Mi puoi indicare gli artisti bravi che hai conosciuto? Quarant’anni nell’istruzione artistica e prima ancora mostre, incontri, partecipazioni mi hanno dato la possibilità di conoscere e frequentare artisti, in modo particolare dell’area meridionale, che ritengo significativi e che sarebbe superfluo elencare. Certamente, per me restano «bravi» quelli con i quali ho lavorato e che erano e sono rimasti amici per una vita, e parlo di Franco Canale, Mario Tatafiore, Gianni Lizio, Guglielmo Longobardo. Quali piste e tracce di maestri della pittura e della scultura hai seguito? Ho «guardato» con profondo interesse i colori di Matisse, le fantasticherie di Chagall, le composizioni di Klee, le superfici di Burri. Con chi hai operato, eventualmente, «a quattro mani»? Negli anni settanta e ottanta con Canale, Lizio e Longobardo. In seguito anche con Augusto mio fratello. Con mostre e interventi al Centro Arte Europa diretto da Peppe Morra, all'Arte Studio di Gaetano Ganzerli, alla Libreria Minerva, al Centro Ellisse di Salvatore Pica, all’Istituto Grenoble. E mi piace ricordare una partecipazione alla Libreria Dehoniana in una originale mostra (Napoli: stereotipo e/o realtà), curata da un giovanissimo Maurizio Vitiello. Quali sono le tue personali da ricordare? Per motivi sentimentali la prima nel '73 all’Arte Studio di Gaetano Ganzerli, con in catalogo le presentazioni di Francesco Abbate e Michele Sovente, da allora costantemente attenti alla mia attività. Ora, puoi specificare, segnalare e motivare la gestazione e l’esito delle esposizioni tra collettive e rassegne importanti a cui hai partecipato? In più di sessant’anni le mostre, le partecipazioni a rassegne, le collettive hanno avuto motivazioni, modalità organizzative, spazi espositivi diversi, ma tutte nascevano con l’intento di costruire, con successive approssimazioni, una ricognizione, un repertorio figurativo intorno agli archetipi del paesaggio. Puoi definire i temi che hai trattato? I temi trattati sono stati ora appunti dipinti ora frammenti di una indagine, di un racconto su di un territorio anfibio, liquido, morbido, solido e al tempo stesso fragile. Ma dentro c’è la tua percezione del mondo, forse, ma quanto e perché? Più che una percezione del mondo con la superficie dipinta è possibile risalire ad una «cosmogonia intuitiva» dove il paesaggio prende forma nello sguardo che percepisce antinomie sedimentate tra natura e artificio che nel processo creativo diventano aperto/chiuso, dentro/fuori, sopra/sotto. Ma il paesaggio è altrove, non basta guardare, bisogna vedere per leggere il senso profondo dello «spirito del luogo». L’Europa è sorgiva per gli artisti dei vari segmenti? Le «vetrine ombelicali» parigina, londinese e quella milanese cosa offrono adesso? Con la Seconda guerra mondiale inizia il declino irreversibile dell'Europa, nei decenni successivi quello di tutto il mondo occidentale. Pensi di avere una visibilità congrua? Non ho nessuna visibilità. Quanti «addetti ai lavori» ti seguono come artista? Nessuno. Non sono un artista, mi mancano quelle caratteristiche specifiche che attualmente sono l’ambizione, il narcisismo, la dimensione esibizionistica. Quali linee operative pensi di tracciare nell’immediato futuro nel campo della tua produzione? Oggi a me interessa più un approfondimento sulle cose fatte che una ricerca dagli incerti sviluppi. Pensi che sia difficile riuscire a penetrare le frontiere dell’arte? Quanti, secondo te, riescono a saper «leggere» l’arte contemporanea e a districarsi tra le «mistificazioni» e le «provocazioni»? Il «sistema dell’arte» privilegia per sua natura mistificazioni e provocazioni. I «social» t’appoggiano, ne fai uso? Divertenti ed effimeri, li uso con gli amici. Con chi ti farebbe piacere collaborare tra critico, artista, gallerista, art-promoter per metter su una mostra? Rispondo con una battuta: un solido committente. Hai mai pensato di metter su una rassegna estesa di artisti collimanti con la tua ultima produzione? Sul piano strettamente critico, per storicizzare esperienze e tendenze, rassegne del tipo indicato sarebbero certamente interessanti ma con evidenti complessità organizzative. Perché il pubblico dovrebbe ricordarsi dei tuoi diversi impegni? Non credo di dover essere ricordato, di certo restano le opere come frammenti e indizi capaci di disvelare o evocare, ma niente di più. Pensi che sia giusto avvicinare i giovani e presentare l’arte in ambito scolastico, accademico, universitario e con quali metodi educativi esemplari? L’educazione e la disciplina allo sguardo sono fondamentali per la formazione dei giovani. Le attuali tecnologie sarebbero supporto adeguato a metodi educativi innovativi. Prossime mosse, a Roma, Milano, Londra, Parigi, Tokyo, New York...? Senza figure di assistenza e supporto non sono consentiti progetti. La prossima mossa è sulla superficie bianca che attende disponibile. Che futuro prevedi nell’immediato post-Covid-19 e nei post-conflitti?
A cura di Maurizio Vitiello |
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