In dialogo con Irina Margareta Nistor, l’inconfondibile voce della Cineteca bucarestina

Continuiamo il nostro percorso dedicato al Centenario Fellini con un’intervista a Irina Margareta Nistor (n. 1957), critica cinematografica romena e membro di varie giurie cinematografiche nazionali e internazionali. Laureata in lingue straniere, è stata per lungo tempo traduttrice e interprete per la televisione romena e negli anni ’80 per la Cineteca bucarestina; nello stesso periodo ha realizzato in clandestinità la traduzione di oltre 3000 film registrati su videocassette che diffondevano in Romania il cinema occidentale. 

 

Irina Nistor, mi racconti del suo primo contatto con il cinema di Fellini, dell’impressione che le ha fatto.

È stato, credo, con La strada, film del ’54, che io ho visto negli anni ’60 in tv. Mi ricordo che non riuscivo a capire se il personaggio interpretato da Giulietta Masina fosse un maschio o una femmina (allora non sapevo che era proprio la moglie del regista) e poi giravo per casa e gridavo «È arrivato Zampanò!» imitando Anthony Quinn nel suo sforzo brutale di insegnare a Gelsomina come presentarlo. Il film mi ha lasciato un tale gusto amaro in bocca che dopo non ho più amato nessun film sul circo.

Quali dei film di Fellini sono i suoi preferiti?

Uno dei miei preferiti è Lo sceicco bianco del 1952, che pochi conoscono, con il geniale Alberto Sordi, che la gente qui ha dimenticato, e con la sceneggiatura firmata da Antonioni, un film atipico per i due grandi registi. Sullo stesso piano metterei La dolce vita e (d’altronde, in omaggio a quest’ultimo abbiamo numerato così quest’ultima edizione del festival «Psicanalisi e Cinema», dato che otto edizioni si erano svolte a Bucarest e una mezza edizione a Iași). Questi mi sono piaciuti soprattutto perché parlavano di un mondo a noi totalmente inaccessibile e che sognavamo. E non vorrei omettere E la nave va, un’originale crociera, scoperta prima dell’89, e che sicuramente attizzava il desiderio impossibile di evadere dal mondo comunista, dalle sue frontiere ermeticamente chiuse per gran parte di noi. 

Mi ricordo che a quei tempi i film di Fellini provocavano grandi dibattiti fra gli amici in casa. Lei come sentiva l’interesse e l’atteggiamento del pubblico di allora per dei film così diversi da quelli prodotti da noi?

Quello che so è la reazione degli anni ’80, periodo in cui, finita l’università, ho cominciato a tradurre dei film; e mi ricordo anche dell’interesse dei miei genitori che hanno avuto la fortuna di vedere La dolce vita quando la Cineteca si trovava nella Casa del Film, cioè al cinema Studio, in Piazza Romana. Ma i suoi film venivano programmati solo di rado, e a volte erano commentati dal grande critico Suchianu. Ma mi ricordo che le sale erano sempre strapiene.

Per parecchi anni lei è stata l’inconfondibile voce della Cineteca bucarestina, anni in cui abbiamo visto alcuni film di Fellini, ma anche di Antonioni, Visconti, Pasolini, per limitarmi solo all’area italiana. Ci rammenti un po’ quegli anni!

Io aggiungerei a questi nomi anche quello di De Sica. Erano film molto speciali che, probabilmente, avremmo desiderato che fossero girati da registi romeni. Antonioni l’ho tradotto varie volte alla Cineteca: La notte, L’avventura – che i comunisti avevano ritirato dai cinema, e l’avevano permesso solo alla Cineteca, perché aveva un pubblico più ristretto e più cauto, Il deserto rosso... Sono stata affascinata da Blow up e da Zabriskie Point. Di Visconti,ovviamente Il gattopardo e Senso, che ho atteso a lungo e che finalmente hanno dato anche da noi, come pure Morte a Venezia, di cui ho offerto un frammento a una delle famose trasmissioni tv, Le serate musicali, di quello straordinario «teleasta» (parola inventata allora) che era Iosif Sava. E non posso dimenticare anche l’angosciante Bellissima... Di Pasolini è stato dato, se ben ricordo, solo Il Decameron. Di De Sica, sulla lista dei film accettati – perché si poteva vedere solo ciò che la censura permetteva – c’erano Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, meno La Ciociara, difficile da censurare. I girasoli piaceva ai comunisti perché era ambientato in URSS e perché c’erano Mastroianni e Sofia Loren.

Che periodo della creazione di Fellini ama di più?

Io non la dividerei in periodi. La sua creazione è un tutt’uno e forse pochi sanno che all’inizio lui è stato un caricaturista, e ciò si nota in tutto l’universo da lui creato, un universo pieno di ironia e di ridicolo. Alla prima edizione del festival del film di Roma è stata allestita una mostra dei suoi disegni. Solo allora si è potuto penetrare più a fondo nel mondo di Fellini e capirlo diversamente.

Eppure se dovesse scegliere solo due film di Fellini per una retrospettiva dei capolavori cinematografici universali quali sceglierebbe e perché?

Sempre La dolce vita e . Forse anche perché sono tutti e due con Mastroianni, il suo attore feticcio... Nel secondo c’è un alter ego dell’autore, sempre anelante di avventure extraconiugali, ma sufficientemente discreti, c’è il suo harem più o meno immaginario. Nel primo però c’è la celebre scena con la Fontana di Trevi, che è diventata un luogo imprescindibile in ogni tour di Roma e che ha incentivato il turismo! Stranamente in nessuno dei due appare la sua musa e compagna, Giulietta Masina.

Vero, ma la Masina appare in altri film di riferimento, a cominciare da La strada.

Così è; e poi, nel ’57, le ha assegnato la parte della prostituta Cabiria, e anni dopo, come un risarcimento assoluto, quella di Ginger in Ginger e Fred, insieme a Mastroianni, titolo che suggerisce i loro nomi: G da Giulietta e F da Federico. Invece vale ricordare che ne La dolce vita appare Nadia Gray, una romena (il cui vero nome era Nadia Cușnir-Herescu), nata a Bucarest e sposata con un Cantacuzino, un asso dell’aviazione della Seconda guerra mondiale, con il quale era scappata a Parigi dopo l’instaurazione al potere dei comunisti. 



La strada


Secondo lei esiste un’«impronta» Fellini che rende facilmente identificabile qualsiasi sua creazione?

Era lui stesso a dichiarare, ironicamente (cito a memoria): «Io faccio sempre lo stesso film. Non faccio nessuna distinzione fra di essi». E con umorismo aggiungeva: «Benché mio padre volesse che io diventassi ingegnere e la mamma vescovo, io sono molto contento di essere riuscito a diventare un aggettivo». Ovviamente si riferiva al termine «felliniano», che, secondo la definizione corrente, vuol dire fantastico e barocco, e nella mia interpretazione: un mondo di buontemponi raffinato, apparentemente senza preoccupazioni e in cui loro in realtà non trovano il proprio senso, eternamente in pericolo di finire in qualche scandalo a sfondo sessuale e in avventure sulfuree, sempre rivelate da un paparazzo – termine ormai internazionale, inventato dal maestro ne La dolce vita,  che sarebbe diventato l’incubo e in parte l’assassino della Principessa Diana.

Sono parzialmente d’accordo con la sua interpretazione. Peraltro, si è detto, a giusta ragione, che Fellini (come tutti i grandi creatori) non ha solo una visione cinematografica propria ma anche una visione sulla vita e sul mondo propria.

Sì, ed è una visione leggermente grottesca. E lo citerei di nuovo: «I nostri sogni sono la nostra vita reale». È un neorealismo altro, in perpetua guerra con la Chiesa Cattolica, appassionato di circo ma anche delle onde del mare, con scene di infinita crudeltà visiva e psicologica, a volte da incubo. Insomma, a volte è dura; e forse la caratterizzazione migliore sarebbe la rivolta del gatto che teneva in braccio quando girava, proprio a Roma, Giulietta degli spiriti. L’ho scoperta solo rispondendo a queste domande e forse adesso ho capito meglio perché mia madre e io avevamo battezzato il nostro micio Fellini, un felino che amava stare sulla sedia del regista e fare sempre il geniale.

Secondo lei, la visione e/o l’arte di Fellini ha influenzato quelli che sono venuti dopo?

Eccome! Il suo stile non solo ha influenzato vari registi, ma è stato addirittura copiato dal suo connazionale: Paolo Sorrentino, nel 2013, quando gli americani gli hanno assegnato l’Oscar (Fellini ne aveva avuto quattro e dodici «nomination») per La grande bellezza, dove il nostro contemporaneo ha puntato sull’incultura cinematografica del pubblico odierno che non avrebbe scoperto il furto di idee e di atmosfera da e da La dolce vita. E ha ripetuto la cosa, almeno in parte, ne Il giovane papa di Netflix dove l’influsso della Roma di Fellini è più che ovvio. Aspetto una retrospettiva commentata per fare giustizia al grande mago della parola e dell’immagine che è stato Fellini.

Fargli giustizia da parte del pubblico? Ma oggi il pubblico è sicuramente un altro! Veniamo al dunque: secondo lei, la gente oggi continua a guardare i film di Fellini? Oppure anche essi, come i testi dei grandi classici, rischiano di essere museificati?

Secondo me, una volta scoperti, sicuramente il pubblico li amerà. Ma ci si dovrebbe sforzare maggiormente di introdurre l’educazione cinematografica nelle scuole, perché è un peccato attraversare la vita senza sperimentare la gioia di questi capolavori.


Intervista realizzata e tradotta da Smaranda Bratu Elian
(n. 3, marzo 2020, anno X)