«Choreoscope», il festival internazionale di «dance film» di Barcellona. Dialogo con Loránd János

Loránd János, regista e direttore artistico romeno, è fondatore, anima e direttore artistico del festival Choreoscope di Barcellona, che si è affermato nel corso dei suoi otto anni di vita come uno delle principali kermesse di film di danza, «dance film» e «dancescreen» a livello internazionale. Loránd János è nato a Miercurea Ciuc/Csíkszereda in Transilvania e ora risiede a Barcellona, in Catalogna. È regista di numerosi cortometraggi, come Gotan e Lynching.

Loránd János, che cosa è e come è nata l’idea per Choreoscope?

Choreoscope è il festival internazionale di «dance film» di Barcellona, in Spagna, ma non è certamente solo un festival sulla danza. È una kermesse sul cinema, sulla danza, sul movimento, sull’espressione corporea, sulla comunicazione non-verbale. Ed è proprio questa la cosa che mi attrae. Raccontare storie utilizzando il corpo e non le parole. Come saprai, più del 55% della nostra comunicazione è non verbale e proviene dal nostro corpo. Quindi ciò che trovo intrigante è capire come noi siamo in grado di raccontare storie utilizzando il linguaggio del corpo. Sotto questo aspetto, la danza è uno dei modi principali con il quale utilizziamo il nostro corpo per esprimere stati d’animo, emozioni, idee, e per comunicare tra di noi. Prima di iniziare con il festival, realizzavo «dance film» come regista e autore, perché vedevo una chiara relazione tra il linguaggio del cinema e il linguaggio del corpo e della danza. Il cinema si basa molto – beh, forse non Woody Allen, che è molto focalizzato sul linguaggio verbale – sul raccontare storie attraverso le immagini, utilizzando immagini e montaggio invece delle parole. In fin dei conti, il cinema è nato muto e utilizzava il movimento e il corpo per raccontare storie. Molti artisti del muto – Keaton, Chaplin e altri – prendevano lezioni di ballo e di danza. Ed è chiaro da come recitavano il perfetto controllo che avevano del loro corpo.
L’idea del festival nasce inoltre a seguito della realizzazione di uno dei miei cortometraggi, che volevo proiettare assolutamente in un cinema. Il problema era che era davvero corto. Quindi, sono partito alla ricerca di altri cortometraggi da proiettare insieme e fare una piccola programmazione. Così ho scoperto altri film bellissimi, sentendo la necessità di creare una piattaforma stabile per condividere questi grandi prodotti con il pubblico. Choreoscope insieme con alcuni altri «dance film» festival dell’area Mediterranea ha creato, inoltre, alcuni anni fa in un progetto che si chiama Mediterranean DanceScreen Netrwork, il cui obiettivo è di dare maggior rilievo alle produzioni del settore provenienti dai paesi del Mediterraneo in prospettiva globale. Vi partecipano il Festival Augenblick di Genova, Coorpi di Torino, Choreoscope, Athens Video Dance Project, il francese DesArts//DesCinés e il Festival de Videodanza di Palma de Mallorca. Un progetto importante di diffusione con cui miriamo a lavorare anche con realtà in cui il film di danza non è ancora molto presente, come i Paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo, oppure Malta, Cipro, la Turchia.

Prima di diventare direttore artistico del Festival, è stato lei stesso un regista. Come e dove si è formato?

Sono sempre stato attratto dal cinema. La mia creatività è sempre stata legata al cinema. Sin da molto giovane ho capito che era qualcosa che davvero volevo fare. Quindi, ho studiato «filmmaking» a Bucarest, un anno, il cosiddetto anno zero, l’anno intensivo preparatorio – davvero di alto livello – per entrare al corso di laurea in regia cinematografica dell’Università di Cinema e Teatro «Ion L. Caragiale». Ma dopo questo anno, non ho continuato il mio percorso di studi lì, e ho optato per un altro corso in fotografia all’Accademia di Belle Arti, sempre a Bucarest, corso che ho amato tantissimo. Mi sono quindi trasferito a Barcellona, senza continuare a Bucarest. Vivo a Barcellona dal 2001 e i primi tempi sono stati molto difficili per studiare e lavorare nei miei ambiti di interesse. Una volta che ho iniziato ad avere una maggiore stabilità economica e anche psicologica, la mia passione è ritornata forte a galla e ho iniziato a realizzare film. Sono sempre stato influenzato da Bob Fosse, che non è solo uno dei miei registi cinematografici preferiti, ma anche tra i miei coreografi e ballerini del cuore. Quando ho visto Cabaret e All That Jazz ho capito immediatamente che era ciò che volevo fare. Quindi, ho iniziato a prendere lezioni di danza, ma molto tardi con l’età. Avevo già 27 anni. Ho fatto un po’ di classico, jazz e contemporaneo. Amo davvero ballare. Dico sempre di avere il «complesso di Billy Elliot». Amo esprimermi attraverso la danza, ma non sono mai stato un buon ballerino. E se inizi a 27 anni è ovvio che non puoi farlo professionalmente. Inoltre, dopo tre anni, ho subìto un incidente che mi ha fermato per un lungo lasso di tempo. Nello stesso periodo mi sono avvicinato al lavoro incredibile di compagnie come i DV8 e di altri. Grandi scoperte. E così ho iniziato a realizzare i miei «dance film», prima ancora di creare il festival. Continuo a realizzare film, ma credo sia anche importate creare uno spazio, come il festival, dove gli artisti possono avere la possibilità di condividere il loro lavoro con il pubblico. Per questo, per me, Choreoscope è molto importante.

Insieme al cinema, si è anche formato in ambito pubblicitario e delle pubbliche relazioni. Ce ne vuole parlare?

Mi piace sperimentare. Adoro acquisire nuove conoscenze. In continuazione. Ma a ben guardare, la maggior parte delle cose che ho fatto sono in relazione con la creatività e la comunicazione. Inclusi gli studi accademici che ho intrapreso. In realtà quando mi sono trasferito a Barcellona dalla Romania, volevo studiare cinema ma era molto difficile, perché studiare cinema a Barcellona è davvero molto caro. Il mio secondo obiettivo era quindi studiare comunicazione audio-visiva. Sì, questo è poi diventato il mio obiettivo principale. Tuttavia, quando mi sono «presentato» all’università tutto ciò si è trasformato in studi pubblicitari. All’inizio era un po’ frustrante perché sebbene io ami il linguaggio pubblicitario, volevo fare comunicazione. Una volta che ho iniziato a studiare pubblicità e relazioni pubbliche è diventato chiaro, in realtà, come amassi questi argomenti. Vi ritrovai nuovi elementi che sapevo mi sarebbero stati di aiuto per intraprendere la strada che volevo, regista cinematografico e comunicare me stesso creativamente attraverso i film. Se pensiamo agli spot, quindi a dei prodotti audiovisivi, si tratta di 30 secondi, forse un minuto, dove tu racconti una storia per vendere un prodotto. Se elimini la parte di vendita del prodotto – ed è il motivo per cui non ho continuato nella pubblicità – rimane questa parte creativa che trovo di enorme interesse: la pubblicità ti spinge a raccontare una storia in un tempo così breve. Questo aspetto è sempre stato affascinante per me e continuo a considerarlo affascinante. Adoro guardare le pubblicità e, se le pubblicità sono fatte bene, sono piccoli gioielli.

Come autore cinematografico, lei è aperto a nuovi formati e nuovi modalità di produzione. Penso alle possibilità date dal digitale, come la realtà virtuale o aumentata, ma anche semplicemente ai telefoni cellulari e smartphone per realizzare film.

In realtà sono una persona molto «classica» riguardo il «filmmaking». Uno dei miei film preferiti è Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, che parla della magia del cinema. Ciò è dovuto forse anche al fatto che io provengo non dall’era digitale, ma da un’era ancora analogica dove i film erano ancora su pellicola. Io dirigo ancora cose dove il supporto è necessario e di per sé interessante. E ho molto rispetto per l’analogico. Tuttavia la rivoluzione vera del digitale è che ora possiamo creare contenuti in un modo molto più economico. Ha consentito a talentuosi autori e registi, che non potevano disporre di 35 o 60 millimetri per filmare, di esprimere loro stessi. Le nuove forme digitali inoltre credo abbiano reso il linguaggio cinematografico più ricco. È chiaro se consideriamo cosa alcune persone di talento possono fare coi telefoni cellulari, o se pensiamo alla realtà virtuale o alla realtà aumentata utilizzata per raccontare storie. Per me è affascinante e sono molto curioso di vedere come sarà in futuro. Mi piace sperimentare con i formati, ma se questi formati sono giustificati. Non mi piace utilizzare formati particolari solo per utilizzarli. Voglio vedere che sono giustificati narrativamente e drammaturgicamente. Questo è un aspetto che alcuni autori non considerano ancora pienamente. Altri invece riescono a realizzare prodotti eccellenti utilizzando questi nuovi strumenti.

Danza e cinema sono un connubio davvero interessante, specialmente da un punto di vista della drammaturgia e dello story-telling. Come mai i «dance film» stanno diventando sempre più popolari?

In realtà non penso che i «dance film» stiano diventando più popolari. Credo che oggi forse ci sia una seconda ondata di persone che hanno un po’ più di consapevolezza della presenza di danza e movimento nei film. La danza, come sai e come sappiamo, è stata presente sin dall’inizio del cinema. Puoi trovare la danza in Intolerance di Griffith e in molti altri film muti. Poi nei musical. Poi abbiamo film di danza che hanno avuto un grande riscontro di pubblico. Pensa a Billy Elliot, Black Swan, Flashdance o Dirty Dancing. Molti non considerano questi «dance film», ma semplicemente film. Quindi, vanno e si divertono. Vediamo la danza in un film recente come Climax di Gaspar Noé e la prima parte di Climax – che è un film horror – è una splendida sequenza di danza. L’intero film è interpretato da ballerini. Non credo che ci sia una nuova popolarità. Forse sempre più ballerini e coreografi stanno scoprendo le nuove possibilità che il linguaggio cinematografico dà loro per portare il loro lavoro a un ulteriore livello. Ed è la stessa cosa per i registi e i film maker che sempre più sperimentano con il linguaggio del movimento e della comunicazione non verbale. La danza è una lingua universale. Tutti ballano. Almeno in momenti specifici della loro vita. Anche chi dice che non balla.

Lei è anche consapevole di nuovi formati in termini di lunghezza dei film, come i cortometraggi di danza che durano meno di un minuto. È abbastanza un minuto per raccontare una storia?

I film in un minuto o meno di un minuto sono un formato che mi affascina moltissimo. Le pubblicità sono, come detto, un chiaro esempio. Devi raccontare una grande storia in meno di un minuto. Quindi, perché non farlo con danza e film? Ci sono alcuni fantastici «dance film» di un minuto, così come esistono competizioni internazionali. L’anno scorso sono stato giudice a La danza in un minuto a Torino ed è stato bellissimo vedere come questo formato sia una sfida per gli autori. E i risultati a volte sono eccezionali.

Quali sono le sfide che un festival cinematografico come Choreoscope deve affrontare oggi?

Le sfide sono molteplici e cambiano a seconda del paese. Festival simili a Choreoscope in paesi come Stati Uniti, Germania, Olanda o Francia sono valorizzati in modo totalmente diverso, non solo dal pubblico, ma anche in relazione ai finanziamenti pubblici. Nel mio contesto di lavoro, vi è una sorta di sottostima della cultura in genere. E anche se sono in giro da ormai molti anni, il «dance film» è ancora un formato nuovo ed è difficile far intendere, da un punto di vista del finanziamento pubblico, cosa sia esattamente. Le sfide maggiori sono sicuramente economiche. È un ambiente difficile anche perché, in una città come Barcellona, vi è moltissima offerta di eventi culturali diversi e quindi è problematico raggiungere il pubblico che deve scegliere il tuo invece di altri eventi.  Choreoscope ha vinto per il secondo anno consecutivo l’EF Label, un riconoscimento dato dall’Unione Europea che certifica la qualità dei festival in Europa. E siamo il primo festival di film di danza in Europa ad aver avuto questo prestigioso premio, a dimostrazione dell’eccellenza del nostro lavoro. Ma questo non si traduce necessariamente in un supporto pubblico, che Choreoscope dovrebbe invece ricevere dalle istituzioni pubbliche o da associazioni di danza. Tuttavia ci sono istituzioni e fondazioni che ci supportano. Tra questi sicuramente Flux Laboratory e Flux Foundation in Svizzera. Credono nel nostro progetto e ci aiutano ormai da anni. Sono tra coloro che davvero rendono possibile il nostro festival. Ci sono anche altre sfide e altre possibilità. L’era digitale ha reso le cose più semplici per un festival, per ricevere copie di film, e questo è un punto a favore. Ma bisogna sempre tenere presente la necessità di creare un programma di qualità. Quindi, vi è una sfida curatoriale.

Nel suo settore specifico quali sono i principali eventi a livello europeo? E in Italia?

Se posso, vorrei allargare un attimo il campo, considerando anche i festival più importanti a livello globale. È importante, infatti, considerare anche gli altri continenti. Ve ne sono alcuni fantastici negli Stati Uniti: il San Francisco Dance Film Festival e Dance on Camera di New York, quest’ultimo realizzato dalla «Dance Film Association» che è la più antica associazione di categoria al mondo, più di 60 anni di attività. È sorprendente vedere come i «dance film» esistano da così tanto tempo. Negli Stati Uniti questi sono i due più interessanti, con una programmazione di altissimo spessore. Abbiamo JumpingFrames ad Hong Kong, davvero necessario per coinvolgere l’intera Asia in questo settore. In Europa, abbiamo Cinedans ad Amsterdam che è sicuramente tra i più prestigiosi al mondo e l’Athens Video Dance Project in Grecia, che sta svolgendo un ottimo lavoro. Poi La danza in un minuto a Torino, organizzato da «Coorpi». Anche in questo caso un ottimo lavoro. In Germania, esiste il Moovy Tanzfilmfestival di Colonia. E, infine, vi era questo fantastico festival in Finlandia chiamato Loikka, a Helsinki. Sfortunatamente l’anno scorso o due anni fa è stata la loro ultima edizione ed è un vero peccato perché era un festival davvero fantastico. Come sorprendente è anche la produzione di «dance film» nei paesi nordici. Pensiamo a Lars Von Trier e al suo Dancer in the Dark che certamente è un musical ma ha questi elementi di danza come narrazione molto presenti. Von Trier ha lavorato moltissimo con il movimento e con l’espressione corporea. Direi che questi per me sono i festival più interessanti nel mondo per quanto riguarda questo settore specifico.

Alla fine di febbraio sarebbe dovuto essere protagonista di una proiezione speciale a Torino. Purtroppo per l’emergenza del Covid-19 che sta colpendo l’Italia, la Spagna e il mondo intero, l’evento è stato annullato. Ci vuole dire qualcosa di cosa si sarebbe trattato a conclusione di questa intervista?

L’anno scorso «Coorpi» che organizza La danza in un minuto, la sezione competitiva di «dance film» di durata di un minuto, a Torino, mi ha invitato a essere parte della loro giuria. «Coorpi» è anche parte del nostro Network e quindi noi come Choreoscope abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto con loro e con gli altri membri del network. Ci scambiamo informazioni, ci aiutiamo a vicenda. È un processo molto collaborativo fra tutti i festival partecipanti. Lavoriamo con «Coorpi» da molto tempo. E quest’anno «Coorpi» ci ha contattato nuovamente per una proiezione speciale in collaborazione con SEEYOUSOUND Torino, il festival internazionale di cinema a tematica musicale. Per il SEEYOUSOUND, sono stati proiettati in passato film come Timecode ≠ di Juanjo Giménez che ha vinto la Palma d’Oro per il miglior cortometraggio a Cannes nel 2016. Quest’anno, hanno chiesto a noi e a «DesArts//DesCinés» di Saint-Étienne di co-curare questa proiezione speciale che si sarebbe dovuta tenere il 28 febbraio al Cinema Massimo. Il titolo dell’evento era Risico Screening. Sarebbe stata un’esperienza magnifica perché è un nuovo pubblico che possiamo avvicinare e fargli conoscere il magnifico mondo del «dancefilm».




Intervista realizzata da Armando Rotondi
(n. 4, aprile 2020, anno X)