«Non sono sessista, ma...». In dialogo con Lorenzo Gasparrini

Non sono sessista, ma... Il sessismo nel linguaggio contemporaneo (TLON, 2019). Genere linguistico, biologico e sociale dimostrano quanto la dimensione linguistica emani riecheggiamenti nella maniera in cui si avverte la realtà, si erige l’identità e si calcificano i preconcetti.

L’autore del libro, Lorenzo Gasparrini, nasce a Roma nel 1972. Durante gli studi di filosofia e una breve carriera accademica in diverse università del centro Italia incontra testi e protagoniste dei femminismi, decidendo così, dopo aver iniziato un percorso di profonda critica personale, di dedicarsi alla diffusione e divulgazione di argomenti riguardo gli studi di genere, soprattutto rivolti a un pubblico maschile. Conduce seminari, workshop e laboratori in università, centri sociali, aziende, scuole, sindacati, ordini professionali, gruppi autorganizzati; pubblica costantemente su riviste specializzate e non, sia online che stampate. È autore di NO. Del rifiuto e del suo essere un problema maschile (Effequ, 2019) e Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni (Settenove). Qui l’intervista realizzata da Giusy Cappone.


Cos’è il sessismo e come si manifesta, professor Gasparrini?


Sessismo è una parola nata mezzo secolo fa sul calco di razzismo. Si definisce così qualsiasi discriminazione basata su caratteristiche legate al genere. Si può manifestare, come qualsiasi altro tipo di razzismo, ovunque e in qualsiasi modo: nel linguaggio quotidiano come in quello artistico o istituzionale, nei gesti e nelle abitudini, nei media, nelle leggi, nelle pratiche lavorative, nelle relazioni. Purtroppo già nella sua breve storia si possono notare occasioni nelle quali è usata a sproposito: non sempre una cosa che non ci piace e che viene messa in atto da chi non è del nostro genere è «sessismo».


Lei osserva e scandaglia le forme del linguaggio sessista. Da dove hanno tratto origine e quali trasformazioni può cogliere il suo studio tanto foriero di esempi concreti e pregnanti?


L’origine di qualsiasi discriminazione è nella gerarchia di potere che vuole conservare; come si trasformano le forme di potere, altrettanto si trasformano gli strumenti, com’è il sessismo, per conservarle. Il linguaggio sessista serve a mantenere un potere senza condividerlo, in maniera non paritaria; osservare e registrare le sue presenze, i suoi cambiamenti, ci permette di cogliere le trasformazioni dei poteri discriminanti nella nostra quotidianità come nei fenomeni sociali su più larga scala.


Quali metodi suggerisce per accrescere la contezza della meccanica della cultura patriarcale e, quindi, quali antidoti raccomanda?


Il primo passo è rendersi conto che la cultura patriarcale esiste, esiste ancora e non ha alcuna intenzione di cambiare o «passare» da sola; essa si trasforma e ciò che apparentemente può sembrare scomparso (la figura del «padre padrone», per esempio) molto probabilmente si è trasformato in un condizionamento diverso, più sottile, più labile ma ugualmente efficace (un genitore apparentemente fragile che con atteggiamento passivo-aggressivo condiziona le scelte dei suoi legami affettivi). Un antidoto unico non c’è, ma certamente bisogna partire da una critica ai propri condizionamenti di genere, che nessuno e nessuna può evitare.


La polisemia di accezioni (genere linguistico, biologico e sociale) che approfondisce, palesa quanto la dimensione linguistica irradi riecheggiamenti nella maniera in cui si percepisce la realtà, si edifica l’identità e si calcificano i pregiudizi.
Suppone che modi di dire, proverbi e battute possano impiantare l’anticamera di forme di abuso?

Quello linguistico è un circuito di condizionamenti e trasformazioni: i depositi di concezioni popolari e diffuse su «la vita» (come sono i proverbi, i modi di dire e i luoghi comuni umoristici) non solo sono anticamera di forme di abuso, ma spesso le spiegano e le giustificano come «normali» modi di avere relazioni, di giudicare comportamenti, di stabilire contatti interpersonali. Purtroppo il peso della tradizione ha un influsso negativo determinante nello stabilire quello che socialmente è ammesso come «normalità», «naturalezza» – e invece molto spesso è una discriminazione ormai diventata abituale.


Lei scrive: «[…] la storia si disinteressa dei modelli astratti e inesistenti quali sono le ‘persone’: le differenze di sesso, genere e orientamento hanno da sempre tracciato precise linee di potere, dominio, sofferenza e ingiustizia che non sono mai state indifferenti al corpo di chi le agisce e di chi le subisce. Annullare le differenze, storiche e attuali, in nome di una ‘giustizia’ uguale per tutti e tutte è la prima palese ingiustizia da evitare, la prima colossale e ipocrita mancanza di responsabilità sociale e storica».
Le difformità tra generi debbono, orbene, essere irrobustite?

Credo che debbano essere considerate come ciò che sono: differenze, ossia occasioni per accorgersi dell’esistenza di forme di vita differenti dalla nostra e alle quali quindi non è giusto attribuire caratteristiche o abitudini che non siano state concordate, richieste, scaturite da un dialogo, consensuali. Le categorie astratte sono molto utili per fare considerazioni generiche, ma quando abbiamo a che fare con corpi e linguaggi esse mostrano tutti i loro limiti e dovrebbero essere rimpiazzate da occasioni di ascolto, conoscenza reciproca e testimonianza ben più utili e feconde.


Lei ripercorre anche la quotidianità linguistica: abitudini, consuetudini, situazioni in cui tutti possono identificarsi, aprendo una riflessione sulla libertà che conferisce un uso pregno e consapevole della lingua.
La Parola possiede un potere civico?

Be', quasi non saprei dire cos’altro lo possiede. Le comunità esistono laddove c’è un linguaggio condiviso, e se la parola è l’unità minima di un qualche linguaggio, essa ha sicuramente un potere civico. Come tutti i poteri, quindi, essa può condizionare, fare del male oppure liberare e agire positivamente – sta alla comunità dei parlanti mettere in atto le pratiche necessarie a ottenere quei risultati così come a rendersi conto della loro efficacia.


Il linguaggio sessista è un «dispositivo culturale» risolvibile dal Legislatore?


Risolvibile direi quasi sempre no, regolabile direi quasi sempre sì. Ma occorre una volontà politica che riconosca il linguaggio sessista come un problema sociale affrontabile anche attraverso la legge. Questo è un passo ancora molto complesso da attuare.


«Meglio a destra con le escort che a sinistra con i trans» è un’espressione tratta dal web.
Quanto incide il contesto dei social media nell’acuire ed inasprire un clima già pregno di livore?

Credo che tra i grandi meriti dei social network sia quello di far apparire inequivocabilmente quei fenomeni sociali e quei condizionamenti personali che altrimenti sono più difficili da indagare e da comprovare. L’Italia non è «un paese razzista» – ammesso che questa espressione abbia un qualche senso – ma certamente tantissime polemiche e testimonianze nate sui social network ci hanno raccontato di una cultura che ha ancora grandi difficoltà a conoscere e rapportarsi col suo passato fascista e colonialista; l’Italia non è, allo stesso modo, «un paese sessista», ma tante realtà che spesso trovano spazio per esprimersi solo sui social network raccontano di una cultura che ha enormi resistenze ad accettare di riconoscere e mettere in questione i propri tratti patriarcali, maschilisti e machisti. Più che acuire e inasprire, l’azione dei social network mi pare quella di un «far emergere»; azione che, presa come punto di partenza, non può che portare a cambiamenti auspicabili.








Intervista realizzata da Giusy Capone
(n. 9, settembre 2020, anno X)