Perché fare l’«Inventario di un cuore in allarme». Dialogo con Lorenzo Marone

Per un ipocondriaco che vuole smettere di tormentare chi gli sta accanto con le proprie ossessioni, trovare una valvola di sfogo è una questione vitale. Ma come si impara ad affrontare la paura da soli? Forse raccontandosi. È quello che fa Lorenzo Marone in Inventario di un cuore in allarme (Einaudi, 2020), senza timore di mostrarsi vulnerabile, con una voce che all’ansia preferisce lo stupore e il divertimento. Scorrendo l’inventario delle sue fobie ognuno può incontrare un pezzo di sé e partecipare all’affannosa, autoironica ricerca di una via di fuga in discipline e pratiche disparate: dalla medicina alla fisica all’astronomia, dalla psicologia alla religione, dai tarocchi all’astrologia. Alla fine, se esorcizzare del tutto l’angoscia resta un miraggio, possiamo comunque reagire alla fragilità ammettendola. E magari accogliere, con un po’ di leggerezza, le imperfezioni che ci rendono unici. «Quel che vale per l’umanità, non vale per l’ipocondriaco. La prima chiara e lampante norma che costui deve seguire, un principio sul quale, bene o male, le varie forme di psicoterapia concordano, è questa: se vuoi mettere a tacere l’ossessione, non devi appoggiarti ad altri, non devi sviscerare le tue paure, non devi, diciamola tutta, rompere i coglioni di continuo a chi ti è accanto».
Lorenzo Marone ha pubblicato La tentazione di essere felici (Longanesi, 2015; Premio Stresa 2015, Premio Scrivere per amore 2015, Premio Caffè corretto città di Cave 2016, 16 traduzioni all’estero), che ha ispirato un film, La tenerezza, con regia di Gianni Amelio; La tristezza ha il sonno leggero (Longanesi, 2016; Premio Como 2016), da cui verrà tratto un film omonimo con regia di Marco Mario De Notaris; Magari domani resto (Feltrinelli, 2017; Premio Selezione Bancarella 2017); Un ragazzo normale (Feltrinelli, 2018; Premio Giancarlo Siani 2018); Tutto sarà perfetto (Feltrinelli, 2019) e il saggio Cara Napoli (Feltrinelli, 2018). Ho una rubrica fissa (I Granelli) su «la Repubblica di Napoli», collabora con «Il Venerdì di Repubblica» e con «Tuttolibri de La Stampa».


Medicina, fisica, astronomia, psicologia, religione, tarocchi ed astrologia: pratiche disparate e strampalate quali antidoto miracoloso alle ossessioni. Perché ha deciso di svelare la sua ipocondria e le azioni bislacche messe in atto per tenerle sotto controllo fino ad inventariarle?

Perché credo in un comune sentire, credo che condividere serva a esorcizzare, credo che questa società debba uscire dal loop della perfezione, della crescita personale a ogni costo, del successo come scopo ultimo. Dobbiamo imparare ad accogliere le nostre imperfezioni, le fragilità, i limiti, imparare a mettersi in ascolto di sé e degli altri, tendere la mano. Io per primo mi racconto, mi denudo, mi auguro possa servire da sprone.

«Quando, ancora libero e inconsapevole (insisto su queste due parole), ti accorgi che esiste la morte. E tutto cambia»: accorgersi, assumere consapevolezza, comprendere la propria finitezza. Ipocondria come alternativa sinonimica di ʽpensiero’, ʽcoscienza’?

Acquisire il concetto di morte per dare valore alla vita. Comprendere della nostra insignificanza nel tutto per darsi da fare e rendere degna la propria esistenza, capire che bisogna tendere a fioritura nel tempo (poco) che ci è stato concesso. L’ipocondria come presa di coscienza di sé, sì, come presa di coscienza della vulnerabilità dell’essere umano.

L’impegno di non interloquire della sua ipocondria capitola dinanzi a un risotto al radicchio e a un pollo agli agrumi, innescando una esilarante, spassosa, comica resa al suggerimento d’un serio psicanalista. Qual è la ragione per la quale l’angoscia è narrata in termini divertente e giocosi?

L’ironia è il solo strumento che abbiamo per difenderci dalle mazzate della vita, e nella narrativa lo è ancora di più, uno strumento. Altrimenti il libro sarebbe stato il lamento di un uomo impaurito, non avrebbe avuto senso e sarebbe diventato solo una gran rottura di balle. Invece queste pagine sono una ricerca.

Leggendo le sue pagine pare che emerga un elogio dell’imperfezione. È il difetto, la fragilità, l’incompiutezza che ci rende unici?

Sì, dare valore alle fragilità e alle imperfezioni, come quella tecnica giapponese, il Kintsugi, che ripara i cocci con l’oro e evidenzia le crepe. Abbiamo bisogno di umanità, di solidarietà, di gentilezza, tenerezza, accoglienza, siamo tutti uguali, tutti parenti, abbiamo il 97.7% di Dna uguale l’uno con l’altro, siamo esseri mortali, eppure passiamo il tempo a farci la guerra.

Quale proposta ci offre per rimanere a galla? Pensavo alle sogliole da lei citate.

Nessuna proposta, nessuna risposta, né insegnamento, solo l’invito ad ampliare lo sguardo, a cercare di migliorare sé stessi e il proprio piccolo pezzettino di mondo, così da migliorare tutti insieme il mondo.








A cura di Giusy Capone
(n. 2, febbraio 2021, anno XI)