Una vita per la Romania: Lorenzo Renzi. Il percorso umano e intellettuale di un grande romenista

Lorenzo Renzi, nato a Vicenza nel 1939, è uno dei più autorevoli romanisti e romenisti d’Italia, professore emerito dell'Università di Padova dove, dal 1968 al 2009, ha insegnato Filologia romanza, Lingua e letteratura romena, Teoria e storia della retorica e Lingua e letteratura provenzale. Oltre alla filologia si è occupato anche di linguistica e critica letteraria, È accademico emerito della Crusca. La sua bibliografia a stampa fino al 2008, si trova in Le piccole strutture. Linguistica, poetica, letteratura (Bologna, Il Mulino, 2008). 
L'attività del professor Renzi costituisce un capitolo importante della storia dell’insegnamento di Romeno all’Università di Padova. Questo ampio colloquio ripercorre, tra l’altro, alcuni momenti salienti del suo itinerario di vita legato alla Romania. L'intervista fa parte del volume bilingue a cura di Afrodita Carmen Cionchin dal titolo Orizzonti culturali italo-romeni. Prospettive ed esperienze / Orizonturi culturale italo-române: perspective şi experienţe (Ed. Brumar, Timişoara, 2012, 184 p.).


Poesia tradizionale e folclore romeno

Professor
Renzi, Lei ha dato contributi di rinomato pregio e prestigio alla romenistica. Come si colloca questa disciplina nell’ambito delle sue ricerche scientifiche e del suo percorso di vita?

La mia produzione sulla lingua e sulla letteratura romena è strettamente legata alla mia autobiografia, come credo che succeda per l’attività di molti studiosi. Sono stato in Romania nel 1968-69, per un anno o quasi, con una borsa di studio, e in questo periodo mi sono scelto un soggetto, come oggi si sceglierebbe un tema di tesi di dottorato. Allora il dottorato in Italia non esisteva e l’idea era mia e del professore che guidava i miei studi, Gianfranco Folena, il quale dava una grande importanza allo studio del romeno tra le lingue romanze e desiderava che io mi ci applicassi. Dunque, la nostra idea era di fare una monografia su un tema romeno. Ho cercato, ho chiesto consigli e alla fine mi sono fermato sui canti popolari romeni. Non era una scelta ovvia perché implicava delle conoscenze di etnografia e di folclore che in realtà non avevo, ma che devo dire ho acquistato rapidamente – anche se non so quanto profondamente, a dire la verità – proprio in Romania dove, all’Istituto di Etnografia e Folclore, c’erano dei grandi professori: Mihai Pop, rappresentante di punta della corrente strutturalista che allora dominava la scena europea; Ovidiu Bârlea, allievo del grande Constantin Brăiloiu, che ha lasciato opere importantissime nel campo del folclore romeno; Liliana Ionescu-Ruxăndoiu e Pavel Ruxăndoiu. C’era anche Monica Brătulescu, autrice di una monografia fondamentale sulla «colinda», che ho incontrato di nuovo tanti anni dopo in un viaggio a Gerusalemme, dove era emigrata. Al tempo stesso avevo seguito corsi e ho avuto contatti personali con Liviu Onu, con cui ci siamo rivisti poi per tanti anni, con Mihai Nasta che aveva seguito con entusiasmo i miei studi, con Alexandru Niculescu e Florica Dimitrescu. Ero insomma attorniato da grandi studiosi, in genere un po’ più anziani di me, tanti maestri che mi accoglievano, devo dire, più che come un allievo, come un amico.
Ecco che la scelta cadde sui canti popolari romeni, su un lavoro di stilistica le cui linee fondamentali sono state suggerite da Mihai Pop. Era quindi un libro uscito in Italia, scritto in italiano, che ha avuto una buona accoglienza sia in Italia, sia in Romania, dove è stato parzialmente tradotto, la cui ispirazione, però, non era nata dai miei studi italiani che pure avevo fatto con tanto impegno, ma proprio dall’ambiente culturale della folcloristica romena.


Il suo interesse per la letteratura popolare romena ha manifestato un’attenzione prediletta alla ballata «nazionale», Mioriţa.  Da cosa è stato mosso in tale direzione?

Ho seguito questo filone del folclore romeno, in particolare di «cântece bătrâneşti», per anni, un po’ rapsodicamente, fino a qualche tempo fa, con il mio ultimo intervento – il breve articolo Mioriţa a Padova, del quale parlerò più avanti. Mioriţa è un’opera che colpisce sempre anche i nostri studenti. Mi ha raccontato Dan Cepraga, mio allievo e ora professore di romeno all’Università di Padova, che, quando ha letto la Mioriţa ai suoi studenti di romeno – tra i quali anche dei romeni – uno di loro piangeva. Questo non mi meraviglia perché anche a me l’effetto che la grande poesia fa spesso è quello di commuovermi. Ci sono delle poesie che io non oso leggere in pubblico perché mi commuoverei e allora, a volte, ne devo scegliere un’altra, evitando quella che mi piace di più. È il caso, per esempio, di alcune poesie di Arghezi. Adesso divago un po’: ho fatto qualche tempo fa, insieme a Gabriella Molcsan, allora dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, una lettura pubblica con brevi commenti di poesia romena popolare moderna, in un paese della provincia di Padova, Cadoneghe, e abbiamo scelto una decina di testi che andavano da Eminescu fino ad Ana Blandiana, passando per Ion Barbu, per Arghezi, appunto, e qualche altro poeta importante, e nella scelta dei testi di Arghezi ho dovuto evitare i due testi che mi piacevano di più – Testament e Buna vestire – perché rischiavo di commuovermi leggendoli. Devo dire che i testi di Marin Sorescu che avevamo scelto hanno strappato due applausi a scena aperta. Con questo allargamento di orizzonte vorrei dire che, se la mia attività scientifica si è centrata soprattutto sui canti popolari e poi su alcuni studi di linguistica romena (l’articolo, i pronomi in romeno, la declinazione, i casi del romeno), in realtà ho cercato sempre di occuparmi di un po’ di tutto ciò che riguardava la lingua e la letteratura romena e questo anche, in particolare, nei sette anni in cui ho insegnato romeno all’Università, accanto a filologia romanza, ma anche in altre occasioni.


In che misura è stato influenzato dalla visione eliadiana nel trattare la poesia tradizionale e il folclore romeno?

Un giorno ho ricevuto, poco dopo aver pubblicato il mio libro sui canti popolari romeni, una lettera di Mircea Elide – la conservo ancora – che aveva saputo dell’esistenza del mio libro e mi chiedeva come avrebbe potuto procurarselo. Gliene ho mandato una copia, tant’è che nel suo libro Da Zalmoxis a Genghis Han (1970), uscito in francese e tradotto poi presto anche in italiano, è citato anche il mio libro, definito analisi estetica e stilistica dei canti popolari romeni. Avevo letto soprattutto il suo libro su Meşterul Manole (1943), molto importante, in romeno. L’avevo letto a Bucarest, nella Biblioteca dell’Accademia, «Fondul special», dove c’erano i libri che i romeni non potevano leggere, se non con un permesso speciale, e gli stranieri un po’ più facilmente, ma sempre con un permesso, appunto, «speciale». Le idee fondamentali di questo libro sui riti di costruzione sono state poi riprese da Eliade in altre opere, ma è qui che si leggono nella forma più distesa. Nel mio libro su «cântece bătrâneşti», incentrato prevalentemente sul piano stilistico, accettavo l’interpretazione etnologica della ballata Meşterul Manole proposta da Eliade.
A proposito di Eliade, qualche tempo fa sono ritornato sulla Mioriţa perché un giornale locale, qui a Padova, aveva pubblicato la notizia di un funerale di una giovane uccisa dal padre, celebrato in forma di nozze. Questo ricorda proprio il tema della Mioriţa, come è stato analizzato da grandi studiosi romeni, tra cui anche Eliade. È eliadiana specialmente l’idea che i temi dei riti si possano affievolire nella cultura moderna – dove il mito arcaico non ha più il ruolo centrale che aveva nella società tradizionale – ma non scompaiono. Mi è parso di vedere qui proprio un riaffioramento del tema mioritico. Ho scritto un brevissimo pezzo, interpretando questo fatto alla luce delle idee di Eliade, uno studioso la cui importanza non si esaurisce nel tempo. Eliade è morto da diversi anni, le sue opere non si trovano più nelle librerie di Parigi ai primi posti come qualche anno fa, ma il suo pensiero occupa un posto centrale e lo occuperà ancora, a mio parere, per diverso tempo.



Padova e l'attività accademica


Veniamo alla sua attività accademica, parte senz’altro importante della storia dell’insegnamento di lingua e letteratura romena all’Università di Padova. Come si rapporta a questa tradizione?

Sono stato professore di romeno per sette anni fino al 1990-91, quando l’Università di Padova ha ripreso i rapporti ufficiali con la nuova Romania ed è venuta a Padova la prima lettrice del rinnovato contratto tra i due Paesi, Laurenţia Dascălu Jinga. Contemporaneamente, un concorso di romeno ha portato alla cattedra Roberto Scagno, tuttora attivo. Sono stato, dunque, professore di romeno tra il ritiro del professor Ion Neaţă di Timişoara e il ritorno, si potrebbe chiamare, alla normalità, e anche al potenziamento dell’insegnamento di lingua e letteratura romena all’Università di Padova. Potrei dire che sono stato professore in un periodo di crisi e di decadenza, con la soddisfazione, però, di essermi trovato a occupare questo posto quando è avvenuta la liberazione della Romania nel dicembre del 1989 e quando c’è stata una straordinaria cerimonia improvvisata alla presenza del magnifico rettore dell’Università, prof. Mario Bonsembiante, in occasione della caduta del regime comunista.
Gli studenti di romeno erano molto pochi in questo periodo, cosa che si spiega benissimo con il fatto che i rapporti tra i due Paesi erano diventati pressoché inesistenti. Ho avuto, però, tra i miei allievi, Dan Octavian Cepraga, che è diventato poi professore di romeno, professore associato, dunque ho lasciato una discendenza e ancora da vivo ho dei discendenti, cosa che non può che rallegrarmi! Non sono un professore invidioso, che non vorrebbe avere dei colleghi più giovani, sono invece contento di avere un proseguimento così brillante del mio insegnamento condotto in anni, come dicevo, così difficili, avendo accanto peraltro due lettrici di livello eccezionale, Andreia Roman e Anca Bratu, che provenivano da Bucarest e che si trovavano allora in esilio. In questo periodo ho avuto anche una funzione politica e diplomatica, cioè ho, da un lato, cercato di avere a Padova una presenza dell’esilio romeno, contemperandola però dall’altro con la presenza del professore inviato qui dal governo romeno del tempo, Ion Neaţă, che continuava una tradizione di professori mandati da noi durante il periodo comunista.


Al suo nome è legata anche la Società di studi romeni «Miron Costin», attiva nell’ambito del Dipartimento di Romanistica dell’Università di Padova, dal 1986. Come è nata questa associazione e cosa rappresenta per Lei, che l’ha ideata?

Nello stesso periodo di cui Le parlavo prima, anche per sopperire al numero molto scarso di studenti, ho pensato di fare una società di ex-allievi e ho raccolto i nomi di tutti quelli che avevano studiato romeno, per quanto mi è stato possibile, fin dall’inizio del suo insegnamento a Padova. Ho quindi raccolto il nome di una cinquantina di persone che avevano studiato romeno in quegli anni, dal 1940 fin verso il 1980. Questa società intitolata a Miron Costin, per la bella pagina che questo «cronicar» ha scritto su Padova, era, come dicevo, una società di ex allievi e l’idea era anche quella di cercare di invitare i loro vecchi professori, almeno quelli che erano ancora vivi, comunque molti. La società ha avuto successo, le prime riunioni sono state, appunto, riunioni di ex allievi, tra cui anche un deputato, il dottor Achille Tramarin, e altre persone che si erano allontanate completamente da queste cose ed erano felici di ritornare per un giorno all’università e di respirare qualche cosa dell’atmosfera di anni passati. Poi questa società ha cambiato un po’, automaticamente, il suo volto ed è diventata un luogo di conferenze e di incontri che si svolgono anche adesso sempre con grande successo, a volte con pubblico maggiore, a volte con pubblico minore. Non le abbiamo mai dato una veste ufficiale, come succede per una certa allergia che hanno quasi tutti i professori alle pratiche burocratiche, ma questo non ha impedito che raggiungesse un suo posto e precedesse, di diversi anni, un’altra associazione, questa volta di livello nazionale, l’Associazione Italiana di Romenistica.


Al riguardo, qual è il ruolo dell’Associazione Italiana di Romenistica nella diffusione della cultura romena?

Inizierei con il dire che questa associazione ha uno statuto ufficiale, depositato presso un notaio, e che ha avuto come presidenti i maggiori studiosi italiani o romeni che sono stati attivi in Italia attraverso gli anni, a cominciare dal Professor Alexandru Niculescu. Anch’io ho avuto l’onore di essere presidente, fino nel 2007, di questa società che ha tenuto i suoi incontri in varie città d’Italia, da Roma a Pisa, Firenze, Bari, due volte a Padova ecc. Aggiungerei  inoltre che l’AIR possiede un sito nel quale ci sono materiali interessanti relativi agli studi di lingua, letteratura e cultura romena. È, quindi, un archivio vivo continuamente aggiornato, in cui si può trovare, per esempio, tutto il personale docente di romeno in Italia, le ultime novità nelle pubblicazioni e altre sezioni ancora. Così ci siamo messi anche al passo con i tempi, come si dice.



Crolla il muro: scambi culturali italo-romeni dopo il 1989

La caduta del comunismo ha avuto decisive conseguenze in ogni ambito e direzione. Come si caratterizza, a suo parere, l’evoluzione delle relazioni culturali italo-romene dopo il 1989?

Ho visto con piacere, leggendo i giornali, che non solo il prodotto interno lordo della Romania è molto cresciuto, ma anche il periodo di grandi difficoltà – che sembrava insuperabile dopo la caduta del comunismo, protrattosi molto a lungo – sembra in via di risoluzione. Certamente sono processi complessi in cui una parte della popolazione si arricchisce e vive meglio e un’altra parte rischia di vivere addirittura peggio. Questo relativo miglioramento del livello di vita si è riflesso immediatamente anche nell’attività culturale. Negli anni poveri e tristi durante il comunismo, c’erano poche cose che la Romania faceva in Italia; subito dopo, invece, c’è stata una grande apertura, iniziata con l’attività promossa  dall’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia e dall’Accademia di Romania in Roma. Queste istituzioni sono state per me i poli di richiamo della cultura romena in Italia. Ho partecipato negli anni a varie manifestazioni che hanno organizzato e posso dire che questa attività è oggi diventata molto più ricca, più vivace, sostenuta da persone di grande valore; il numero di iniziative promosse è addirittura tumultuoso e di questo c’è da rallegrarsi, naturalmente. Si sente un clima nuovo, si sente cadere quel complesso di inferiorità che si era accumulato, evidentemente, durante gli anni. L’impressione è, quindi, che le cose debbano andare di male in… bene, che ci sia un’evoluzione ascendente. Contemporaneamente, in un contesto più vasto si può notare che la linea culturale è andata cambiando, da una cultura un tempo forse troppo elitaria alle forme attuali di cultura in direzione opposta, un tipo di cultura spesso troppo divulgativa, che tende a un successo superficiale. Questi sono problemi molto generali che riguardano l’Italia, la Romania e tutto il mondo contemporaneo, aspetti inerenti alla globalizzazione che meriterebbero, senz’altro, una discussione a parte.


Tra i suoi vari incarichi, quello di consulente scientifico della casa editrice Il Mulino di Bologna Le ha dato modo di contribuire attivamente alla pubblicazione di autori romeni di prestigio. Qual è, a suo parere, l’interesse degli editori italiani per la cultura romena?

Dopo la caduta del comunismo, c’è stato in Italia un periodo di attenzione viva nella stampa, nell’opinione pubblica e presso le case editrici verso i Paesi che si erano liberati dal comunismo. Interi continenti poco conosciuti si scoprivano nelle loro varie dimensioni, tra cui quella culturale, e c’erano anche diversi autori romeni, come in altri Paesi dell’Est, dalla Repubblica Ceca alla Polonia e alla stessa Russia, che promettevano «tesori nascosti». Tra questi «tesori nascosti», io e altri colleghi, in particolare Marco Cugno dell’Università di Torino, siamo riusciti a rendere noti al pubblico italiano personalità come Constantin Noica, scrittore, filosofo, anche con una produzione saggistica molto brillante, che non era noto fuori dai confini della Romania se non in minima parte, poi un grande erudito, teorico della letteratura come Adrian Marino, e ampliare la conoscenza di Emil Cioran, la cui opera aveva una parte scoperta, quella della produzione francese, e una parte sommersa, molto interessante, quella della produzione romena, e infine, Nicolae Steinhardt, un caso a parte sul quale sarebbe troppo lungo adesso intrattenersi.
Questo interesse è durato per un certo periodo, poi, come succede, è diminuito, e alcuni progetti successivi non si poterono più realizzare. Per esempio, a me sarebbe piaciuto molto, per contribuire a una migliore conoscenza di Noica, stampare il Jurnal de la Păltiniş di Gabriel Liiceanu, un’opera affascinante che racconta la vita di Noica ma dà anche un quadro della scuola filosofica romena che si prosegue con l’opera di Liiceanu stesso, di Andrei Pleşu e altri. Questi progetti, come dicevo, sono rimasti nel cassetto, non per colpa nostra. Devo registrare tuttavia che, per esempio, l’opera di Noica ha avuto ulteriori edizioni: penso ad esempio ai due volumi tradotti e curati nel 2007 da Solange Daini, per iniziativa di Bruno Mazzoni, professore all’Università di Pisa e molto attivo nell’Associazione Italiana di Romenistica:  Trattato di ontologia e Saggio sulla filosofia tradizionale.


Lei si è occupato anche della stampa periodica romena esistente attualmente in Italia. Come vede la sua azione nell’aggregazione e nella rappresentanza della comunità romena?


A dire la verità non sono un esperto di questo, però ho cercato di attrarre l’attenzione in un paio di occasioni sull’esistenza di una stampa periodica – in genere costituita da settimanali o mensili – che esce tra Roma e qualche centro del Nord. Compero, in genere, questi giornali, come penso facciano i romeni, all’edicola della stazione, ne compero tre, quattro alla volta e li leggo con grande scrupolo. Trovo questa stampa molto interessante. Altri probabilmente la disprezzerebbero. Ma io penso sempre che quando l’Italia ha avuto un’emigrazione che ha coinvolto decine di milioni di persone, l’indifferenza dell’ambiente intellettuale italiano verso il fenomeno dell’emigrazione era quasi assoluta. Questo atteggiamento non è giusto. La nostra attenzione per i concittadini che sono fuori dai confini deve essere sempre viva e costante e i giornali di cui ho parlato riflettono il formarsi di una comunità, in Italia, destinata o a rimanere, o a ripartire. Una volta, in genere, l’emigrazione era senza ritorno, era destinata a diventare perpetua. Oggi, invece, le cose possono essere molto diverse perché c’è in genere più mobilità, più flessibilità dei flussi migratori, come succede per esempio nel caso dei romeni che emigrano in Italia e poi vanno in Spagna o viceversa, essendo questi i due Paesi più frequentati, ma è probabile anche che molti rientrino poi in Romania, con il realizzarsi di migliori condizioni concrete di vita, già in atto. Mi sembrava che queste fossero cose da osservare, non solo per vedere gli italianismi nella stampa romena – certi aspetti che tradizionalmente gli accademici studiano – ma anche, soprattutto, per vedere se si può parlare proprio di una comunità e quali sono i suoi tratti peculiari. Devo dire che, in particolare, ho apprezzato spesso il senso di equilibrio di questi giornali nel trattare alcuni problemi critici, assumendo sia la responsabilità di essere guida dei loro connazionali in minute questioni pratiche della vita quotidiana, sia, soprattutto, la responsabilità maggiore di rappresentare la propria comunità nell’ambito della società italiana.


Intervista realizzata da Afrodita Carmen Cionchin
(n. 5, maggio 2022, anno XII)