Ricerca e crezione, ecco il ruolo della letteratura e dell'università. Intervista a Luigi Tassoni

Luigi Tassoni è critico, semiologo e storico della letteratura. Ordinario di letteratura italiana all’Università di Pécs (Ungheria), dal 1994 dirige il Dipartimento di Italianistica della stessa Università e dell’Istituto di Romanistica, come pure i Seminari internazionali interdisciplinari di Pécs. Ha al suo attivo periodi di docenza anche nelle Università di Firenze e Bologna, alla University of Notre Dame (Indiana, USA) in quanto Fulbright Professor, e in numerose altre Università e istituzioni europee e americane come visiting professor. Tassoni è membro dell’Accademia Ungherese delle Scienze (MTA doktora) e presidente della Società Dante Alighieri-comitato di Pécs. Nel 2003, per il suo impegno culturale nel Centro Europa è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine della Stella della Solidarietà della Repubblica Italiana.
Le sue ricerche spaziano dalle arti figurative alla letteratura dialettale, dalla poesia contemporanea a quella di Dante e Petrarca, con un interesse accentuato per la semiotica,  la teoria della letteratura e l’analisi dei testi. Dei suoi 35 libri  di saggistica  bisogna ricordare almeno i due volumi di studi su Mattia Preti (1989 e 1990), Senso e discorso nel testo poetico (1999), Poeti erotici del Settecento italiano (1994) e i più recenti: Caosmos. La poesia di Andrea Zanzotto (2001); L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna (2004); La memoria familiare. Due percorsi incrociati: Tomasi si Lampedusa e Esterházy (2007); Il Viaggiatore visibile. Come si leggono i romanzi (2008).
La mia collaborazione con Luigi Tassoni è di lunga data, legata anzitutto ai convegni di italianistica e a vari progetti e incontri internazionali. Il grande interesse reciproco per le nostre ricerche è stato sempre accompagnato dal desiderio di confrontare metodi e risultati dell’insegnamento dell’italianistica nelle università romene e ungheresi. Ed è proprio da qui che inizia il nostro dialogo.

Professor Tassoni, prima di parlare delle sue ricerche, vorrei la sua opinione sulle nostre comuni preoccupazioni attinenti la nostra «missione» di insegnanti. In che direzione vanno gli interessi dei giovani ungheresi che studiano l’italiano all’università e nelle scuole?

Credo che inizialmente la spinta a studiare la cultura e la lingua italiana, terza lingua più studiata nel Paese, nasca dal desiderio di comunicare con un mondo che si sente vicino, attraente, forse per la multiformità delle offerte che l’Italia della cultura e del presente mostra apertamente. Poi subentra la coscienza di entrare in un pensiero coinvolgente, affascinante per il suo passato e creativamente imprevedibile per il presente. In certa misura i giovani italianisti trovano occupazione nel mondo del lavoro, e comunque portano con sé un bagaglio che è sempre una marcia in più, una carta da giocare al tavolo verde della nostra non limpida storia economica.

Nelle facoltà umanistiche delle Università romene si manifesta la tendenza a far diminuire, quantitativamente (e forse anche qualitativamente), l’insegnamento della letteratura, sempre più soppiantata da materie più generiche e dai contorni imprecisi come la civiltà o gli studi culturali. Cosa pensa di questa tendenza, come la spiegherebbe e quale è la situazione al riguardo in Ungheria?

Per fortuna in Ungheria studiare nell’ambito dell’Italianistica significa ancora abbracciare in toto una cultura «forte», che non può essere diluita a uso e consumo delle agenzie turistiche o di una idea falsata, e ministeriale, di «mediazione», assolutamente infondata. La letteratura, anche istituzionalmente, rappresenta un avamposto per le intelligenze e per la personalità. Non si può rinunciare alla proposta di umanesimo che noi europei potremmo continuare a dare per un mondo vivibile, migliore, forse, e certamente consapevole che le persone contano più dei numeri. Fra l’altro, e lo dico come esempio perché sia allargato al tema cogente del mondo del lavoro, personalmente io non apprezzo affatto gli indici di ascolto, i fenomeni mediatici, le icone cult, i cosiddetti best-sellers, finanche le classifiche dei libri: come altri fenomeni sono pericolosi perché nascondono un grande vuoto. Quanto alla programmazione universitaria ungherese, ammetto che conosco bene quella di Pécs, meno e in modo non affidabile quella delle altre Università del Paese. E a Pécs in generale la letteratura gode di ampio credito: i programmi consentono di impostare studi comparati. Nel Dipartimento di Italianistica lo spazio destinato ai programmi di letteratura copre vari insegnamenti: storia della letteratura, quattro corsi progressivamente destinati alla periodizzazione dalle origini ai giorni nostri, letterature dialettali, letteratura e filologia romanza, analisi testuale, interpretazione del testo. Se ne deduce la grande fiducia da noi programmaticamente coltivata nei confronti della formazione letteraria come necessaria  per i giovani europei di oggi. La base, dunque, l’offerta e l’utilità degli studi letterari e linguistici prospettano un obiettivo ampio, una applicabilità alla vita moderna.  

Una delle lamentele negli ambienti universitari di tutto il mondo, per lo meno nel campo degli studi umanistici, si riferisce al fatto che gli studenti leggono sempre di meno e sostituiscono la lettura critica con i digest delle antologie e di internet. Come valuta questo nostro problema apparentemente comune?

Mi pare che, contro tutte le Cassandra, i risultati riguardino differenti livelli: la qualità della lettura si è sì specializzata, ma anche ha ampliato la base degli interessi nella direzione della poesia, del romanzo, del racconto, intesi come chiavi per la comprensione di un mondo culturalmente misto, a vocazione comparatista. Le tecnologie e i social networks aiutano e non ostacolano questo processo di apertura alla compresenza di più tipi di codici comunicativi e creativi. Quanto alla diffusione di contenuti in pillole, tutti sanno che si polverizzano con grande facilità. D’accordo, viviamo in un mondo spesso culturalmente superficiale, talora di facciata, ma anche smascherato e smascherabile con altrettanta facilità, tanto che i lettori non si fidano più delle formulette della critica dei quotidiani, e dei media, troppo vicini al potere della grande editoria. Il pericolo per chi non approfondisce è sempre quel vuoto di cui parlavo prima. Quanto poi al ruolo inesauribile della critica «seria» come apertura interpretativa, come lettura nella lettura, come percorso dentro la consistenza delle opere, trovo che nessun sintetismo intensivo da manualetti potrà mai sostituirlo, così come nulla possono le facili formule, le clips e i condensati testuali anche in rete, oggi che stiamo rivedendo persino i limiti delle grandi correnti culturali e adeguando le conoscenze in materia di metrica testuale.

L’università è e deve essere anche un laboratorio di ricerca e di creazione e sono sicura che anche nella sua conta molto questo aspetto. Sarebbe utile sapere come è organizzata e valutata l’attività di ricerca nel suo dipartimento: si preferiscono i progetti collettivi, di grande portata, con risultati editoriali o didattici complessivi, oppure quelli individuali? Quale è, secondo lei, la via migliore per il rafforzamento istituzionale e lo sviluppo di un certo campo? E per la crescita individuale?

La ricerca scientifica e la sperimentazione didattica sono il fulcro dell’università di domani, cioè di quella che viviamo. Dunque, i progetti di ricerca, purché fondati su percorsi analitici e non solo descrittivi, hanno per gli Italian studies, a Pécs, un grande valore sia individuali che collettivi, e trovano ospitalità in rivista e/o in volume, nonché nelle testate online. Per conseguenza la crescita avviene simultaneamente sia nel metodo di ricerca sia nel singolo ricercatore, e il rafforzamento delle discipline matura nel processo di coesistenza relazionale con campi confinanti. Insomma, l’Università continua a fornire chiavi interpretative: e ciò vale tanto per i testi di Dante quanto per la complessità del nostro mondo. E direi che i due riferimenti non sono poi così estremi o distanti. Proprio per questo da Pécs è partita negli anni una proposta che coinvolge tanti scrittori, poeti, critici, in una forma di collaborazione costante, quella dei nostri Seminari annuali. L’ultima concreta dimostrazione della ricchezza e qualità alta di questo lavoro si trova in due volumi, curati e elaborati in forma coerente da Milly Curcio nei recenti volumi La fortuna del racconto in Europa (2012), e Le forme della brevità (2014).

Ho guardato sempre con ammirazione e persino con invidia alla rivista scientifica internazionale di studi italiani «Nuova Corvina», pubblicata dall’Istituto Italiano di Cultura di Budapest, che riunisce intorno a sé non solo tanti grandi nomi delle università italiane e il fior fiore dell’italianistica ungherese ma anche i giovani che cominciano ad affermarsi nel campo. Ce ne può parlare?

Come sa, «Nuova Corvina» rinasce nel 1993, e io entro nel comitato di redazione l’anno successivo, al mio arrivo in Ungheria. Ma il vero e proprio impulso per qualità e contenuti, secondo me risale al 1999, con il n. 6 e la bellissima veste tipografica voluta da Giorgio Pressburger. Da allora la rivista svolge la funzione di messaggera dell’italianistica nel mondo, grazie all’Istituto Italiano di Cultura di Budapest, che ne è l’editore e dunque il finanziatore unico.
Oltre al cartaceo, i lettori interessati possono da tempo consultarla gratuitamente online. Sarebbe indispensabile che in ogni centro universitario di diffusione della cultura italiana, specie in Europa, gli Istituti italiani destinassero una parte davvero minima del proprio budget per pubblicare una rivista di studi italofoni come spazio di discussione e di testimonianza concreta nel mondo della serietà e dell’alto livello qualitativo dell’italianistica all’estero, autentico polo d’attrazione per i beni culturali italiani valorizzati benissimo da non italiani. Ad esempio, l’italianistica romena vanta una tradizione e un presente di grandissimo livello, riconosciuti da un orizzonte internazionale. Perciò mi pare urgentissimo che proprio da Bucarest ci giunga una rivista, magari sul modello della nostra di Budapest, capace di darci una testimonianza puntuale (come noi, un numero all’anno) delle grandi risorse dei maestri, dei giovani, e persino degli italianisti in pectore, che dànno un contributo irrinunciabile alla conoscenza della lingua e della cultura, indispensabile tanto per gli italiani quanto per tutti gli «italianizzanti» nel mondo.

Torniamo ai suoi lavori, anzitutto a quelli dedicati a importanti poeti del nostro tempo: gli studi su Ungaretti e su Valéry (di cui è anche traduttore), e quelli che arrivano fino ai poeti della nostra contemporaneità,. in particolare i volumi su Sandro Penna e Andrea Zanzotto, segnano un riferimento fondamentale nel lavoro critico su questi poeti. Ci può parlare delle sue preferenze letterarie?

Sin dai miei 18 anni ho vissuto con grande entusiasmo, anche privatamente, l’incontro con la poesia e i poeti europei, e ho avuto la fortuna di frequentare con una certa familiarità alcuni dei poeti maggiori del nostro tempo. Penna non l’ho conosciuto (per fortuna, avrebbe detto Cesare Garboli, il critico, fra gli altri, cui mi legava una deferente amicizia), e il mio L’angelo e il suo doppio a Penna dedicato punta sulla constatazione che il canzoniere novecentesco di Penna si muove grazie ad alcune figure attanziali (l’io, i fanciulli, l’altro) un po’ sul modello efficiente elaborato per i suoi studi petrarcheschi da Adelia Noferi (che considero un critico grandissimo, che mi ha onorato della sua preziosa amicizia per oltre 30 anni: ma finisce l’amicizia dopo la morte?). Sono lieto di aver contribuito a rimettere il punto sulla questione, curando il volume dei saggi di Adelia Noferi, Frammenti per i fragmenta di Petrarca (2001). Uguale e contraria è la mia affezione per la poesia di Zanzotto che conobbi nel 1978, e di cui ero un fortunato amico: Caosmos, il titolo del mio libro, allude al carattere di quel linguaggio, che si specchia nel caos del mondo e forma pensiero fra i Conglomerati (l’ultimo libro di Andrea, del 2009). Senza il duro esercizio del mio commento in volume a Ipersonetto (2000), pochi fondamenti avrebbe avuto l’interpretazione di quella poesia nel mio lavoro.
Ma, vede, nel mio mosaico abbastanza coerente di esperienze testuali (che fra non molto si riassumerà in un volume sulla lettura della poesia contemporanea), vi sono molti percorsi per me significativi: da Dante (sto lavorando alle bozze d’un volume scritto in un decennio, I silenzi di Dante, in uscita da Pàtron nel 2016) a Petrarca e Leopardi, fino alla poesia dialettale (per esempio, ho dedicato a uno dei grandi contemporanei, Achille Curcio, calabrese, il libretto Lezione di poesia, 2010); e a Milo De Angelis, molto studiato e molto frequentato, tanto che Milo è per me un interlocutore indispensabile e costante, anche se lui a Milano e io a Budapest, in un dialogo che dura ormai ininterrottamente felice da 40 anni.

Riesce a destare l’interesse dei suoi studenti per questi poeti e per la poesia in genere? Se sì, quale è la sua ricetta? Se no, come vive questa frustrazione?

Come Le ho già detto in altra occasione, la frustrazione non appartiene al mio vocabolario sentimentale, e accolgo con un sorrisetto questa annotazione. Mi sembra del tutto naturale che, occupandomi di interpretazione della poesia e delle forme narrative, la relazione tra me e i miei studenti debba essere diretta, coinvolta in entrambi i sensi, e dunque partecipata. Ne ho parlato, rivolgendomi proprio ai miei ascoltatori come lettori, che sono le centinaia di bravissimi lettori incontrati per mia fortuna anche a Pécs, nei libri Il viaggiatore visibile (2008) e La memoria familiare (2007): occorre capire che posizione abbiamo, quale spazio il nostro libro, la nostra pagina, ci consentono di occupare nel corso della lettura. La posizione non è mai assoluta né determinante, ma è importante che sia chiara, consapevole, per noi e per gli equilibri instabili delle letture e delle tracce interpretative. Dunque, il punto di vista da cui parto come lettore, anche personalmente, privatamente, è necessario per porre forse una domanda a cui il libro risponderà anche con risposte inaspettate, e tutte utili. Forse anche per questo dall’ottobre di quest’anno ho deciso di accogliere l’invito a tenere una rubrica di letture, Leggio, per Radio Capodistria, come esperienza dal basso, con le mani fra le pagine e un invito costante alla condivisione di letture che per me contano.
La poesia è molto più vicina al nostro mondo di quanto comunemente si pensi: per spiegarlo (ma non so se ci sono riuscito) ho scritto un saggetto, uscito da poco sulla rivista «Semicerchio», intitolato La poesia nel tempo degli assassini, dedicato interamente all’analisi del recente libro di Milo De Angelis, Incontri e agguati. Qui la poesia, memore dell’antica raccomandazione di Dante, dimostra che non può che essere tragica, e comprendere la tragicità del presente significa, come scrisse un grande drammaturgo ungherese a me caro, Miklós Hubay, mettere le mani nella testa di Medusa, cioè nella nostra complessità di soggetti dentro la Storia che viviamo.

In che modo si legano i suoi interessi interdisciplinari?

Naturalmente non bisogna confondere le acque, e in questo la semiotica, ovvero una semiotica del metodo applicato e non certo mera ortodossia formalistica, aiuta molto. È come dire che, cambiando lingua, si resta se stessi, fedeli ai propri interessi. Ad esempio, negli anni ho messo insieme un libro (L’immagine del pensiero, nel 2016 in uscita da Mimesis),che cerca di spiegare in che modo alcuni pensatori, da Agostino a Derrida, indicano oggetti veri e propri, e tramite punti testuali (come i sassolini per non perdersi in bosco, nella nota favola), un’immagine che rende visibile il pensiero. E parallelamente, semmai invertendo il punto di partenza, ho studiato gli stessi elementi analizzando a lungo il pensiero dell’immagine di un pittore, Mattia Preti, che considero un grande narratore colto e discreto, e potenzialmente sperimentale, sulla scena ricchissima del Seicento europeo.

Quali figure hanno contato maggiormente nella formazione del suo senso europeo della letteratura e del pensiero?

Di alcune ho già parlato in questa intervista. Giacché come studiosi abbiamo la fortuna, di poter incontrare i maestri assenti attraverso la nostra frequentazione di lettori, potrei ricordare qualche nome forse interessante se si parte dall’intuizione di un bisogno, inteso anche come legame e conflitto, con i maestri, magari conosciuti di persona, nella realtà del quotidiano. E allora partirei da una figura complessa quanto, secondo me, non compresa limpidamente, che è quella di Piero Bigongiari, che ho frequentato per oltre 30 anni, mio professore all’Università fiorentina, e raro esempio di poeta e di critico impegnatissimo in una sua idea espansiva della scrittura poetica. Nel mezzo ci sono incontri ricchissimi, come quello con Jacques Derrida, con Jürgen Habermas, e più di recente con un filosofo, mio coetaneo, che stimo molto, Maurizio Ferraris. Ma qui il fiume scorre per mia fortuna in piena: per tutti ricordo l’intensità dell’incontro con Péter Esterházy, quello quasi ventennale con il già rammentato Miklós Hubay, con il mio antico amico, che m’ha salutato troppo presto, il poeta e filologo Francisco Del Pino, e con loro i preziosi punti di riferimento per me attivi in questa Europa indefinibile e necessaria: dalla Praga di Jíři Pelán alla Bucarest di Smaranda Bratu Elian, e a Cluj di Monica Fekete, dalla Madrid di Juan Varela-Portas a Valletta di Sandro Debono e Giuseppe Pace Asciak, dalla Bologna di Gian Mario Anselmi alla Zagabria di Mladen Machiedo, e alla favola della Matera di Franco Vitelli (e a tante altre care figure ancora io devo moltissimo).
Non meno importanti sono per me i giovani studiosi di oggi, quelli del mio fervido laboratorio umano e scientifico di Pécs, oltre i numerosi critici delle nuove generazioni con i quali sono in corrispondenza, e (perdonate se entro così nel privato) anche quel sorprendente jeune maître, europeo per nascita e vocazione, che è mio figlio Francesco. So che devo tanto imparare da tutti loro, da tutti voi, e per questo mi metto ogni giorno a lavoro, felice di fare il lavoro più bello del mondo.



Intervista realizzata da Smaranda Bratu Elian
(n. 12, dicembre 2015, anno V)