L’arte declinata come un nome in latino. Dialogo con Martin Basile

Un rapper colto. Un giovane regista con uno sguardo indagatore. Uno sceneggiatore per il quale il film deve meravigliare, come meraviglia la filosofia coloro che si interrogano sulla vita lasciandosi sorprendere dai suoi colori, ritmi, misteri.
Tuttavia, sfugge alle definizioni, Martin Basile. Per descriverlo, occorre scoprirlo. Due lauree, ha seguito corsi dedicati all’animazione, con autori Disney, alla sceneggiatura, presso la Fondazione Marco Bellocchio. A Platonic Film Competition vince il premio per la regia del corto Il paradosso di Zenone; questo per citare solo alcuni degli ultimi premi ricevuti per l’impegno nell’arte cinematografica. Al Festival Internazionale della poesia di Genova, in occasione dei 150 anni di Leopardi, apre con una canzone dedicata proprio all’Infinito.
Con Martin Basile abbiamo parlato del medium che meglio lo rappresenta, quali storie animano il suo interesse e come si possa raccontare la filosofia nel cinema o nella musica, ma anche di tanto altro ancora.


Più regista, sceneggiatore o musicista? C’è un medium in cui ti senti più a casa di un altro? E in che modo comunicano le une con le altre, queste forme d arte, come si arricchiscono, come si intralciano?

Non so da che cosa dipenda, ma esistono persone che hanno più o meno il talento di focalizzarsi su un’attività e spendere l’intera vita per raggiungere le massime vette in quel campo, talvolta al costo di trascurare la sicurezza, i rapporti, la salute. Quel talento non mi appartiene.
Ho sempre avuto il vizio di intravedere connessioni a sproposito tra ogni campo dello scibile umano. Così, tra gli argomenti che mi appassionano, capita che il determinato concetto rubato al mondo dell’enologia ispiri quel verso di una canzone; che il personaggio di un certo film mi suggerisca aspetti della natura umana che poi mi pare di rileggere nei mercati finanziari; che l’opera di un artista contemporaneo mi appaia come dimostrazione di una tale legge della fisica classica.
Più vado avanti e approfondisco le mie passioni, scoprendone di nuove, più intuisco l’esistenza come un’esperienza profondamente unitaria, in cui la saggezza che accumuliamo non si spende in un ambito specifico. In campo professionale, mi servo veramente di tutto quello che ho, in tutto quello che faccio.
Una considerazione a parte è quella su quale figura professionale mi identifichi. Per comodità, il pensiero umano tende a considerare le persone a partire da una breve definizione: regista, cantautore, vicino di casa, maniaco sessuale... Ho sempre avuto una certa avversione per le definizioni, soprattutto se riferite a me stesso. Tendo sempre a considerare, per quanto possibile, ciascun individuo come un insieme irripetibile di aspetti complessi e variegati.
C’è chi obietterà che spesso ci si imbatte in persone che sembrano aderire in tutto e per tutto a uno stereotipo o a un ruolo. E a proposito di collegamenti ipertestuali, questo mi fa ripensare a quanto scriveva Fromm sulla possibilità di determinare sé stessi come una facoltà da conquistare attraverso lo sviluppo di una grande consapevolezza, piuttosto che come un fatto di cui farci forza, in quanto esseri umani.
Se vogliamo essere puntigliosi, personalmente credo che tutto sia necessario, inevitabile, e che quindi la possibilità di determinare il più insignificante degli eventi sia solo un bel miraggio. Le modalità entro cui facciamo esperienza dell’esistenza ci portano a convincerci che esista una qualche forma di libertà nel comportamento umano, nonostante nulla ci dia motivo di credere che esso sia meno determinato del moto di un solido su un piano inclinato. Ciononostante simpatizzo con la visione di Fromm e i suoi risvolti pratici.
In ogni caso – e concludo – mi piace pensare a me stesso come a questo insieme di sentimenti e processi mentali, di cui magari da fuori si fatica ad intuire la logica. Quindi né regista, né sceneggiatore, né musicista: solo Martin.


Quali storie, atmosfere o sentimenti stimolano il tuo interesse in quanto sceneggiatore e regista?

Attraverso il cinema si fa dono di un’esperienza. Quando essa diventa occasione per rimettere in discussione le proprie certezze, idee, addirittura gli stessi sensi, allora cattura il mio interesse. Di fronte ad una visione del genere, sento un irrefrenabile desiderio di mettermi al lavoro e creare.
La meraviglia è il sentimento che spero di provare quando entro in sala. Sono strabiliato dai film che presentano situazioni e fatti che già conosco, come se mi fossero alieni; come se ne facessi esperienza per la prima volta. Lo stupore di cui parlo si declina in diverse forme. Può trattarsi di un inspiegabile e improvviso senso di attaccamento alla vita e di gioia ritrovata, così come uno spaventoso stato di ansia esistenziale. Insomma, il punto è che il cinema non è fatto per lasciare indifferente.
Mi interessano molto i film che ragionano sul cinema stesso o sull’arte in generale, soprattutto se hanno qualcosa di nuovo da dire. Preferisco un film controverso piuttosto che uno in linea con il senso comune. E purtroppo non è facile trovarne. Da questo punto di vista, un maestro a cui mi sono sempre ispirato è Lars Von Trier. Il suo ultimo film è, a mio parere, una delle più profonde riflessioni sull’arte mai viste al cinema. E non è un caso che a dare da pensare siano le parole di un personaggio che considera l’omicidio come una forma di espressione.
Un aspetto che riveste un’importanza cruciale nella mia estetica sono gli strumenti espressivi esclusivi del cinema, le sue prerogative irriproducibili su altri media. Trovo soddisfazione quando un simbolo, inquadrato sullo schermo, mi racconta qualcosa che il verso di un sonetto o l’overture di una sinfonia non avrebbero potuto suggerire.
La mia concezione di cinema non si limita all’espressione show, don’t tell. Un film può raggiungere lo status di capolavoro soltanto quando trova una sua specificità nell’uso di tutti quei meccanismi e quelle prerogative che non appartengono ad altre forme espressive.
Quando il tempo di una battuta, la posizione di un attore nello spazio, la scelta di un’inquadratura più o meno larga, un movimento di camera, sono in grado di dire più di tante parole, lì si compie il miracolo.


Portare la filosofia nel cinema (penso al corto «Il paradosso di Zenone») e le declinazioni del latino nel rap (penso a un verso di una tua canzone): è possibile? Anzi, in che misura è possibile?

È possibile, ma meglio non prendermi come esempio. Quando ho pubblicato le prime canzoni, intorno ai quindici anni di età, si trattava di parole semplici, spontanee, sincere. I primi insuccessi, qualche stroncatura e una buona dose di studio mi hanno portato a mettere in discussione l’ingenuità che ormai riconoscevo in quei lavori.
Così negli anni successivi ho sviluppato un metodo più complesso, erudito e pomposo di scrivere. Questo non soltanto nelle canzoni, ma anche nelle sceneggiature che iniziavo a sviluppare e nelle poesie (che non ho mai pubblicato). Inconsciamente esso celava il desiderio di ostentare un sapere acquisito a caro prezzo. Nascondevo riferimenti ad autori ricercati o a concetti complessi di altre discipline, che soltanto io sapevo riconoscere.
In anni più recenti questa ostentazione si è fatta gradualmente più palese, ma anche più consapevole, arrivando a diventare una sorta di parodia di sé stessa. Un’abitudine che tardava a scomparire, ma che ormai non si prendeva neanche più sul serio. È il caso delle opere citate nella domanda. Quando questa consapevolezza è emersa alla parte conscia dell’intelletto, ho finalmente iniziato a disintossicarmene.
La meraviglia di cui parlavo poc’anzi è il sentimento da cui la speculazione filosofica ha origine. È la sorpresa che prima o poi tutti proviamo, accorgendoci di esistere. E il cinema, così come la canzone, sono strumenti eccezionali per raccontarla. C’è di buono che non hanno bisogno di parole difficili né di citazioni illustri per farlo.
Più emozioni e meno vaneggiamenti intellettuali!


Quanto spazio c’è per le nuove voci nel cinema italiano di oggi? Trovi vi sia un interesse ad accogliere queste nuove voci?

Vuoi essere ascoltato? Per prima cosa chiediti se hai veramente qualcosa di bello, di utile o di interessante da dire. A quel punto è solo questione di alzare la voce.





A cura di Irina Ţurcanu
(n. 7-8, luglio-agosto 2022, anno XII)