Martina Palese: «Calvino, figlio e figliastro del proprio tempo»

«Alla percezione delle contraddizioni, potrebbe dirsi che Calvino opponga una poliedricità che lo rende piuttosto figlio e figliastro del proprio tempo, del compenetrarsi paradossale delle trasformazioni storiche e culturali che ne investono la realtà interna ed esterna».
Nel nostro Spazio Calvino interviene Martina Palese, giornalista pubblicista presso l’OdG del Lazio. Laureata in Letteratura italiana, Filologia moderna e Linguistica, attualmente è dottoranda di ricerca impegnata in un progetto sulla Letteratura italiana dei e sui Castelli Romani, presso l’Università degli studi di Roma “Tor Vergata”. Reduce da un’ibrida esperienza formativa letteraria e comunicativa, si occupa di valorizzazione culturale delle risorse territoriali, procedendo con un’analisi in diacronia della produzione letteraria locale, ragionando sull’identità del luogo e le sue evoluzioni nel tempo.


L’opera e la personalità di Italo Calvino sovente appaiono contraddittorie, considerata la grande varietà di atteggiamenti che, verosimilmente, riflette l’accadere delle poetiche e degli indirizzi culturali nel quarantennio fra il 1945 e il 1985. È possibile, tuttavia, rinvenire un’unità d’intenti?

Alla percezione delle contraddizioni, potrebbe dirsi che Calvino opponga una poliedricità che lo rende piuttosto figlio e figliastro del proprio tempo, del compenetrarsi paradossale delle trasformazioni storiche e culturali che ne investono la realtà interna ed esterna. Dal «susseguirsi di peripezie» di cui racconta all’amico Scalfari nell’inverno del ’45, si imbatte poi nell’esigenza di profilarsi ponendosi all’ascolto di quell’«inferno dei viventi», che farà fluire le sue stesse attitudini verso le intemperie del cambiamento. Eppure, le innumerevoli correnti che ne penetrano il vissuto non valicano il confine, saldo e ricercato, di un principio di coerenza permanente: di quell’algoritmo letterario, cioè, che diversifica gli intenti senza rotte di collisione, ricongiungendo creatività ed esattezza, leggerezza e molteplicità.


Neorealismo, gioco combinatorio, letteratura popolare sono tra i numerosi campi d'interesse toccati dal percorso letterario di Calvino. Su quali aree si è concentrata la sua attenzione?

Non è semplice muoversi all’interno dell’universo Calvino filtrandone le aree di interesse, che oltre a riproporre gli strati complessi del reale e dell’ideale, risultano ibride e intersecate. Tuttavia, proprio questa combinazione, fertile dell’arte d’incastro linguistico, simbolico e talvolta concettuale, arricchisce la tela della sua produzione di un colore altro, singolare in quanto prodotto di una sinergica relazione tra disposizioni. Il Calvino neorealista congiunge, seppur trasformandosi, il gioco combinatorio con una letteratura popolare, di stampo etico realistico, non rinunciando a quella spinta allegorica e fiabesca che ne contrassegna la poetica.


«Nel Novecento è un uso intellettuale (e non più emozionale) del fantastico che s’impone: come gioco, ironia, ammicco, e anche come mediazione sugli incubi o i desideri nascosti dell’uomo contemporaneo». Così Calvino. In qual misura il «fantastico» calviniano si fa pioniere del contemporaneo?

Penserei al fantastico dell’opera calviniana più come a una sintesi di questi ‘usi’, che non come a un precursore di superamento dell’uno o dell’altro. L’immagine, l’anonimato, la metamorfosi, le astrazioni dal tempo e dallo spazio, in fondo così puntuali rispetto all’orologio della storia, sono vettori di uno scandagliare del mondo e dell’uomo nel mondo. L’intellettuale non esiste senza l’emozionale, e viceversa: Calvino ne sperimenta la reciprocità e la affida alla rappresentazione dell’essenza, alle polveri di Palomar e a quella «fantasia razionale» incastonata nello sguardo di Pin, anche se assuefatti, silenziosi, spersonalizzati.


Il 2023 ha celebrato il centenario della nascita di Italo Calvino. Qual è il suo lascito alla posterità letteraria?

La profondità della disarmonia, la bellezza dei contrari, l’ineffabilità dell’interiore che rifugge nel potere di una fotografia. Italo Calvino lascia in dono all’eterno l’abilità di restituire la realtà – e quindi di leggerla – nell’accorta intessitura di un nodo marinaresco. La disegna con il linguaggio, la arricchisce con i vuoti d’aria, la scompone e ricompone accogliendo le scosse di un «campo di impulsi magnetici», tra leggerezza e concretezza; tra corpi, sensazioni, parole, che sono «inseguimento delle cose, adeguamento alla loro varietà infinita».


Quali sono, secondo lei, le sfide più ardue che la critica letteraria, e in particolare l’italianistica, deve affrontare al giorno d’oggi?

L’assottigliamento del senso degli scopi, la mercificazione anestetizzante del pensiero, questa massificazione secolare e inarrestabile dell’identità del prodotto. Si perde di vista, spesso e volentieri, che le sfide culturali siano il riflesso di quelle storiche e sociopolitiche, e che quelle specificamente letterarie portino da sé il peso di un riconoscimento mancato, atrofizzante. È la deriva della società del consumo, cresciuta nel lusso dell’eccesso, dello scarto, del visibile più che dell’invisibile. Ed è sull’invisibile, sul deposito dietro e sottostante, che la letteratura si interroga.


Romano Luperini sostiene che il saggio critico, così come ereditato dal secolo passato, non ha più futuro. Come vede lei la trasformabilità di questa forma che si è istituzionalizzata in un vero e proprio genere letterario, sul quale si sono cimentati filosofi e critici celebri, tra cui Adorno e Lukács?

La linea del tempo delle tipologie testuali, che assurgano o meno a genere letterario, reclama una relativizzazione che faccia i conti con la qualità del nuovo. Le eredità hanno un obbligo ontologico nel fiancheggiare il divenire, e la trasformabilità delle forme non è un fenomeno evitabile da permetterci di isolare la questione. Di sicuro, una prospettiva tanto stringata come quella contemporanea, repressa dalla direttiva delle leggi del mercato, complica le probabilità di esiti positivi, ma confondere l’omologazione delle cornici con quella dei contenuti sarebbe altrettanto azzardato. È nostro compito anche questo: ripensare la forma, senza lasciare che venga svuotata.


L’edizione 2023 del Premio Strega ha segnato non solo la vittoria di una scrittrice, ma anche un record di donne: otto scrittrici nella dozzina e quattro nella cinquina. Come si configura l’attuale status della letteratura esperita da donne?

Sebbene i disallineamenti della storia trascorsa e corrente ci obblighino a quantificare e valutare lo status della «letteratura femminile», mi piace pensare al momento e allo sforzo di esimere la scrittura da una questione di genere che, nel superarsi, si auspica atterri su un’equa normalizzazione delle distribuzioni e della meritocrazia. Guardare dall’interno la letteratura, come le arti nella e al di sopra della società, è un primo tentativo di recupero della sostanza, specie in un momento di disperata ricerca della convenzione. Di Ada D’Adamo vince la parola, l’empatia, la vita e la paura che si confondono e si rivelano fra una pagina e l’altra.


La letteratura romena è costantemente tradotta in italiano, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2024. In che misura pensa sia conosciuta in Italia e quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?

È innanzitutto un lavoro affascinante e un contributo necessario, oltre che ammirevole, di cui la letteratura, in tutte le proprie declinazioni, ha bisogno. L’idea che la lingua, a suo modo, sia il codice di dimensioni comuni mi fa sperare nell’intensificazione di un progetto di traduzioni che rispetti l’etimologia del termine e, appunto, “conduca al di là”; un passo oltre, non dimenticando il precedente, in questo «inferno» che accosta Calvino a Cioran e che, forse per caso, mi ha catturata in balìa di quell’attimo miracoloso che è la vita, vissuta e narrata, nella Tentazione di esistere fra città sempre più «invisibili».



A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 3, marzo 2024, anno XIV)