Legami tra l’arte italiana e l’arte romena. In dialogo con Niccolò Lucarelli

«Tra Italia e Romania a livello di dialogo sull’arte moderna credo si possa fare di più: ci sono tanti artisti romeni, ad esempio Theodor Pallady o Cornelius Baba, quasi del tutto sconosciuti in Italia, ma che invece sarebbe interessante scoprire. Così come ci sono molti artisti del Novecento italiano poco noti in Romania. Perché non provare a costruire un percorso parallelo di conoscenza dei rispettivi percorsi artistici otto-novecenteschi, anche alla luce del contesto storico-politico?».
Così Niccolò Lucarelli (Prato, 1983), ospite di questo numero. Laureato in Studi Internazionali, è curatore, critico d’arte e teatrale per «Artribune» e «ArtsLife». Collaboratore della «Rivista Militare», ha pubblicato vari volumi sulla Seconda guerra mondiale, fra cui Italiani in Albania 1939-1945 (2021), Operazione Bagration. L’Armata Rossa contrattacca (2022) e Le Camicie Nere in Africa 1923-1943 (2023). È attivo come curatore indipendente e ha firmato progetti espositivi in Italia e all’estero.

 

Come è nato il tuo interesse per l’arte?

È un interesse che ho avuto sin dall’infanzia, ma ovviamente è maturato negli anni della formazione scolastica. Anche se all’università ho frequentata la Facoltà di Scienze Politiche – perché la mia carriera non si svolge soltanto nel mondo dell’arte – al liceo ebbi un ottimo professore di storia dell’arte che inquadrava la materia nel contesto della società, spiegando le questioni estetiche all’interno dei vari fenomeni sociali. Gli artisti sono, sotto vari aspetti, figli dei loro tempi, e per essere meglio compresi dovrebbero sempre essere studiati senza tralasciare il periodo storico in cui vivono e lavorano. Assistere a lezioni del genere mi ha permesso di imparare molto, ma soprattutto mi ha stimolato a continuare a imparare, anche dopo il liceo. Devo dire di essere stato fortunato perché oggi, con il sensibile abbassamento della qualità della scuola italiana, insegnanti del genere sono assai rari. Sulle solide basi ricevute al liceo, ho appunto continuato a costruire il mio percorso nell’arte, e la ricerca non è certo finita.


Qual è il periodo storico che preferisci e come si riflette nel contesto culturale in cui lavori?

Ogni periodo storico è a suo modo importante per l’arte, anche se drammatico, perché comunque influenza sempre gli artisti che lo vivono. Però, dovendo scegliere, penso che l’età della Grecia classica sia stata fondamentale per lo sviluppo dell’arte e del pensiero occidentale, e ancora oggi se ne trovano le tracce nella società contemporanea. Ma a parte questo dettaglio sociologico, quella stagione culturale è sempre rimasta nell’immaginario di buona parte degli artisti, è stata riscoperta a partire dal XV secolo e poi, sempre, è rimasta un punto di riferimento, anche solo concettuale, per tanti movimenti artistici dei secoli successivi, dal Neoclassicismo alla Metafisica e oltre. Evidentemente, la Grecia classica è stata in grado di esprimere anche un’idea di bellezza che andasse oltre i canoni estetici. Per questo collaboro con due scultori italiani, Loriano Aiazzi e Sergio Monari, che traggono ispirazione della Grecia antica (ma non solo): questo mi permette di curare mostre dove la riflessione sul classicismo è sempre presente, ovviamente aggiungendo una serie di riflessioni sulla società contemporanea: cosa rimane della cultura classica, cosa è stato modificato, cosa è andato perso… Ne nascono mostre dal carattere storico e antropologico che ampliano almeno un po’ la prospettiva sull’individuo contemporaneo.
Allo stesso modo trovo molto interessante, in alcuni casi direi anche commovente, la lettura che gli artisti hanno dato del travagliato Novecento, con le sue storie di resistenza e sofferenza, raccontate attraverso l’arte. Per questo preferisco collaborare con artisti che abbiano un’ampia visione socio-politica; attualmente sto lavorando anche a un nuovo progetto con un pittore polacco la cui riflessione sulla Polonia contemporanea prende le mosse dal 1989 e appunto s’interroga sulla società attuale. In fondo, un artista non è un semplice decoratore, ma dovrebbe anche essere lo specchio e la voce critica della società.


Come hai cominciato l’attività di curatore? Puoi raccontarci qualche aneddoto?

La mia attività di curatore si svolge a livello indipendente e ho quindi cominciato contattando direttamente quegli artisti con cui ero interessato a collaborare. Ovviamente, non tutti hanno risposto, troppo scomodo e rischioso dare fiducia a un illustre sconosciuto. La mia attività è cominciata (e la collaborazione prosegue tuttora) con gli scultori Loriano Aiazzi e Sergio Monari, due scultori che si ispirano all’arte antica etrusca e greco-romana. Lavorare con loro e farli dialogare con collezioni d’arte antica italiana (ad esempio al Museo Archeologico di Salerno o a Villa Torlonia a Roma) è interessante perché mi permette di far riflettere il pubblico sull’importanza delle nostre radici antiche, presenti ancora oggi nella società contemporanea. Per un curatore indipendente, soprattutto se a inizio carriera, non è facile dialogare con i musei, e in primo luogo trovare la disponibilità a collaborare. In Italia soprattutto, la conoscenza, l’amicizia e la disponibilità economica giocano un ruolo molto particolare, ci sono città come Firenze o Venezia che sono difficili da approcciare per gli esterni e gli indipendenti. Però, ci sono anche direttori di musei e assessori alla cultura che la pensano diversamente, disposti cioè a valutare con oggettività le proposte ricevute e la professionalità di chi le avanza, senza considerare altri aspetti, ad esempio l’eventuale appartenenza politica. E quindi, pur con fatica, ma grazie a queste persone oneste, ho avuto anch’io l’opportunità di consolidare la mia carriera. Ma ancora oggi, per me come per tanti altri miei colleghi indipendenti, non è facile.
Poi, in Italia la burocrazia crea molti inutili ostacoli, e ricordo a Roma, a Villa Torlonia, l’impossibilità di organizzare un paio di eventi collaterali durante una mostra nel 2019, proprio a causa di alcuni cavilli burocratici; fu una situazione che non giovò né alla mostra né al museo, eppure nessuno sembra prendere provvedimenti, e le cose continuano esattamente come prima.


Puoi dirci qualcosa su quei progetti che ti sono sembrati più interessanti?

Ogni progetto è una storia a sé che sempre lascia un po’ di soddisfazione. Però, ce ne sono tre dai quali io stesso ho imparato molto, perché sviluppati con artisti stranieri.
The Factum. A Reality of Space and Time, l’ho curato a Roma, al Museo Pietro Canonica, fra maggio e giugno del 2021, ed è stata l’occasione della prima personale italiana della romena Maria Nitulescu, con il Patrocinio dell’Ambasciata di Romania in Italia e dell’Accademia Angelico Costantiniana e con il sostegno dell'Istituto Culturale Romeno di Bucarest. È stato stimolante costruire un percorso sensoriale all’interno della collezione del Museo, collegato a una riflessione sui rischi della distorsione della realtà, ma anche alla poesia del tempo che scorre, alla memoria, alla capacità dell’arte di interagire positivamente con la realtà. Poi, Blasts, cries, laughter, un progetto sviluppato a Praga fra gennaio e aprile 2022, alla White Room del Pragovka Art District, con tre giovani artiste dell’Europa dell’Est, di cui due serbe e una ucraina. È stato molto stimolante conoscere le loro storie e le loro radici, che appunto sono emerse nei loro lavori. Concettualmente, avevo pensato alla mostra come una riflessione sulla guerra, la democrazia, il pensiero critico e la società contemporanea, in chiave anche ironica, secondo i dettami del «realismo prospettico» del regista teatrale Massimo Castri; e come titolo ho scelto un verso di Lawrence Ferlinghetti, proprio per sottolineare l’idea della «commedia umana», fatta di rumori, lacrime e risate. Ognuna delle artiste ha portato un interessante contributo, dalle memorie della guerra in Kosovo del 1999 alle barricate di Hong Kong successive al Movimento degli Ombrelli, fino alla necessità di un recupero della memoria collettiva. Un’esperienza molto interessante, perché ho imparato molto dal vissuto e dalle storie di Milica Mihajlović, Tamara Spalajković e Olga Krykun, le artiste coinvolte nel progetto.
Un altro progetto cui sono molto legato è una collettiva di artisti centro-africani, tenutasi a Bujumbura, in Burundi, presso la galleria TwoFiveSeven Arts, nell’estate del 2022; una scena artistica tutta da costruire, in un Paese che sta facendo enormi sforzi sulla strada del progresso sociale e culturale. È stata una sfida perché, nonostante fossi l’unico curatore italiano attivo nel Paese, né dal Ministero degli Esteri italiano, né dall’ambasciata italiana a Kampala né dal consolato italiano a Bujumbura, c’è stato il minimo supporto; sembra infatti non ci siano programmi per i curatori italiani che lavorano all’estero con artisti di altri Paesi. Comunque, la galleria TwoFiveSeven Arts ha compiuto un grande sforzo organizzativo ed è anche riuscita a stampare un bel catalogo. Prima ancora che un’esperienza professionale è stata un’esperienza umana che mi ha arricchito molto. Ho scoperto un’Africa che è fiera delle proprie radici e che sta lottando per spezzare quelle catene colonialiste che purtroppo ancora rimangono.


Come si è sviluppata la scena dell’arte contemporanea italiana negli ultimi 10 anni? 

Purtroppo si deve riconoscere che negli ultimi 15 anni l’istruzione scolastica in Italia, per tanti motivi, ha subito un drastico calo nella qualità. Purtroppo ne hanno risentito anche le scuole d’arte e le accademie; ciò ha reso molto difficile la nascita di una nuova generazione di artisti con solide basi culturali, a partire dalla conoscenza del patrimonio storico-artistico italiano e dei processi tecnici tradizionali. Troviamo quindi tanti “maghi” della tecnologia, ma in pochissimi sanno come si scolpisce il marmo, si getta il bronzo, o si preparano i colori a olio. Questo non significa che chi conosce le tecniche di lavoro sia necessariamente un bravo artista, però la conoscenza delle basi fondamentali credo sia sempre utile, in quanto fa sì che l’artista sia coinvolto in un rapporto «diretto» con la materia che favorisce anche riflessioni concettuali. In linea generale, al di là di tanto «manierismo», non mi sembra di poter vedere artisti che siano portavoce della società e dei suoi problemi, che sappiano indicare nuove vie, che abbiano voglia di rischiare al di fuori dei tranquilli sentieri tracciati dal mercato, come del resto accade un po’ ovunque, almeno in Occidente. Inoltre, quando anche un giovane artista ha effettivamente talento e cerchi di percorrere nuovi sentieri, non sempre trova facilmente la possibilità di esporre, perché molti spazi (compresi tanti musei comunali che almeno sulla carta dovrebbero invece essere pubblici) chiedono un canone di affitto delle sale (proprio come fossero banali affittacamere) e questo ovviamente è un ostacolo per quei giovani artisti che, pur bravi, dispongono però di budget molto limitati. Il sistema dell’arte in Italia non è molto democratico, c’è poca meritocrazia, il mecenatismo molto spesso si limita alle parole e per questo molti giovani vengono lasciati indietro. Quindi, oltre che di difficoltà generali del settore, la scena artistica italiana risente anche di problemi strutturali interni.
Inoltre, i giovani non ricevono generalmente buoni esempi da parte degli artisti ‘affermati’, in un’epoca in cui le mostre sono occasioni per passerelle mondane o momenti di provocazione studiati ad arte per ottenere pubblicità sfruttando la credulità di un’opinione pubblica assai debole. E anche i padiglioni Italia alle più recenti edizioni della Biennale di Venezia credo mostrino chiaramente le difficoltà della scena artistica nazionale. Per contro, devo dire che il Padiglione Italiana alla Biennale di Gwangju era molto interessante. Ma in generale, però, non parlerei di evoluzione della scena italiana, quanto di stagnazione all’interno di un più ampio contesto di crisi delle idee e dei valori che interessa però, purtroppo, gran parte della società occidentale. Ho visto invece, per contro, apprezzabili evoluzioni in Asia orientale e in Africa, zone del mondo spesso guardate «dall’alto in basso» ma dalle quali, invece, ci sarebbe molto da imparare, anche in termini di etica culturale. Invece, in Italia come purtroppo in larga parte dell’Europa, permangono forti chiusure nei loro confronti, a cominciare dalle pesanti regole burocratiche per la concessione dei visti a curatori e artisti di quei Paesi, in particolare africani. Un atteggiamento ipocrita, che non fa certo onore al mondo della cultura ma di cui nessuno in Europa sembra preoccuparsi. La crisi della cultura, forse, comincia proprio da qui, dalla mancanza di etica. Ovvio che un clima del genere, purtroppo, finisca per influenzare, attraverso mille meccanismi nascosti, anche la creatività degli artisti.


Quanto sono importanti, nello sviluppo del tuo lavoro teorico, la scrittura creativa e le occasioni di viaggiare? 
   
Un progetto curatoriale comincia dal testo critico-scientifico con cui appunto si presenta la mostra, l’artista e le sue opere, inseriti nella visione del curatore per quella specifica circostanza. Quindi, è importante redigere un testo che sia approfondito, accurato, chiaro, non autoreferenziale; credo sia ancora valida, nei limiti del possibile, la teoria di Oscar Wilde del «critico come artista», che deve saper usare la parola scritta con eleganza per riuscire a dialogare in maniera costruttiva con il pubblico. Ma eleganza non significa ricorrere alle espressioni ‘ad effetto’, significa principalmente utilizzare le parole in maniera onesta, per spiegare al pubblico nella maniera migliore possibile i concetti e le emozioni che un artista intende esprimere attraverso il suo lavoro. Quindi, la scrittura è una fase fondamentale nella progettazione di una mostra.
Il viaggio, invece, è uno strumento fondamentale per acquisire conoscenza, e poiché cerco di dare ai miei progetti un’ottica che sia anche socio-politica, conoscere i Paesi di provenienza degli artisti, non soltanto dai libri ma anche per esperienza diretta, è importante perché appunto amplia il mio punto di vista. Aver conosciuto almeno un po’ la Romania, ad esempio, mi è stato utile nel corso del lavoro con Maria Nitulescu, la cui ricerca artistica guarda molto alle radici culturali del suo Paese.


Come percepisci il dialogo fra la scena artistica italiana e quella romena, negli ultimi anni?

Il dialogo indubbiamente esiste ed è proficuo, molti giovani romeni studiano arte presso università italiane, molti artisti romeni tengono le loro mostre in Italia. Personalmente, come accennato, ho curato Maria Nitulescu a Roma, nel 2021, in quella che è stata la sua prima personale italiana. Forse, però, non c’è altrettanto interesse, in generale, degli artisti italiani per la Romania, mi sembra di vedere poche mostre in questo senso. Sinceramente, non so da cosa possa dipendere, ma credo che appunto da una parte e dall’altra si potrebbero aumentare le occasioni espositive in Romania.
Inoltre, credo che anche a livello di dialogo sull’arte moderna si possa fare di più: ci sono tanti artisti romeni, ad esempio Theodor Pallady o Cornelius Baba, quasi del tutto sconosciuti in Italia, ma che invece sarebbe interessante scoprire. Così come ci sono molti artisti del Novecento italiano poco noti in Romania. Perché non provare a costruire un percorso parallelo di conoscenza dei rispettivi percorsi artistici otto-novecenteschi, anche alla luce del contesto storico-politico? Credo aiuterebbe anche a migliorare, a livello generale, la reciproca comprensione e a correggere molti pregiudizi e visioni distorte.




A cura di Andreea Foanene
(n. 3, marzo 2024, anno XIV)