«Compito per domani»: sulle deportazioni dei Bessarabi in Siberia. Dialogo con Nicolae Dabija

Presidente dell'organizzazione unionista Consiglio della Nazione 2, fondatore del Forum Democratico dei Romeni in Moldavia, membro ad honorem dell'Accademia Romena, Moldava ed Europea; scrittore, poeta, storico e giornalista – Nicolae Dabija è stato a Torino a novembre del 2018 per presentare l'edizione italiana del libro Compito per domani (ed. Graphe.it, Perugia, 2018, traduzione di Olga Irimciuc) e per partecipare al festival culturale «Armonie autunnali» organizzato dalla comunità romena e moldava risiedente nel capoluogo piemontese. Questa intervista è stata realizzata da Irina Niculescu, con l'immagine di Mihai Bursuc.

Professor Dabija, lei è venuto a Torino per promuovere il romanzo ormai di fama mondiale Compito per domani, scritto nel 2007. Ma lei è già stato in Italia con altre sue opere per partecipare al Festival di Poesia di Trieste, nel 2014, ricevendo il «Grande Premio», e nel 2015 al Centro Mondiale della Poesia di Recanati dove è stato insignito del Premio Giacomo Leopardi.

Ho ricevuto anche il premio per la poesia «Umberto Mastroianni» a Fontana Liri, sempre nel 2015. Vorrei raccontare una cosa di cui si sa poco: una mia poesia è scolpita a Cervara, a Roma, nella piazza centrale della città, insieme a quelle di Petrarca, di Umberto Saba e di altri grandi poeti. E credo che l'Italia sia molto vicina a noi e alla nostra cultura. L’evento culturale che si è tenuto a Torino io lo paragonerei a un ponte di Apollodoro di altre dimensioni, un ponte culturale che si va costruendo oggi. E pensavo anche al libro scritto da te e Marian Mocanu, Come Fratelli, che è un ponte culturale che unisce romeni e italiani. Ci ho letto interviste importanti e credo che il volume dovrebbe essere tradotto anche in romeno. La cosa importante è che noi dobbiamo riconoscere le dimensioni delle culture romena e italiana e dobbiamo convincerci sempre di più che l'Europa culturale non ha frontiere. Da noi si dice che la politica divide, però la cultura unisce. Mi sono convinto questi giorni a Torino che esistono ponti culturali che resistono al tempo. Per esempio, ho trovato il bassorilievo di Mihai Eminescu a Recanati, nel palazzo di Giacomo Leopardi. Così come ho trovato Dante a Chișinău. Noi abbiamo il liceo Dante dove si studia l’italiano. Così come ho trovato Pirandello nei teatri di Chișinău. Oppure Boccaccio! Ecco, queste personalità culturali ci avvicinano e ribadisco che siamo una famiglia culturale e il vostro libro è un mattone di questo ponte di Apollodoro culturale contemporaneo.

Il suo libro è da poco uscito anche in Italia per Graphe.it, nella traduzione di Olga Irimciu. In quante lingue è già stato tradotto?

Ha conosciuto diverse edizioni. È uscito in America nella serie «Love Story» con una tiratura di 100.000 esemplari. Due edizioni in Francia, dove ha ricevuto anche un premio, «Prix de l'Autre Edition». È stato tradotto in tedesco, bulgaro, russo, macedone. Adesso lo stanno traducendo in cinese, portoghese e spagnolo. Penso che in questi giorni stia per uscire anche in Ungheria, a Budapest. Io sono molto contento che questo romanzo piaccia ai lettori di altre lingue. Ero convinto che fosse un libro sulle nostre realtà, con una storia d’amore sullo sfondo delle deportazioni dei Bessarabi in Siberia. Quello che piace anche ai lettori stranieri è questo sentimento di amore che vince l’inferno. Adesso è arrivato anche in Italia. E sono contento che i nostri Bessarabi comprino il libro per regalarlo agli amici italiani e questo è molto importante.

Lei parla di «Bessarabi». Nicolae Dabija arriva dalla Moldavia, però il protagonista Mihai Ulmu arrivava dalla Bessarabia. Ci spiega le differenze per il lettore italiano?


Bessarabia è sinonimo di Repubblica di Moldavia, però la Moldavia è costituita solo da una parte della Bessarabia. Perché la Bessarabia comprende il territorio tra i fiumi Prut e Nistro, dal mare fino alle montagne, fino alla Bucovina e oltre. Cioè parliamo della Moldavia storica. La Bessarabia è una nozione più ampia e fino al 1940 era chiamata Bessarabia ed era una provincia romena. Nel 1940 quelli che ci «hanno liberato» ci hanno tolto il sud e il nord della Bessarabia e li hanno regalati all'Ucraina e, sul territorio rimanente, hanno creato la Repubblica Sovietica e Socialista Moldava. Perciò, per noi, questo territorio intero si chiama Bessarabia. La Repubblica di Moldavia ne costituisce solo una parte.

In Italia si conosce ancora poco della Repubblica di Moldavia, spesso viene confusa anche con la regione moldava della Romania.


Quando ero a Trieste per ricevere il Grande Premio della poesia, sono stato invitato a una trasmissione di una TV triestina e mi hanno domandato: «Perché in Repubblica di Moldavia si scrive in lingua romena?» Ho risposto che la Moldavia è un pezzo di Romania staccato dalla patria in seguito al patto Molotov-Ribbentrop. Poi, attorno a questa affermazione, è partito tutto il nostro dibattito, perché gli italiani non sanno cos’è questo patto e cosa era successo al territorio moldavo. Come mai si parla la lingua romena anche sull’altra sponda del Prut? Perché la nostra cultura è romena? Nella trasmissione abbiamo parlato anche di Ovidio, del quale si dice che fosse stato esiliato nella Cittadella Bianca (Moncastro) nel sud della Bessarabia; Miron Costin ne aveva scritto prima che si parlasse di Tomis. Non so se lo sapete, ma il nome del fiume Nistro viene dalla parola «ginestra», un fiore che si chiama così in italiano e che cresce in abbondanza sulle rive del Nistro. I genovesi, che hanno costruito alcune cittadelle sul fiume, di cui una a Soroca, l’altra a Moncastro, l’hanno ribattezzato Nistro, che fino ad allora si chiamava Tiras. Gli italiani dovrebbero sapere che il fiume più importante dei Bessarabi ha un nome italiano.

Il grande storico Nicolae Iorga, in un discorso memorabile del 1927 alla Camera di Commercio di Milano aveva affermato che «la Bessarabia è la frontiera della latinità
». Nel suo libro il latino ritorna fra i detenuti del lager in Siberia, Mandel’štam cerca conoscitori di latino per fare conversazione.

Si tratta di Osim Mandel’štam, un poeta russo di famiglia ebraica, che ha sofferto perché ha scritto delle poesie che non sono piaciute a Stalin. Però è un personaggio emblematico della cultura russa, anch’essa decimata, esiliata nei lager. Io ho voluto prendere come simbolo questo autore che ha sofferto molto. E vorrei aggiungere per gli italiani: la rivoluzione russa del 1917 fu orientata contro gli intellettuali. Andavano decapitati, così affermava Lenin, perché così le masse potevano essere manipolate più facilmente senza gli intellettuali.

Infatti, lei ha dedicato il suo libro agli intellettuali bessarabi di tutti i tempi...


Sì, tutte le persone che avevano studi superiori, liceali, tutti furono deportati. Salvo quelli che hanno accettato di collaborare con il nuovo ordine. Purtroppo, lo dico con rammarico. Però quelli che hanno collaborato erano pochi, i restanti furono decapitati. Tutti miei parenti, sacerdoti o intellettuali, sono morti in Siberia, non sono più tornati. Furono esiliati vicino al Polo Nord, io ho avuto la fortuna di nascere in Bessarabia e mia mamma si era sposata con un invalido di guerra dell’armata sovietica. Era stato arruolato con la forza e tornò dal fronte senza una gamba. Mia mamma era sulle liste di deportazione, però si sono salvati grazie all’invalidità di mio padre. Altrimenti sarei nato da qualche parte al Polo Nord.

Una storia ricorrente in tante famiglie della Bessarabia. Come è nato questo romanzo?


In quanto poeta e storico, non ho mai pensato di scrivere prosa. Però, nel 2007 ho subito un incidente, sono caduto da una roccia alta 9 metri. Da noi si dice che prima di morire l’uomo vede il film della propria vita concentrato in pochi secondi. E lì, sul fondo del burrone, io ho visto altro. Ebbene, ho visto questo romanzo. Ho visto i personaggi che tentavano di aiutarmi. E durante la degenza in ospedale, circa 3 mesi, ho decifrato quello che mi era stato rivelato. Quando sono uscito dall’ospedale, sapevo il romanzo a memoria. Perciò il romanzo è una descrizione di quello che mi è stato rivelato. Io non ho inventato, ma descritto. Per questo motivo, molti dicono che sembra piuttosto a una sceneggiatura cinematografica. Questa è la storia del romanzo. Ho avuto subito il sentimento che fosse un buon lavoro, però non ho mai immaginato che potesse arrivare alla decima edizione nella Repubblica di Moldavia. Con questo romanzo intendo riabilitare l'intellettuale perseguitato della Bessarabia che ha sofferto per la sua dignità. E sono contento che sia letto spesso dagli studenti, che incontro nei licei, per loro è una lezione di storia.

Una lettura utile per le generazioni future. A un certo punto nel libro lei descrive il mosaico dei detenuti dei lager sovietici – varie razze, religioni e classi sociali – che è definito dal suo personaggio, Mandel’štam, «la coscienza dell'Europa
». Perché?

Vorrei sottolineare ancora una volta che nei lager siberiani ai tempi di Stalin erano rinchiusi i più valorosi e importanti intellettuali, non solo russi, ma anche di tutti gli altri popoli che componevano in quel periodo l’URSS. Gli intellettuali sono stati isolati nei lager. Una parte fu espulsa negli anni intorno al 1921. Ma quelli rimasti erano dentro i lager. Di questo parla anche il destino di Osim Mandel’štam. In URSS gli intellettuali erano considerati dei parassiti, non producevano beni materiali, e per questo venivano disprezzati.

Nel 2018, l'anno del centenario dell'unità romena e della fine della Grande guerra, lei è stato a Torino. Cosa si sa oggi in Europa di questi intellettuali?


Sfortunatamente si sa poco. A Parigi, quando sono stato insignito del Premio per questo romanzo, il presidente dell'Associazione degli Scrittori Francesi ha affermato: «Parlo agli autori dell'Est, non imitate la prosa francese, perché contiene solo parole; voi avete un’esperienza unica – il comunismo». Io penso che si dovrebbe parlare di più di questi popoli dell’Est, dell’ex URSS, anche della Romania. Dove, fra l’altro, abbiamo parlato di alcune realtà che non piacciono, soprattutto a quelli che vorrebbero parlare solo di cose belle. Però dobbiamo anche affrontare discorsi drammatici, ma reali, che abbiamo vissuto. Per esempio, pochi sanno che vicino agli Urali, nella città di Ivdel’, c’era un lager, dove furono fucilati 22.000 Bessarabi – sacerdoti, sindaci, scrittori, medici, ingegneri. Tutti sanno quello che è successo a Katyn, ma a Ivdel’ no! Ho fatto presente ripetutamente alla stampa ed esortato gli ex presidenti della Moldavia a impegnarsi per fare esporre una targa commemorativa in ricordo dei 22.000 Bessarabi fucilati nella regione di Saratov. Anche se non ci piace parlare della nostra storia drammatica, dobbiamo prendercene carico comunque.

In chiusura, desidera trasmettere qualcosa al pubblico italiano?

Dalle nostri parti si usa dire che tutte le strade portano a Roma. Per noi l’Italia è un simbolo del nostro passato comune, però anche del futuro, strettamente collegato alla nostra adozione all’interno della famiglia dei popoli europei. Considerando che i romeni si trovano bene in Italia, e che gli italiani hanno un atteggiamento di fratellanza nei confronti dei romeni, si può affermare che i fili che ci uniscono non sono ancora spezzati. Vorrei che gli italiani contribuissero al cambiamento di mentalità nei confronti dei romeni che lavorano in Italia. Noi siamo un popolo latino, alla ricerca di se stesso. Spero che, con l'aiuto dell'Italia e di altri Paesi latini, possiamo riconquistare il nostro posto nella famiglia dei popoli europei, un posto ottenuto con dignità. E questo libro ha la sua missione, il lettore si ritroverà dentro le sue pagine.




Intervista realizzata da Irina Niculescu
(gennaio 2019, anno IX)