Renzo Paris: «Pasolini è stato anch’egli un Proust delle periferie»

Ospite del nostro Speciale Centenario Pasolini è Renzo Paris, poeta, romanziere e critico. È nato a Celano (L’Aquila) nel 1944 e vive a Roma dal 1955. È stato professore di letteratura francese nell’Università di Salerno e Viterbo. Collabora a «Il Manifesto», «Il fatto quotidiano» e il «Venerdì» di Repubblica. Ha pubblicato libri di poesie tra cui Album di famiglia (Guanda, 1990), romanzi tra cui Cani sciolti (Guaraldi, 1973), La croce tatuata (Fazi, 2005), La vita personale (Hacca, 2009), oltre a La banda Apollinaire e le biografie romanzate dedicate a Alberto Moravia, Ignazio Silone e Pier Paolo Pasolini: Pasolini ragazzo a vita (Elliot, 2015) e Pasolini e Moravia. Sue volti dello scandalo (Einaudi, 2022).
Nel dialogo il professore riflette sulla poesia di Pasolini, che si scosta da quella della tradizione italiana perché «era lirica e comunicativa insieme» e con la morte del poeta nel 1975 di fatto «è morta la poesia italiana», sparita «assieme al mondo agropastorale da cui proveniva».


Qual è il
rapporto tra ‘periferia’ e ‘centro’, cioè tra ‘vita’ e ‘letteratura’ per Pasolini?

«La mia vita è quella dei miei libri», aveva scritto: Senza autobiografia niente letteratura. E la ‘periferia’ era tutto. È stato anch’egli un Proust delle periferie.


Montale sosteneva pressappoco che, probabilmente, per molti anni la poesia avrebbe taciuto e che si sarebbe scritto prosa. Come considera inserita nel Novecento la poesia di Pasolini?

Montale aveva ragione. La poesia italiana, dopo Trasumanar e organizzar, si è mescolata alla prosa, è diventata «pratica». Moravia diceva che la sua poesia era «di sinistra» in un paese in cui era stata sempre a destra. Ed era lirica e comunicativa insieme. Quella poesia però è morta assieme al mondo agropastorale, da cui proveniva. Nel 1975 è morta la poesia italiana.


Attaccato e finanche osteggiato da tanti nel corso della sua vita, Pier Paolo Pasolini ha conosciuto una rivalutazione post mortem capillare. È da considerarsi un’icona pop?

È stato trasformato forzosamente in un’icona pop. Contro il culto mediatico di Pasolini scrissi in tempi non sospetti un articolo sull’«Espresso» (1996) che suscitò un dibattito con i grandi letterati del momento. Era stata soprattutto Laura Betti a trasformarlo in un santino, per via della sua atroce morte.


Gadda, Bertolucci, Bassani, Moravia, Morante, Citati, Penna, quanto è riconoscibile l’influenza degli «amici di Trastevere» nella produzione letteraria di Pasolini?

Forse solo Elsa Morante lo influenzava. Ma alla fine dopo La Storia che stroncò due volte, se ne distaccò. Avevano idee diverse sulle macerie della storia.


Esiste ed è definibile un’attualità pasoliniana per gli autori che sono arrivati dopo il 2 novembre 1975, giorno della morte di Pasolini?

C’è il libro Poesie per PPP a cura di Galaverni che dimostra il controverso fascino di Pasolini sia presso i suoi coetanei che tra i più giovani. Ma Pasolini non assomiglia a nessuno, meno che mai a D’Annunzio.


Pasolini è noto, per lo più, per aspetti massmediatici e politici piuttosto che per i riverberi sentimentali, lirici e pirateschi di un individuo che ha speso la sua vita nel combattere una rivoluzione sia estetica che linguistica. Per quale ragione, ancora oggi, risulta prevalente l’interesse per le polemiche civili, giornalistiche, letterarie ed, infine, per l’assassinio?

Pasolini aveva intuito molto della società di oggi, ma non tutto. Era legato a un’Italia senza i social e senza la globalizzazione, con un solo canale televisivo, in bianco e nero.


Pasolini abiurò dalla Trilogia della vita per approdare all’universo orrendo di Salò, primo lavoro filmico di quella Trilogia della morte. Perché mai rinnegò le tesi da lui stesso elaborate?

Il passaggio dal Pasolini delle borgate a quello piccolo borghese dell’Eur avviene con il teatro, che scrisse nella seconda metà degli anni Sessanta. Affabulazione ne è la testimonianza più evidente.


Storia personale e storia professionale serrate in intimo connubio. Riflettendo, in particolare, su Salò, reputa che Pasolini abbia plasmato la sua intera produzione a propria immagine e somiglianza?

Anche Salò come Petrolio nasceva dalle sue contraddizioni luciferine, che erano cominciate con Le ceneri di Gramsci con quell’essere contro di lui nelle viscere e con lui nel cuore e nella mente.


Tutta l’ultima produzione pasoliniana ruota attorno all’idea di una «mutazione antropologica» in corso. Può chiarirne i temi e la sensazione di pericolo dichiarata?

La mutazione antropologica l’aveva voluto il nuovo potere uscito dalla Seconda guerra mondiale, che strumentalizza sia la destra che la sinistra per i suoi fini da economia criminale.


Pasolini in tutta la sua produzione articolò una domanda sul senso della vita, della sofferenza e della morte. Può fare il punto sul lascito dell’insegnamento pasoliniano?

La morte campeggia già nelle sue prime poesie friulane. Il film Accattone, il suo capolavoro, è un inno alla morte. Il suo lascito è tutto in Scritti corsari.


La voce contro, colui che era in grado di gettarsi nella lotta col suo corpo, il marxista animato da un profondo senso del sacro, da una visione religiosa della vita, colui che anche di fronte al crollo delle sue certezze non smette di lottare, consapevole che di lui rimarrà sempre il ricordo de «la sua disperata vitalità». Pasolini come unione di contrari?

Sì. La ricerca dell’unione dei contrari dalle prime poesie a Petrolio, all’insegna della contraddizione che lo portò al massacro del suo corpo.







A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone

(n. 6, giugno 2022, anno XII)