Ascoltare come parla il mondo. In dialogo con Rodica Zafiu

Rodica Zafiu, docente presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Bucarest, direttore del Dipartimento di Linguistica, coordinatore di dottorato di ricerca e ricercatore scientifico presso l’Istituto di Linguistica «Iorgu Iordan – Al. Rosetti» dell’Accademia Romena, è autrice o coautrice di un numero impressionante di studi di specialità pubblicati in Romania e all’estero e di una serie di volumi fra cui basta ricordare quello che ha ricevuto la massima onorificenza nel campo: Naraţiune şi poezie (Narrazione e poesia, All, Bucarest 2000) insignito del premio «Timotei Cipariu» dell’Accademia Romena nel 2000. La sua attività didattica, che comprende anche programmi di master e di dottorato di più università romene, ricopre numerosissime discipline, sorelle eppure distinte: dai vari rami della linguistica alla retorica, stilistica, teoria e tipologia del testo, immagini delle lingue nei modelli culturali, traduttologia ecc. In più, in questo momento Rodica Zafiu è non solo uno dei più prestigiosi linguisti romeni ma anche uno dei più conosciuti e letti, grazie alla sua ininterrotta presenza nelle pagine di alcune delle più apprezzate riviste di cultura romene, dove da parecchi anni ha una rubrica permanente di lingua romena. I suoi articoli settimanali in «Dilema veche», «Dilemateca», «Luceafărul», «Observator cultural», «România literară»etc., la frequente collaborazione alle trasmissioni radio e TV dedicate alla lingua romena fanno probabilmente di lei il più popolare e seguito linguista romeno. Se mi si chiedesse di nominare le caratteristiche della sua poliedrica attività che destano più di tutte il mio stupore e la mia ammirazione nominerei due: il permanente legame del fatto linguistico con il contesto letterario e culturale in cui si genera e che genera; e il costante abbinamento della ricerca di specialità al dialogo vivo con la realtà quotidiana della lingua parlata e scritta. Perché entrambe rivelano una specifica filosofia della relazione fra cultura, società e lingua che mi sembra bella e benefica.
I legami di Rodica Zafiu con l’Italia sono stretti e profondi: l’ottima conoscenza della lingua italiana e una lunga serie di esperienze dirette in quanto lettore di romeno all’Università di Pisa (1996-2001), docente di lingua e letteratura romena all’Università della Calabria (2002-2004), membro del progetto di ricerca «Geografia e storia della civiltà letteraria  romena nel contesto europeo» (2000-2001), svolto, in collaborazione, dalle università di Pisa, Roma, Udine, Torino e Padova, progetto appoggiato dal Ministero Italiano dell’Università e della Ricerca; e vi aggiungerei anche la sua partecipazione alle Serate Italiane sempre presenti nelle pagine di questa rivista.

Partiamo dall’inizio: la sua tesi di laurea e quella di dottorato inclinavano piuttosto alla letteratura. Quando, come e perché si è prodotta la svolta verso la linguistica? E come ha fatto a mantenere il legame fra le due?

Io ho oscillato continuamente fra la letteratura e la linguistica, inclinando ora all’una ora all’altra, per via della mia curiosità. Ho letto molta letteratura (al liceo, dove ho avuto una professoressa eccezionale, Graziella Ştefan, mi pareva che non potevo presentarmi all’esame di ammissione alla Facoltà di lingua e letteratura romena – come si chiamava allora – se non leggevo integralmente tutti gli autori compresi nel programma; ovviamente non potevo leggere proprio tutto, così che all’esame tremavo di paura che la mia profonda impostura sarebbe stata scoperta). In facoltà c’erano alcuni corsi di letteratura veramente buoni (uno eccezionale, quello del professor Paul Cornea) però quelli di linguistica mi sono parsi ancora più interessanti: più moderni, più rigorosi, più aperti verso nuove prospettive. Direi che in un certo modo mi sono avvicinata alla linguistica per capire meglio la letteratura (come si costituisce il senso globale di un testo, di frasi? oppure il senso delle frasi si costituisce di parole?), ma anche dal bisogno di rigore, forse anche da una mia avversione all’ostentare la soggettività. Poi, interessandomi, come quasi tutti i linguisti di oggi, a zone della comunicazione (l’oralità, il parlato) meno studiate nel passato sono tornata al testo letterario ogniqualvolta  ho voluto osservare il funzionamento più sottile e complesso del linguaggio.

Torniamo ora all’Italia. Che cosa ha significato per Lei l’esperienza universitaria italiana e in che modo l’organizzazione e la qualità delle università italiane l’hanno successivamente aiutata?

La mia prima esperienza italiana diretta è stata in realtà uno stage con una borsa di studio di tre mesi all’Università di Udine. Poi ho proseguito da Nord verso Sud, con una lunga permanenza a Pisa per arrivare finalmente in Calabria. Sì, l’esperienza universitaria italiana mi ha aiutato moltissimo, specialmente come esempio di atteggiamento: l’orgoglio giustificato della professione che difende le proprie tradizioni secolari e resiste alle mode superficiali, il rispetto degli altri e dell’istituzione, da cui deriva il dovere di discutere con serietà tutto ciò che si riferisce allo spazio privilegiato dell’università; la coscienza della convivenza di più centri culturali e il rifiuto di etichettare qualsiasi fenomeno come «provinciale»; l’arte di polemizzare con garbo. Nel campo della linguistica e della letteratura ho capito che significa il rigore filologico, l’interesse per il dettaglio, il rispetto per la prospettiva storica, per le correnti di idee. Credo che tutto questo possa correggere opportunamente certi eccessi romeni nel campo della ricerca (anistoricità, approccio saggistico, tendenza ad affrontare con troppa disinvoltura i grandi problemi, ad assolutizzare il proprio giudizio estetico).

Lei ha conosciuto molti intellettuali italiani, sicuramente molti professori universitari. Qualcuno di loro ha segnatao la sua traiettoria scientifica e umana?

Eccome! Io ho avuto il privilegio di conoscere i romenisti italiani da cui ho imparato molto e di cui ho ammirato la passione e la serietà con cui trattavano la lingua e la letteratura romena come disciplina universitaria e come oggetto di ricerca scientifica, meglio che in qualsiasi altra parte del mondo: Bruno Mazzoni, Marco Cugno, Roberto Scagno, Teresa Ferro, Luisa Valmarin, Aldo Cuneo, Gisèle Vanhese – ma la lista potrebbe continuare. Poi il romeno interessa moltissimo i romanisti italiani in genere, fatto dovuto in gran parte al grande Lorenzo Renzi. Ho avuto anche la fortuna di osservare come sta crescendo una nuova generazione di romenisti (Roberto Merlo, Giovanni Magliocco, Danilo De Salazar ecc). Ma il website AIR (Associazione Italiana di Romenistica) può dire molto di più su di loro. Sfortunatamente, due di loro, due grandi, Teresa Ferro şi Marco Cugno, ci hanno lasciato troppo presto.

In Italia Le è stata proposta un’esperienza diversa da quella romena, cioè insegnare il romeno quale lingua straniera: le è stata utile quando ha ripreso l’insegnamento del romeno ai romeni? Che consigli darebbe ai lettori romeni che insegnano all’estero?

In realtà io avevo insegnato il romeno agli stranieri anche in Romania, agli studenti dell’«anno di preparazione», quelli che vengono da fuori a studiare nelle università romene. Ovviamente, lavorare con gli studenti italiani (fra cui alcuni erano figli di romeni, provenienti da famiglie miste) è stata un’esperienza diversa e molto piacevole: ho scoperto il loro grande interesse per le altre culture, la loro vivacità e il coraggio in fare domande (cose che, all’inizio degli anni ’90, non erano frequenti negli studenti romeni, più rigidi e a volte tesi per paura di sbagliare). Uno dei miei ex-studenti italiani, Giovanni Magliocco (formato dalla professoressa Gisèle Vanhese), insegna ora lingua e letteratura romena all’Università di Bari ed è già un romenista rispettato.
Insegnare il romeno quale lingua straniera significa guardare la propria lingua da una prospettiva diversa e ciò ti aiuta a scoprire particolarità che altrimenti non avresti osservato. Insegnare il romeno agli italiani è ancora più interessante perché, in questa situazione, professore e studente scoprono similitudini col parlato o con i dialetti spesso ignorate dai manuali della lingua standard. Gli italiani erano sorpresi a constatare che un costrutto di tipo a me mi piace possa essere di norma in un’altra lingua (mie îmi place), mentre io cominciavo a chiedermi (partendo dalle loro domande) come si può descrivere la differenza fra Ce faci? şi Ce mai faci?. Un consiglio ai lettori romeni che insegnano il romeno all’estero? Che si adattino il meglio possibile alla cultura e alla lingua del paese in cui insegnano e che imparino il più possibile dai loro studenti e colleghi.

Ho ricordato prima un progetto italiano interuniversitario dedicato alla cultura romena cui Lei ha partecipato. Che cosa si proponeva tale progetto e, soprattutto, come mai è stato finanziato da un’alta istituzione italiana? Glielo chiedo perché in Romania sarebbe difficile immaginare che il Ministero della Pubblica Istruzione finanzi un progetto dedicato all’italianistica.  

Si tratta del progetto interuniversitario di ricerca «Geografia e storia della civiltà letteraria romena nel contesto europeo» svolto nel 2000-2001, coordinato dal prof. Bruno Mazzoni, al quale hanno partecipato molti specialisti italiani di varie università (Pisa, Roma, Udine, Torino, Padova) ed anche romeni. Il progetto è stato finanziato dal Ministero Italiano dell’Università e della Ricerca e si proponeva di applicare alla letteratura romena una metodologia sviluppata in Italia, capace di offrire un nuovo sguardo sugli sviluppi culturali, contestualizzati, con zone e assi diverse, integrati in correnti di idee più ampie. Sono stati realizzati due volumi di studi che, tramite una selezione tematica attentamente programmata, ricoprono l’intera storia della letteratura e della cultura romena; il primo volume, curato dai proff. Bruno Mazzoni e Angela Tarantino, è uscito nel 2010; l’altro, a quanto so, è in preparazione. Si tratta di un’opera accademica, corredata da un ampio apparato, destinata agli studenti italofoni e agli specialisti che si interessano di cultura romena; per la sua prospettiva storica e culturale e per le sue mete, il progetto si differenzia dal modello soggettivo e saggistico prevalente nella storia letteraria romena. Il finanziamento è stato il risultato di un concorso nazionale dove, certamente, ha contato il valore delle idee e dei collaboratori; per avere una cultura moderna ci vogliono, in fin dei conti, lavori ben fatti, utili e duraturi – non necessariamente etnocentrici o focalizzati sull’attualità immediata.

In un suo recente articolo, Lei analizza una possibile contaminazione italiana nell’espressione romena «în pericol de viaţă» (in pericolo di vita). Si è interessata ad altre possibili contaminazioni o calchi recenti o meno recenti dall’italiano in romeno? Cosa ha potuto osservare al riguardo?

Io sono convinta che l’influsso dell’italiano sul romeno, nel periodo di intensa modernizzazione del nostro paese nell’Ottocento, è sottovalutato; sì, ci sono alcuni studi dedicati ai contatti, ai movimenti culturali e alle personalità che hanno favorito quest’influsso (che ha portato in romeno parole come stradă, piaţă, cont, graţie, ma anche convenzioni ortografiche quali la grafia di ce, ci, che, chi / ge, gi ecc.), però le sintesi storiche e i nostri dizionari generali preferiscono ancora assolutizzare il ruolo (indubbiamente, dominante) del francese, trascurando spesso il contributo della lingua italiana. Mi sono interessata anche alle approssimazioni popolari (tiribombă), ai prestiti relativamente recenti che, in parte, hanno cambiato senso (stranieri), al parziale adattamento dei termini gastronomici (pizza, pasta) ecc. Sono contenta che sia cominciato lo studio sistematico della parlata dei romeni emigrati in Italia, che vivono e lavorano lì e che usano parole e modi sintattici che mescolano spontaneamente l’italiano al romeno. In internet si trovano numerosissimi esempi di tali interferenze, benché la maggior parte di esse non siano diventate uso corrente.

Una curiosità per finire: la forza con cui Lei porta avanti da tanto tempo, parallelamente al suo lavoro di ricerca, numerose rubriche settimanali è ammirevole. Che cosa giustifica, ai suoi occhi, un tale consumo di energie?           

Le rubriche settimanali sono un’ottima scusa per trascorrere il tempo ascoltando come parla il mondo, cercando in internet, in vecchi libri e in vari dizionari, storie e particolari che appaghino la mia insaziabile curiosità. La verità è che mi piace scrivere frammentariamente, seguendo un’idea, una domanda, una novità. Io temo la ripetizione e fuggo la monotonia; e non rinuncio alla rubrica perché so che, senza l’obbligo di scrivere settimanalmente, sprofonderei del tutto nella lettura e rimanderei all’infinito lo scrivere. Purtroppo, anche così, riesco a mandare i miei testi solo all’ultimo momento, provocando il panico della redazione che deve chiudere il numero. D’altra parte, gli argomenti non mancano mai: ogni momento appaiono parole e sensi nuovi che dicono molto, nel bene e nel male, del mondo in cui viviamo.    




Intervista realizzata e tradotta da Smaranda Bratu Elian
(n. 5, maggio 2016, anno VI)