Romana Petri: «Il vero filo rosso che unisce le donne, riuscire a far sentire anche la nostra voce»

Ospite di Femminile plurale è Romana Petri, nata a Roma nel 1965, editrice, traduttrice e critica letteraria, da maggio in libreria con il suo nuovo romanzo, Mostruosa maternità (Perrone Editore, 2022), di cui parliamo nella nostra intervista a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone.
Considerata dalla critica come una delle migliori autrici italiane contemporanee, Romana Petri (nome d'arte di Romana Pezzetta, nata a Roma nel 1965) ha scritto numerosi libri tra romanzi e raccolte di racconti e ha ottenuto prestigiosi premi e riconoscimenti. Tra le sue opere, Ovunque io sia (2008), Ti spiego (2010), Le serenate del Ciclone (2015, premio Super Mondello e Mondello Giovani), Il mio cane del Klondike (2017), Pranzi di famiglia (2019, premio The Bridge), Figlio del lupo (2020, premio Comisso e premio speciale Anna Maria Ortese-Rapallo) e Cuore di furia (2020). È stata inoltre finalista per due volte al Premio Strega. Le sue opere sono tradotte in Olanda, Germania, Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Portogallo.


Lei indaga il sentimento che lega una madre ai suoi figli. Tale sentimento talvolta unisce, talvolta disunisce. Perché non per tutte le donne mettere al mondo un figlio significa gioia e appagamento?

C’è stato un errore all’inizio dei tempi. Certo, la donna partorisce, la riproduttrice del genere umano è lei. Ma all’inizio le donne erano talmente sottomesse da non avere altra ambizione. Una donna sterile, per esempio, era inutile, gli uomini la ripudiavano. Soprattutto chi era al comando di un popolo e voleva un erede. Da molti anni le cose sono cambiate, ma senza cambiare realmente. Una donna che non partorisce non si sente intera. Ma questo non vuol dire desiderare realmente avere un figlio. Dovrebbe esserci maggior libertà mentale. Alle donne, mettono in testa che se non avranno figli, un giorno, quando sarà troppo tardi, se ne pentiranno. Dobbiamo arrivare al punto che quel giorno non sia di pentimento indotto.


Iniziando e chiudendo con il caso Franzoni, i racconti vanno dal Medioevo ai nostri giorni. In quale parte della mente può andare a finire il pianto dirotto di un figlio?

Probabilmente nella parte più fragile, in quella meno convinta di essere madre, o in quella spaventata dell’impegno che significa la maternità. Ma il percorso che realmente fa questo pianto non lo sapremo mai. Di certo, qualche volta, va a finire in un tragico rifiuto definitivo.


Mostruosa maternità è un viaggio nella parte più oscura e indicibile dell’universo femminile. A suo avviso quali sono le ragioni dell’assordante silenzio che lo circonda?

Delle necessità di una donna madre quasi nessuno si fa carico. Il problema di alcune maternità è quello della solitudine, quando invece una maternità dovrebbe essere condivisa. Alcune donne cadono in una profonda depressione dopo il parto perché hanno l’impressione che invece di aver ricevuto più vita dal figlio, quella vita sia stata loro sottratta. Ha a che fare con la paura, con il senso di inadempienza.


Nell’era del selfie quale senso di inadeguatezza estetica durante la gestazione può fare impazzire?

Viviamo in un’epoca nella quale la bellezza estetica è diventata quasi tutto. Molte giovani donne soffrono di disturbi alimentari. Mangiano troppo, non mangiano quasi nulla. L’importante è guardarsi allo specchio e trovarsi all’altezza. La maternità è un momento in cui il corpo si deforma. Per alcune donne tornare come prima diventa un’incognita spaventosa.


Dagli anni ’60 del Novecento il corpo delle donne diviene l’interprete della discussione politica, il movimento femminista esplora i paradigmi e i ruoli stereotipati delle donne mentre l’azione dei collettivi arricchisce le meditazioni sulla differenza di genere. Oggidì, il corpo messo al centro del dibattito nella società contemporanea è quello muliebre. Quali forze diverse e in contrapposizione si combattono su questo campo?

Oggi anche il corpo del maschio è sotto osservazione. Muscoli, addominali scolpiti… Ma c’è una differenza. Le donne sono state comunque educate a non considerare la bellezza fisica dell’uomo fondamentale. Gli uomini, invece, dalle donne pretendono una bellezza sempre intatta. È anche questa corsa (femminile) contro il tempo a spaventare. Plastiche deformanti a favore di qualche ruga in meno. Volti resi quasi immobili pur di avere una pelle con vent’anni di meno. Tutte le rivoluzioni che sono state fatte a favore dell’emancipazione femminile ci hanno riportato non proprio al punto di partenza, ma di certo a un abbassamento del sé per quel che riguarda il corpo. Purtroppo, nonostante tutto, il corpo di una donna che ha superato i cinquanta è ancora considerato da buttare.


La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?

Vorrei tanto che tutto questo scomparisse. Sarebbe il primo vero passo in avanti. Niente generi letterari, solo buona o cattiva letteratura. Parlare di letteratura delle donne è un ghetto dal quale sarà sempre più difficile uscire. Non si è mai parlato di letteratura al maschile. Non ce ne è mai stato bisogno. Le donne, invece, hanno dovuto usare questo espediente convinte che sarebbe stato utile per uscire dalle pareti di casa. Non è stato così. Letteratura e basta. Senza sesso. Questo dovrebbe essere il punto di arrivo.


Le scrittrici sono e sono state sensibili a diverse ideologie, visioni del mondo, sensibilità politiche e filosofiche; personalità diverse tra loro e spesso assolutamente inconciliabili. Riesce a scorgere un fil rouge che annoda le plurime e molteplici anime della letteratura declinata al femminile?

Jane Austen e le sorelle Brontë hanno cominciato a scrivere usando nomi maschili. La dice lunga. E io credo che sia ancora così. All’epoca per poter essere pubblicate, oggi per essere tenute in maggior considerazione. Credo dunque che questo fil rouge, se mai dovesse esserci (ma io spero tanto che ogni scrittrice abbia il suo) sia quello del riscatto in un mondo nato e fatto per gli uomini. C’è ancora molta strada da fare. Da Simone Weil a Hanna Arendt, da Simone de Beauvoir a Dacia Maraini, il vero filo rosso è sempre stato quello di riuscire a far sentire anche la nostra voce.


Taluni reputano che la Letteratura non prescinda dal tempo per interpretare semplicemente lo spirito della Storia universale e che, ciononostante, essa sia congiunta alla finalità delle mode e a qualsivoglia ambito del gusto. Quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

La scrittura non salva il mondo, e comunque se mai lo avesse fatto, oggi lo fa meno. La ragione è semplice, ci sono sempre meno lettori. Molti lettori sono morti, ma non sono stati sostituiti dalle nuove generazioni. E i libri che vengono letti più degli altri sono quasi sempre di intrattenimento, consolatori. Insomma, tutto quello che non è letteratura. Tutto quello che non inquieta e dunque non spinge a un’intima riflessione.


Hegel sviluppa una definizione del romanzo: esso è la moderna epopea borghese. Lukács afferma che questo genere, essendo il prodotto della borghesia, è destinato a decadere con la morte della borghesia stessa. Bachtin asserisce che il romanzo sia un «genere aperto», destinato non a morire bensì a trasformarsi. Oggi, si notano forme «ibride». Quali tendenze di sviluppo ravvede di un genere che continua a sfuggire a ogni codice?

C’è un decadere di qualità. Oggi bisogna mettere tutto in mostra per essere notati. Hegel, Lukács e Bachtin sarebbero sconcertati. Nell’epoca dei social, qui dove ovunque si parla di sé stessi senza pudore, dalle sue storie d’amore all’unghia incarnita, dalle separazioni alle malattie senza scampo. L’unico tipo di letteratura che sopravvive è quello voyeuristico. La famosa autofiction. Questo così sopravvalutato ha fatto sì che molti siano giunti alla conclusione che solo la storia della loro vita sia il centro del mondo. Per carità, ci sono stati libri di grande valore che sono partiti da questo atteggiamento letterario. Ma non tutte le vite sono interessanti e, soprattutto, non tutti gli scrittori sanno scrivere dando importanza alla forma. Credo che a volte potrebbe bastare una lettera alla propria madre per essere o non essere un grande scrittore/scrittrice. Della scrittura, quella diversa dalla realtà (che incombe) oggi sono in pochi a essere interessati.


La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2022. In che misura pensa sia conosciuta in Italia e quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?

Abbiamo un editore come Voland che ne pubblica molta e di grandissima qualità. Anche in Francia c’è sempre stato molta attenzione verso la letteratura romena. Ho amato molto Ana Blandiana, Mircea Eliade ed Emil Cioran. Tutta letteratura profondamente inquietante, e che dunque mette il lettore con le spalle contro il vuoto. Per non cadere è costretto a pensare. Diceva Antonio Tabucchi: «Se devi leggere, leggi bene. Altrimenti guarda le stelle».







A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone

(n. 6, giugno 2022, anno XII)